Napoli: "Risanamento? È mancata la volontà politica"
Intervista a Riccardo Realfonzo
di Gianni Trovati
Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2015
Nel 2009 l’allora sindaco di Napoli Rosa Russo Jervolino lo chiama per mettere a posto un bilancio comunale che già zoppica, ma il suo piano per tagliare i costi e rimettere in moto la macchina comunale viene bloccato e lui si dimette dopo pochi mesi. Anche per questa ragione, nel 2011 Luigi De Magistris lo vuole accanto a sé come bandiera della “discontinuità” rispetto al vecchio centrosinistra, lo riporta all’assessorato al Bilancio ma nel giro di un anno la scena si ripete: proposte troppo “radicali”, rottura con il sindaco e l’inaspettato “licenziamento”.
Riccardo Realfonzo, economista keynesiano e docente universitario, ha l’aria mite e idee progressiste, ma negli ultimi anni è stato al centro delle polemiche più accese sui conti del Comune con tutti i colori del variegato centrosinistra napoletano. A gennaio 2013, letto il piano di rientro scritto dalla Giunta, taglia una previsione netta: «Progetto irrealistico, il Comune è al dissesto».
Professore, la Corte sembra dare ragione alla sua analisi: che cosa è mancato al risanamento?
La volontà politica, non certo gli elementi per conoscere il problema dei conti, che era noto da tempo. Io stesso, da assessore, nel 2011 avevo presentato un piano che individuava i problemi e avanzava soluzioni praticabili.
Quali?
Le direttrici principali erano tre: riorganizzazione degli uffici, per farli funzionare al meglio eliminando le sacche di inefficienza; dismissione vera di alcune partecipate, che pesano sui conti comunali, e ristrutturazione della Governance; lotta all’evasione dei tributi, e ai buchi che si aprono perché il Comune iscrive a bilancio entrate che poi non incassa.
Che cosa ha ostacolato l’applicazione di queste idee?
Il piano incideva su interessi consolidati, sulle gestioni clientelari di alcune partecipate e su equilibri di potere che sono stati deleteri per la città ma che evidentemente sono ancora resistenti.
Il centrosinistra, a cui lei è legato, ha però forti responsabilità in questa situazione.
Senza dubbio alcuni problemi di gestione risalgono già ai primi anni Duemila. Proprio per questo avevo accolto la sfida del rinnovamento lanciata da De Magistris. Ma il sindaco, evidentemente, non ha compreso la portata del problema. E non ha avuto il coraggio di cambiare rotta.
Perchè i conti di Napoli non tornano
di Gianni Trovati
Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2014
Nuovi debiti che cancellano vecchi debiti, in una sorta di catena di Sant'Antonio di cui non si scorge la fine. È questa la contestazione chiave mossa al piano "anti-dissesto" varato l'anno scorso dal Comune di Napoli nel tentativo di schivare il burrone del default. Il piano è stato appena bocciato dai magistrati contabili della Campania, e nella ricca documentazione istruttoria ci sono tutte le bordate destinate a ricomparire nelle motivazioni ufficiali della bocciatura che stanno per essere pubblicate. La partita è ancora aperta, il sindaco ha già annunciato il ricorso alle sezioni riunite ma a giudicare dalle analisi della Corte dei conti il progetto di Palazzo San Giacomo ha bisogno di una ristrutturazione profonda per poter camminare sulle proprie gambe. Oltre che aperta, la partita è delicatissima, per le conseguenze che avrebbe il dissesto della terza città italiana: i tanti creditori del Comune dovrebbero mettersi in fila nella lunga attesa delle transazioni fallimentari, De Magistris e la sua Giunta dovrebbero abbandonare ogni carica elettiva per 10 anni, e la macchina del Comune e delle partecipate andrebbe incontro a una ristrutturazione profonda. A Napoli, del resto, i tempi lunghi del dissesto se li ricordano bene, perché il capoluogo campano è già stato protagonista del default record avviato nel 1993 e chiuso solo a metà degli anni 2000: allora, però, pagava lo Stato.
La montagna del passivo
I numeri, prima di tutto, mostrano le dimensioni ciclopiche del passivo da recuperare per riportare i conti in ordine. Il piano di riequilibrio vale 1,4 miliardi: per capirsi, il nuovo tributo sui servizi indivisibili (Tasi) applicato all'abitazione principale dovrebbe portare in un anno 1,7 miliardi a tutti i Comuni italiani, da Livigno a Portopalo di Capo Passero. Per risalire questa montagna, il Comune punta a recuperare oltre 800 milioni dalle dismissioni di immobili e quote delle società partecipate, e di raccogliere il resto dagli aumenti di tributi e tariffe, tagliando qualche spesa corrente nell'organizzazione dei servizi. Un piano ambizioso? Sulla carta sì, ma nell'analisi dei tecnici prima e dei magistrati contabili poi tanto coraggio sembra sfumare. Al punto che, secondo la Corte, invece di portare i conti in equilibrio il piano del Comune di Napoli finirebbe addirittura per aumentare i deficit annuali, dai 570 milioni calcolati per il 2013 ai 651 nel 2023, con un picco a 714 milioni nel 2018. Un'emorragia senza fine.
Chi paga?
Il colpo più duro arriva fin dalla premessa. Il Comune di Napoli ha ricevuto nei mesi scorsi 220 milioni di euro dallo Stato per ripartire evitando il crack, e 297 milioni (altrettanti sono in calendario nel 2014) dalla Cassa depositi e prestiti per pagare i fornitori come previsto dal decreto «sblocca-debiti». Questo mezzo miliardo abbondante è stato subito messo a bilancio dal Comune, che per questa via ha abbattuto il proprio deficit da 783 a 267 milioni (un altro rosso da 850 milioni aveva colorato il consuntivo dell'anno prima): peccato, però, che questi soldi sono arrivati a Napoli come "anticipazioni di liquidità", cioè come prestiti che vanno restituiti con tanto di interessi (i due assegni targati Cassa depositi e prestiti dovrebbero costare di interessi circa 340 milioni in 30 anni). Il finanziamento, rimarca la Corte dei conti, «non migliora la situazione amministrativa del Comune, in quanto ai debiti smaltiti si sostituiscono i nuovi debiti generati dal ricorso alle anticipazioni di liquidità». Eccola qui, la catena di Sant'Antonio, in cui il vecchio debito è cancellato con un prestito che a sua volta genera nuovi debiti, in un meccanismo infinito che moltiplica gli interessi.
Vendesi
Il problema è che al momento le uniche entrate certe sembrano quelle arrivate da Roma, perché anche il vero e proprio «piatto forte» del piano di riequilibrio, la maxi-dismissione immobiliare, pare «forte» solo sulla carta. Palazzo San Giacomo progetta di incassare 800 milioni in dieci anni dalle vendite del mattone, ma per farlo dovrebbe rivoluzionare una storia di dismissioni che a Napoli ha finora creato solo buchi nell'acqua. Nel 2006, per esempio, il Comune ha messo in vendita 15.536 immobili, ma alla fine le dismissioni sono state 2.622. Non solo: i contratti di compravendita si sono poi fermati a quota 1.914, ma solo 670 hanno prodotto qualche incasso. In pratica, le entrate reali hanno riguardato il 4% degli immobili messi in vendita, con un bilancio magrissimo da 52 milioni di euro. L'anno scorso, il Comune ha riprovato ad accelerare, ma senza successo visto che i milioni arrivati in cassa sono stati 19,2 invece dei 31 previsti. Dopo tutti questi inciampi, Napoli prevede di correre al ritmo di 80 milioni all'anno per dieci anni, senza nemmeno «un dettagliato cronoprogramma del suddetto ambizioso piano», per dirla con la Corte dei conti. Ma i magistrati non ci stanno.
Le tasse
Anche le cura fiscale scritta nel piano di rientro, che prevede di aumentare le entrate alzando aliquote e tariffe, ha un problema, che si chiama «capacità di riscossione». La macchina delle entrate del Comune di Napoli è inceppata, riesce a portare in cassa poco più del 60% di quanto dovrebbe e gli inciampi della riscossione hanno avuto un peso non secondario nei buchi che si sono aperti nei conti napoletani. Anzi, negli ultimi anni il tasso di riscossione è sceso ulteriormente, i revisori dei conti hanno segnalato «un peggioramento nel recupero dell'evasione tributaria» ed è ovvio che, se le aliquote crescono mentre la situazione economica e sociale della città ha la febbre alta, far pagare le tasse diventa più difficile e il rischio di evasione cresce ulteriormente.
Il buco delle società
Asia, Anm, Caan, Elpis, Bagnolifutura, Mostra d'Oltremare sono solo alcuni dei grani nel rosario delle perdite scritte nei bilanci delle società partecipate nel Comune di Napoli, che negli ultimi cinque anni hanno accumulato in media un rosso da 30 milioni all'anno. Il piano di risanamento, però, non ne parla, non cita l'eventuale necessità di ripiani e ricapitalizzazioni e sembra supporre che tutti i conti delle società del Comune debbano magicamente colorarsi di nero. Difficile da pensare, tanto più che i controlli latitano e le spese faticano a trovare un equilibrio. Da anni, per esempio, i Comuni devono calcolare i tetti di spesa sommando il personale del municipio e quello delle partecipate: Napoli, per questa ragione, aveva sforato i limiti, dedicando agli stipendi più del 50% delle uscite totali e sarebbe incappato nel blocco totale delle assunzioni. Per dribblarlo, al Comune hanno tolto dal calcolo i dipendenti di Anm (Napoli mobilità; quasi 20 milioni di perdite negli ultimi cinque anni) perché la società opera anche con altri Comuni: l'azienda, però, è del 100% di Palazzo San Giacomo, lo Statuto la definisce soggetta «all'attività di direzione e coordinamento del Comune di Napoli» e per la Corte dei conti la mossa contabile è «un mero espediente» per sottrarsi ai tetti di spesa
E i tagli?
Tutta l'ambizione che nel piano sembra caratterizzare la colonna delle entrate, del resto, scompare quando si passa ai tagli di spesa. Napoli ha 9.455 dipendenti (più altri 8.500 nelle partecipate), ma nel piano di rientro l'organico viene fissato a 10.474 e si prevede di sfruttare fino in fondo tutti gli spazi assunzionali permessi dalle leggi. In prospettiva i risparmi ci sono (85 milioni in dieci anni, ma per la Corte la stima è troppo generosa), ma sono quelli imposti dai limiti al turn over a tutti i Comuni, compresi quelli in salute. Per la Corte dei conti, il progetto del Comune si limita a un «rispetto formale» dei vincoli di finanza pubblica, senza mettere in campo alcun «sostanziale segnale di discontinuità»: non è proprio il massimo, per una città che balla pericolosamente sull'orlo del dissesto.