Un contratto per il futuro
Appello degli economisti
L'Unità, 17 gennaio 2016, pag. 1
I prossimi rinnovi dei contratti di lavoro potrebbero consentire alle parti sociali di fornire un prezioso contributo alla rimozione di alcuni ostacoli alla crescita del Paese, riattivando la domanda, favorendo l’aumento della produttività, esortando il Governo a varare nuove politiche industriali. A cominciare dal contratto dei lavoratori metalmeccanici, da sempre riferimento per tutta la contrattazione nazionale, sarebbe indispensabile che le parti sociali raggiungessero un accordo unitario che - come hanno chiesto all’unisono i sindacati confederali dei lavoratori - evitasse di congelare i salari, limitandosi magari a distribuire aumenti in busta paga e dosi di welfare aziendale nelle sole imprese in cui si registri una positiva dinamica della produttività. Un contratto di questo tipo non favorirebbe la ripresa della domanda e insisterebbe nella ricerca di una competitività fondata sulla compressione assoluta dei costi di produzione e sull’utilizzo delle tecnologie più tradizionali.
Per comprendere quale sia la svolta contrattuale di cui c’è bisogno, è necessario ricordare che l’economia italiana ha reagito in modo particolarmente negativo alla crisi del 2008, considerato che ancora oggi il valore della produzione nazionale resta inferiore in termini reali di quasi 7 punti percentuali rispetto ad allora e la disoccupazione rimane quasi doppia. Ebbene, stando a risultati consolidati della ricerca scientifica, le ragioni principali di questo tracollo sono da ricercare principalmente nelle asfittiche dinamiche italiane di lungo periodo della domanda e della competitività.
Per quanto attiene al debole andamento della domanda aggregata di merci e servizi, gli economisti largamente concordano sulle gravi responsabilità del sistema dei vincoli europei e delle connesse politiche di austerità praticate in questi anni. Gli effetti di queste politiche si sono inoltre sommati a una tendenza di lungo periodo al ristagno della domanda interna, causato in certa misura dalla linea di moderazione salariale avviata con il Patto del luglio 1993. A riguardo è sufficiente ricordare, utilizzando i dati della Commissione Europea, che la quota del prodotto interno lordo che remunera i lavoratori si è ridotta nell’ultimo quarto di secolo di circa 8 punti percentuali. Dei rinnovi contrattuali che oggi tendessero a inasprire tali tendenze, tramite il congelamento dei salari, provocherebbero una ulteriore crisi della domanda interna, con effetti deleteri su larga parte del sistema nazionale delle imprese. Ciò che serve, dunque, è sostenere i redditi dei lavoratori per alimentare la domanda.
In tema di competitività, per quanto i vertici di Federmeccanica si ostinino a ribadire che il problema dipenda dal livello dei salari, come ha riconosciuto persino l’ufficio studi di Confindustria “l’andamento delle due componenti del Costo del Lavoro per Unità di Prodotto (costo del lavoro e produttività) mostra che il problema italiano è, soprattutto, la produttività”. È infatti l’asfittica dinamica della produttività che - come mostrano i dati della Commissione Europea – ha generato la progressiva perdita di quote nel commercio internazionale cui assistiamo dai primi anni Novanta. Ed è nel Mezzogiorno che l’evidenza di queste tesi si dimostra con il dato maggiormente eclatante: ai più bassi salari corrisponde il più alto costo del lavoro per unità di prodotto. Alla base della crisi di competitività italiana vi sono quindi alcune insufficienze ataviche del sistema produttivo, che persistono ancora oggi. In vari settori, inclusa l’industria metalmeccanica, continua a persistere un modello di specializzazione produttiva mediamente fondato su imprese piccole, che investono poco nelle nuove tecnologie e nella formazione dei lavoratori, e che operano in un contesto in cui vi sono infrastrutture pubbliche, materiali e immateriali, inferiori agli standard dei Paesi avanzati dell’Unione Europea. Una condizione di inadeguatezza che si sta ulteriormente approfondendo dopo la crisi del 2008 e che le cosiddette “riforme strutturali” difficilmente potranno controbilanciare. Il problema delle imprese italiane, dunque, non verte su un eccessivo peso dei salari, ma nella insufficienza di investimenti pubblici e privati.
Per queste ragioni, il rinnovo contrattuale dei lavoratori metalmeccanici, il più grande comparto dell’industria italiana, può costituire la concreta occasione per riprendere una franca discussione sulle reali “strozzature” alla crescita e per indicare nuove vie di rilancio. Una analisi delle dinamiche del sistema produttivo italiano aiuterebbe a comprendere che a nulla serve, oggi, un nuovo indebolimento del contratto nazionale e la cancellazione della sua funzione perequativa, né aiuta un blocco totale della dinamica salariale. Piuttosto, è necessario un contratto che valorizzi il lavoro, aiuti le imprese ad innovarsi, ed esorti unitariamente il Governo a varare urgenti politiche industriali che sostengano le imprese e che le pongano progressivamente in condizioni di operare in un contesto infrastrutturale più adeguato. Ci auguriamo che le componenti più vitali e lungimiranti delle parti sociali possano chiudere una stagione contrattuale che parli al Governo, e che esorti tutti a porre in essere le innovazioni di cui l’economia italiana ha urgente bisogno.
L’appello è promosso da Giovanni Dosi (Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche) e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio).
Il documento è anche sottoscritto da Salvatore Biasco (Università di Roma La Sapienza), Adriano Giannola (SVIMEZ), Maria Cristina Marcuzzo (Università di Roma La Sapienza), Mario Pianta (Università di Urbino Carlo Bo), Gustavo Piga (Università di Roma Tor Vergata), Felice Roberto Pizzuti (Università di Roma La Sapienza), Antonella Stirati (Università di Roma Tre), Leonello Tronti (ISTAT) e Vincenzo Visco (Università di Roma La Sapienza).