Questione meridionale: il disimpegno statale avviò la retromarcia
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno/Mezzogiorno Economia, 3 marzo 2014
Ancora oggi abbiamo molto da apprendere dalla vicenda dell’intervento per il Mezzogiorno e in particolare dal mutamento delle politiche che si verificò alla metà degli anni ’70 del Novecento. Preliminarmente, è necessario ricordare che agli inizi degli anni ’50 il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord era particolarmente ampio. Infatti, nel 1951 il reddito medio di un cittadino del Mezzogiorno arrivava appena al 53% di quello di un abitante del resto del Paese. Quel valore fece un balzo di ben 12 punti, raggiungendo il 65% nel 1972, per poi avviare, con vicende alterne, una lunga triste discesa destinata a riportare il divario ai valori degli anni ’50. Oggi, infatti, il reddito di un meridionale si aggira intorno al 58% del reddito di un abitante del Centro-Nord. Cosa è accaduto? Come mai il Mezzogiorno aveva avviato una rincorsa verso i ritmi di crescita della parte più ricca del Paese e successivamente è ripiombato in una divergenza crescente?
Le ragioni di questa drammatica vicenda, fatta di speranza e delusione, sono essenzialmente due.
Il primo fattore da chiamare in causa è la politica di intervento straordinario per il Mezzogiorno. Come è ben noto, all’indomani della seconda guerra mondiale, ci fu una svolta politica a favore dell’industrializzazione del Sud. Gli interventi, condotti dalla Cassa del Mezzogiorno e sostenuti anche dalla Banca Mondiale, permisero di incanalare risorse pubbliche crescenti verso il Mezzogiorno. L’impegno a favore della localizzazione di grandi imprese conobbe il culmine nel 1972, quando ben il 37% degli investimenti industriali italiani si concentrarono nel Sud. Poi venne lo shock del prezzo del petrolio del 1973, l’inflazione, il buco dei conti con l’estero e le politiche di austerità, varate allo scopo di ridurre il deficit dei conti con l’estero. Insomma, non era più possibile sostenere un massiccio intervento per il Mezzogiorno, perché ora si trattava di soccorrere la parte più avanzata dell’economia italiana. E così cominciò il disimpegno, che si concretizzò con la chiusura della Cassa, la fine dell’intervento straordinario, e il varo – nei primi anni ’90 – della nuova programmazione per il Mezzogiorno.
L’altro fattore da considerare è la nascita delle Regioni, che furono istituite nel 1970, alle quali fu affidata la responsabilità dell’intervento straordinario. Con l’avvento delle Regioni la logica di intervento dall’alto, fondata sui principi della programmazione e della pianificazione territoriale, venne ad essere accantonata. Venivano ora a prevalere le logiche particolari dei singoli territori e i meccanismi, troppo spesso perversi, del governo politico locale. L’intervento per il Mezzogiorno perdeva risorse e cominciava anche a degenerare, con l’affermazione di una classe politica locale che molte volte piegava l’utilizzo delle risorse pubbliche ai fini della propria riproduzione e che finiva per essere implicitamente ostile a uno sviluppo industriale. Le politiche di intervento sfociavano così nell’assistenzialismo.
Gli insegnamenti da trarre da questa tragedia collettiva sono almeno due.
Il primo è che per innescare processi di convergenza territoriale occorrono ingenti risorse e una grande volontà politica. La favola secondo cui i meccanismi di mercato consentono spontaneamente alle aree meno avanzate di agganciare lo sviluppo delle aree prospere è ormai destituita di basi scientifiche. La realtà è che il mercato generalmente conserva i divari territoriali e qualche volta incrementa le disuguaglianze nei ritmi di crescita del prodotto sociale. Non a caso, in questa epoca di austerità e disimpegno delle politiche economiche in Europa si moltiplicano i processi di mezzogiornificazione (per dirla con Krugman): cresce lo squilibrio tra aree centrali e aree periferiche. L’eccezione che conferma la regola è data dai colossali investimenti che i tedeschi stanno facendo nelle aree della vecchia Germania Est, favorendone una rapida convergenza con il resto del Paese.
Il secondo e più amaro insegnamento da trarre è che i localismi e gli interessi dei governi territoriali meridionali sono spesso entrati in conflitto con lo sviluppo del Mezzogiorno. Come osservava Augusto Graziani nel 1990, la classe politica locale ha troppo spesso “fatto del clientelismo e della corruzione le leve principali del proprio agire”. Una pessima qualità della spesa che ha costituito un eccellente alibi per quanti hanno sostenuto l’esigenza di un disimpegno economico nel Sud da parte del governo nazionale. Sotto questo aspetto, noi meridionali continuiamo ad essere i peggiori nemici di noi stessi.