Giusto superare il vincolo del 3%
di Riccardo Realfonzo
L’Unità, 4 gennaio 2014
In una intervista di inizio anno al Fatto Quotidiano Matteo Renzi ha sostenuto, tra l’altro, la necessità che il governo giunga a muovere le leve dell’imposizione fiscale e della spesa pubblica superando il vincolo europeo del deficit al 3%. Si tratta di una buona notizia, perché ciò conferma quanto il neo-segretario del Pd sia consapevole dell’impatto recessivo che il quadro delle regole europee ha sull’economia italiana.
L’idea di andare oltre il limite del 3% sul deficit l’ho avanzata a più riprese nei mesi scorsi, anche sulle pagine de L’Unità (“Per non finire nel baratro”, 31 maggio 2013). Ma si tratta di una proposta che evidentemente non ha convinto il ministro Saccomanni: non vi è dubbio, infatti, che la Legge di Stabilità si muova pienamente all’interno dei vincoli europei, e che per questa ragione non sia in grado di fornire all’economia italiana la spinta necessaria a uscire dal baratro. La proposta di sforamento del vincolo del 3% aveva due motivazioni di fondo, una riguardante l’impatto immediato sull’economia, l’altra la necessità di spingere verso una rivisitazione delle regole macroeconomiche europee.
Sotto l’aspetto dell’urgenza economica, nessuno può negare che l’economia italiana sia stretta in una morsa dipendente da insufficienze che registriamo tanto dal lato della domanda quanto da quello dell’offerta. Dal versante della domanda, i dati ufficiali dimostrano che nell'ultimo decennio l'Italia è il solo grande Paese europeo a registrare una dinamica complessivamente negativa. Ciò è una conseguenza soprattutto del forte ristagno dei consumi e del crollo degli investimenti, che tra il 2002 e il 2012 si sono addirittura contratti del 21%. Dal versante dell’offerta, gli studi disponibili chiariscono che il grado di infrastrutturazione del nostro Paese è ancora insufficiente e che soprattutto il tessuto produttivo italiano mostra gravi inadeguatezze: imprese generalmente piccole e piccolissime, che operano in settori tradizionali e che investono pochissimo in nuove tecnologie. Tare nuove e vecchie (quelle relative all’apparato produttivo sono ben più antiche dell’euro), per le quali servirebbero strategie aggressive, che non sono compatibili con una politica di stretto rigore sul deficit. Per questa ragione, avrebbe ancora senso la proposta di sforare il vincolo del 3%, portando a zero l’avanzo primario, cioè l’eccesso del prelievo fiscale sulla spesa pubblica (con esclusione degli interessi sul debito). Una manovra di questo tipo farebbe infatti crescere, nelle condizioni attuali, il deficit pubblico progressivamente al di sopra del 5,5% del Pil, liberando non meno di 35-40 miliardi di euro per politiche dal lato della domanda e dell’offerta: ad esempio intervenire massicciamente sul taglio del cuneo fiscale, ma anche rilanciare vere politiche industriali, spingendo le imprese italiane a compiere l’indispensabile salto tecnologico e dimensionale.
Portare la politica fiscale oltre il 3%, come afferma oggi Renzi, servirebbe però anche ad aprire il discorso sulla revisione delle regole europee. Crescono in Europa i movimenti anti-euro, e ciò si deve evidentemente alle gravi conseguenze sociali dell’austerità. Opportunamente, nell’intervista al Fatto Renzi accenna ai rischi di un’uscita dall’euro. Però, alle condizioni attuali, anche il permanere nell’euro presenta rischi molto elevati: quelli della desertificazione economica e del declino inarrestabile. E, al tempo stesso, l’esperienza della moneta unica, in assenza di una modificazione del quadro delle regole macroeconomiche, sembra destinata ad esaurirsi (come chiarito nel “monito degli economisti” pubblicato a settembre dal Financial Times).
Ecco allora qual è il passo che ancora Renzi dovrebbe provare a compiere. Chiarita la natura recessiva del quadro di regole europeo, assodata la necessità di andare oltre il vincolo del deficit, ora il Pd dovrebbe abbandonare ogni incertezza e assumere - meglio se d’intesa con altre forze progressiste europee - una linea richiesta di revisione dei trattati e di evoluzione in senso espansivo e solidaristico del palinsesto macroeconomico europeo, chiarendo che, in caso di fallimento di un tavolo di trattativa in tale direzione, una opzione di uscita dall’euro non potrebbe più essere esclusa. Solo la minaccia di un out-out preciso, da parte di una forza politica di sicura matrice europeista, come il Pd, potrebbe avere l’impatto politico necessario a favorire la svolta in Europa di cui abbiamo assoluto bisogno.