Quale politica industriale per il Sud
Solo rilanciando il Mezzogiorno l'economia italiana potrà avere una solida ripresa
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 3 settembre 2015
I dati Istat confermano che è in atto una moderata ripresa dell’economia italiana e che, indipendentemente dalle valutazioni sul carattere più o meno congiunturale di questi risultati, ci sono due Italie: il Centro-Nord nel quale la ripresa pare consolidarsi; il Mezzogiorno nel quale il Pil continua a ridursi e il tasso di disoccupazione resta al di sopra del 20%. Insomma oggi, come mai prima, la “questione meridionale” è questione nazionale: senza una ripresa del Mezzogiorno l’intera economia italiana non potrà sperare in una crescita robusta, che permetta di lasciarsi definitivamente alle spalle gli anni di declino e tornare ai valori occupazionali precedenti la crisi del 2007-2008.
A dispetto di ciò, il dibattito sugli strumenti di politica economica che dovrebbero confluire nel programma del governo stenta a decollare. Si parla molto di fondi europei, della necessità che essi vengano spesi in tempi congrui e soprattutto non dispersi in mille rivoli, più o meno clientelari. Si parla anche di ripristinare una fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno, rifinanziando le decontribuzioni e gli sconti Irap per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Attenzione: si tratta di interventi necessari, persino ovvi, ma non sufficienti. È indispensabile intervenire sui limiti intrinseci all’apparato produttivo meridionale. Tutti gli studi disponibili mostrano infatti che il sistema delle imprese meridionali si caratterizza per la piccolissima dimensione media delle aziende, per il bassissimo volume medio di investimenti in nuove tecnologie e formazione del personale, per la persistenza di modelli di governance e assetti proprietari tipici di un capitalismo familiare ogni giorno più inadeguato a reggere la concorrenza internazionale. Insomma, il tessuto delle imprese meridionali risulta in gran parte ancorato ai settori e alle tecnologie più tradizionali. Nel Sud il “made in Italy” di qualità e dal raffinato design resta una eccezione, mentre domina un modello di specializzazione produttiva che punta su una competitività da bassi costi di produzione e perde ogni giorno quote di mercato.
Le soluzioni che vengono generalmente prospettate si muovono su due estremi. Da un lato, ci sono le posizioni di chi, come la Svimez, denuncia con coerenza le strozzature allo sviluppo del Mezzogiorno ma appare ferma alla sola teorizzazione di un ritorno in campo dell’intervento pubblico. Dall’altro lato, ci sono le esortazioni di parte dell’imprenditoria meridionale che si limita a chiedere meno tasse e più mani libere. Queste posizioni appaiono entrambe inadeguate a gestire la fase attuale. Una nuova e più efficace proposta di politica industriale dovrebbe allora consistere nella adozione di un sistema di incentivi che puntino a intervenire sul modello di specializzazione produttiva, aiutando le imprese meridionali a compiere quel salto tecnologico, dimensionale e organizzativo che è oggi indispensabile. Lo spunto per l’analisi, in questa direzione, può essere tratto dall’esperienza del testo unico sul lavoro vigente in Regione Campania, il cui titolo terzo è dedicato alla definizione di un articolato sistema di incentivi per spingere le imprese a investire sull’Alta Qualità del Lavoro. Quella legge fu il prodotto di una ricerca meticolosa che coinvolse più istituti universitari del Mezzogiorno, che fu da me coordinata, e che come molte belle cose nel nostro Paese resta ancora in attesa di attuazione.
Senza una nuova e coraggiosa politica industriale per il Mezzogiorno, anche un migliore utilizzo dei fondi e le decontribuzioni sortirebbero effetti solo temporanei. Non riusciremmo ad attivare un autentico sviluppo autopropulsivo in questa parte del Paese. E resteremmo nel declino.