Il Pd apra la sfida per un'altra Europa

Il Pd apra la sfida per un'altra Europa
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 5 dicembre 2013

Qualunque sarà l’esito, la partecipazione democratica dell’8 dicembre segnerà un punto a favore della sinistra. Ma sul tema cruciale dell’Europa il confronto tra i candidati alle primarie non è mai realmente decollato; eppure per le sorti del Pd è vitale che il prossimo segretario assuma una posizione chiara e non demagogica sull’Europa. Se questo non accadrà, non è difficile prevedere che, passata la festa delle primarie e anche indipendentemente dalle sorti del governo nazionale, le elezioni europee consegneranno alla sinistra italiana una nuova delusione. Il punto, infatti, è che mentre il Pd tentenna e il governo rispetta i vincoli europei, Grillo da un lato e Berlusconi dall’altro parlano alla pancia del Paese, e si attrezzano per cavalcare il profondo malcontento che cresce intorno all’euro. Insomma, in assenza di una posizione convincente, il Pd rischia di rimanere spiazzato dagli avversari politici. C’è invece da augurarsi che il Pd faccia propria una posizione seria e precisa, realmente utile al Paese.
Per cominciare, il Pd dovrebbe trarre le conseguenze di ciò che agli addetti ai lavori è ormai chiaro: il sistema di vincoli europei sulle politiche monetarie e fiscali sta aggravando il profilo della crisi italiana e, più in generale, l’austerity sta moltiplicando gli squilibri europei, aumentando la divaricazione tra le aree centrali sviluppate, Germania in testa, e le aree periferiche, tra cui l’Italia. Si tratta di evidenze ormai acclarate, che hanno smentito un’idea bizzarra che fino a poco tempo fa andava di moda a Bruxelles come a Roma, secondo cui l’austerità avrebbe costretto le economie dei paesi periferici a “modernizzarsi”, avrebbe quindi sanato le asimmetrie continentali e avrebbe addirittura avuto effetti espansivi sull’economia. Piuttosto, come è stato chiarito nel “monito degli economisti” pubblicato dal Financial Times e riprodotto da L’Unità, il perdurare della crisi e l’accentuarsi delle divaricazioni mettono in luce che l’Unione non è stata affatto messa in sicurezza, come qualcuno affrettatamente si ostina a ripetere: la verità è che in assenza di una profonda discontinuità nelle politiche economiche, resta altissimo il rischio che alcuni paesi siano costretti a uscire dall’euro.
È su quest’ultimo passaggio, in particolare, che il Pd è chiamato ad assumere una posizione realistica e responsabile. Il dibattito contemporaneo – che per anni ha visto gli economisti keynesiani isolati nel denunciare i limiti dell’austerità – viene infatti oggi affollandosi di pseudo-esperti che vedono nell’uscita dall’euro e nei cambi flessibili la panacea per tutti i mali. Secondo queste tesi l’Italia dovrebbe abbandonare immediatamente l’euro per riprendere un sentiero di crescita. A riguardo, bisogna provare a essere chiari. È vero, infatti, che in assenza di un mutamento delle politiche europee la stessa Italia potrebbe essere costretta ad abbandonare l’euro, sotto la pressione delle tensioni economiche e sociali. Ma questa dovrebbe essere considerata comunque un’ultima spiaggia, una soluzione da adottare dopo avere concretamente verificato sino in fondo l’impossibilità di cambiare il quadro europeo. Infatti, non si possono superficialmente sottovalutare i potenziali costi sociali di una fuoriuscita dall’euro. Ad esempio, le esperienze dei paesi che hanno abbandonato accordi di cambio fisso segnalano che gli effetti sui salari sono stati molto diversificati tra loro, con paesi che hanno retto molto bene l’urto ma anche con altri che hanno fatto registrare pesanti cadute del potere d’acquisto. 
Quanto appena affermato aiuta a chiarire che l’introduzione di un rinnovato sistema di adeguamento automatico dei salari ai prezzi ridurrebbe i rischi, rendendo socialmente più accettabile una eventuale uscita dall’euro. Ma è chiaro che si tratta di uno scenario ipotetico che andrebbe evitato. Un modo per scongiurarlo, forse, potrebbe proprio consistere in una novità politica: il Pd potrebbe uscire dall’ambiguità assumendo, insieme ad altre forze politiche europee, una linea intransigente per un cambiamento in chiave espansiva e maggiormente solidaristica delle regole europee, e al tempo stesso esplicitando che in caso di fallimento delle trattative una opzione di uscita dall’euro non potrebbe più essere esclusa. Una presa di posizione del genere da parte del Pd, forza risolutamente europeista, non potrebbe più essere liquidata con un’alzata di spalle da parte del governo tedesco e delle autorità di Bruxelles. Il dibattito delle primarie è stato arido su questi temi delicatissimi e cruciali. Ma forse, anche per dare più spessore all’intera kermesse, non sarebbe giunto il momento che i candidati ci dicessero una parola più chiara sul decisivo nodo europeo?