L'asfissia degli atenei nel Sud

L’asfissia degli atenei nel Sud
di Riccardo Realfonzo
Il Corriere del Mezzogiorno, 11 febbraio 2016

La condizione delle università italiane suscita crescente preoccupazione. È opinione diffusa che le riforme degli ultimi lustri siano state varate per ridurre i finanziamenti statali agli atenei, contribuendo al cosiddetto “risanamento” della finanza pubblica, e per giunta abbiano fallito nel ripartire in modo efficiente le risorse tra le sedi universitarie. I tagli ai finanziamenti sono infatti andati avanti di pari passo con l’introduzione di meccanismi di valutazione che avrebbero dovuto premiare i migliori atenei, innescando processi competitivi virtuosi, e che invece sono finiti sotto accusa per le storture che generano.
Nel periodo 2008-2014 il Fondo complessivo per le Università è stato ridotto del 14 per cento, con ripercussioni negative sui servizi agli studenti e sulla ricerca scientifica, già sottofinanziata rispetto alla media europea. Ma al peso dei tagli si è aggiunto l’effetto sperequativo dei nuovi meccanismi distributivi, in virtù dei quali le università settentrionali hanno perso “solo” il 7 per cento delle risorse mentre quelle meridionali hanno lasciato sul tappeto quasi il 20 per cento. Una condizione che, se perdurante, rischia di portare a una polarizzazione tra università (del Nord) che a mala pena riusciranno a preservare risorse per la ricerca scientifica e università (del Sud) che dovranno dedicarsi solo all’insegnamento di base. Per questo, oltre che sul taglio complessivo, le critiche si incentrano sui sistemi di valutazione della qualità dei prodotti scientifici, che appaiono del tutto inadeguati, ma anche sulla introduzione del principio del costo standard (in base al quale le risorse vengono assegnate tenendo conto solo degli studenti in corso) e sugli altri indicatori, come la capacità degli atenei di attrarre risorse finanziarie esterne e da contribuzione studentesca.
Il punto è – come mostrato le ricerchedell’Osservatorio Regionale sul Sistema Universitario, una delle qualianticipata da economiaepolitica.it  – che questi indicatori sono largamente influenzati dal contesto socio-economico in cui le università operano. Si tratta del vizio contenuto anche nelle classifiche sfornate dal Sole 24 Ore e da Repubblica-Censis, che ordinano le università non in base a parametri seri di valutazione della ricerca e della didattica quanto sulla base di indicatori di contesto. Per fare un esempio, non è forse ovvio che gli atenei lombardi hanno ben maggiore facilità nel raccogliere contributi studenteschi o finanziamenti da imprese locali rispetto alle università campane? E pertanto possono erogare maggiori borse di studio accrescendo il grado di internazionalizzazione? Ripartire le risorse sulla base di quegli indicatori significa premiare chi opera nei contesti più vantaggiosi, approfondendo i divari territoriali.

I vertici accademici italiani sono ben consapevoli di queste difficoltà e non a caso oggi all’Università Federico II si terrà un dibattito che vedrà la partecipazione anche del Presidente della Conferenza dei Rettori. La questione è cruciale. Si tratta di sostenere il diritto allo studio e la ricerca scientifica sull’intero territorio nazionale. Condizioni essenziali per riprendere la via dello sviluppo italiano.