Nell’ambito della 51.ma riunione scientifica annuale, la Società Italiana degli Economisti ha organizzato una sessione di studi sul tema “Quali politiche per uscire dalla crisi?”
La sessione si terrà venerdì 15 ottobre 2009 presso la Facoltà di Economia dell’Università di Catania (Corso Italia, 55 - Catania), alle ore 11,15, con il seguente programma:
Presiede: Terenzio Cozzi (Presidente della SIE)
Relazioni:
Uscita dalla crisi o molla di ricarica verso una nuova crisi globale?
di Mario Baldassarri
Distribuzione del reddito e crisi economica
di Bruno Bosco, Emiliano Brancaccio, Roberto Ciccone, Riccardo Realfonzo e Antonella Stirati
Un’analisi quantitativa delle politiche di rientro dal disavanzo pubblico in Italia
di Francesco Carlucci
Debito pubblico, crescita e riforma fiscale: idee per ripartire
di Chiara Rapallini e Aldo Rustichini
Tutte le informazioni relative al Convegno di Catania sono disponibili sul sito della Società Italiana degli Economisti.
"dissento da quello che gli economisti americani chiamano mainstream, il comune modo di pensare della maggioranza. La nuova generazione di economisti, purtroppo, è fatta di conformisti" (Augusto Graziani)
Comune di Napoli: ancora sullo scandalo delle società partecipate
"Napoli, 2mila assunzioni nel mirino.
La replica del Comune: tutto in regola"
Il Mattino, 11 settembre 2010
"Persona informata dei fatti"
Cronache di Napoli, 8 settembre 2010
La replica del Comune: tutto in regola"
Il Mattino, 11 settembre 2010
"Persona informata dei fatti"
Cronache di Napoli, 8 settembre 2010
Le false promesse dell'austerità
Le false promesse dell'austerità
di Riccardo Realfonzo
Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2010
Come titolava ieri Il Sole 24 Ore, “Il liberismo rialza la testa” o almeno ci prova. Nel dibattito sulla politica economica in tanti si sforzano di argomentare che il riacutizzarsi della crisi negli Stati Uniti dimostrerebbe l’inefficacia delle politiche fiscali espansive, proposte da Obama, e la necessità di avanzare interpretazioni delle cause della crisi legate all’intervento pubblico in economia. Al tempo stesso, affermano che alcuni segnali di ripresa visibili in Europa già confermerebbero l’utilità delle politiche di austerità. Ma queste tesi – sostenute anche da Alberto Alesina nel suo articolo "Cara Europa il rigore è amico" (Il Sole 24 Ore, 28 agosto) – appaiono fragili.
Intanto, come argomentato in un recentissimo saggio di Alan Blinder e Mark Zandi, è difficile negare che senza le politiche espansive la situazione statunitense sarebbe assai peggiore. A ben vedere, il riacutizzassi della crisi conferma che nessuna grande area economica sta prendendo il posto degli Stati Uniti nel trainare la domanda mondiale e che è necessario insistere con le politiche espansive. Ma mostra anche che non si esce dalla crisi senza intervenire sulle sue cause più profonde, sanando il forte squilibrio presente nei paesi industrializzati, Stati Uniti in testa, tra crescita dell’offerta potenziale e ristagno della capacità di consumo dei lavoratori. Uno squilibrio che è principalmente l’esito della crescente sperequazione nella distribuzione dei redditi cui abbiamo assistito negli ultimi lustri.
Per quanto attiene all'Europa, il principale argomento dei fautori dell’austerità è costituito dalla ripresa dell’economia tedesca trainata dalle esportazioni. Ma è ben arduo ritenere che si tratti di un risultato delle politiche restrittive del governo Merkel. Piuttosto, negli ultimi mesi – come ha rilevato Sergio Cesaratto su economiaepolitica.it – la Germania ha tratto vantaggio dal deprezzamento dell'euro, risultato delle difficoltà di alcuni paesi a rimanere nell’unione monetaria, ma anche dalla dinamicità delle importazioni statunitensi dovuta proprio alle politiche espansive di Obama. E, comunque, questa ripresa tutta “opportunistica” delle esportazioni tedesche non serve a trainare lo sviluppo europeo e soprattutto ad arginare gli squilibri e gli impetuosi processi di divergenza in atto nell'eurozona.
A ben rifletterci, la fiducia con la quale gli economisti liberisti guardano ai benefici dei tagli alla spesa pubblica in Europa si dimostra smisurata. Occorre infatti rammentare che il primo ed unico effetto certo dei tagli alla spesa pubblica è quello della compressione dei redditi distribuiti, e quindi il calo della domanda. Quali sarebbero i meccanismi principali attraverso i quali l’austerità rilancerebbe lo sviluppo e la convergenza in Europa? Aumentando gli investimenti privati grazie alla riduzione del cosiddetto effetto di spiazzamento? Permettendo una riduzione della pressione fiscale? Ma questi risultati sarebbero, a ben vedere, l’esito di lunghe catene causali, aleatorie ed anzi irrealistiche. Infatti, non è detto che i tagli migliorino le condizioni della finanza pubblica, dal momento che essi retroagiscono negativamente sulle entrate fiscali. E non è detto che abbattano i rapporti deficit/Pil e debito/Pil, favorendo una “stabilizzazione” dei mercati finanziari, anche perché tendono a ridurre i denominatori di quei rapporti. E pure ipotizzando che i tagli portino davvero a una caduta dei tassi, ciò è addirittura compatibile con una ulteriore contrazione degli investimenti, visto che essi dipendono anche dalle aspettative di profitto. E poi, immaginare che in tempi di crisi sia possibile abbattere contemporaneamente il debito e la pressione fiscale appare non meno irrealistico.
Il fatto è che le tanto invocate politiche di austerità sono la peggiore scelta per affrontare la crisi. Possono arrecar poco danno esclusivamente a un paese che segua una strategia opportunistica - come fa la Germania - e che attraverso la bilancia commerciale tragga beneficio dalle politiche espansive altrui. Ma all’Europa e agli Stati Uniti non serve che il liberismo rialzi la testa.
di Riccardo Realfonzo
Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2010
Come titolava ieri Il Sole 24 Ore, “Il liberismo rialza la testa” o almeno ci prova. Nel dibattito sulla politica economica in tanti si sforzano di argomentare che il riacutizzarsi della crisi negli Stati Uniti dimostrerebbe l’inefficacia delle politiche fiscali espansive, proposte da Obama, e la necessità di avanzare interpretazioni delle cause della crisi legate all’intervento pubblico in economia. Al tempo stesso, affermano che alcuni segnali di ripresa visibili in Europa già confermerebbero l’utilità delle politiche di austerità. Ma queste tesi – sostenute anche da Alberto Alesina nel suo articolo "Cara Europa il rigore è amico" (Il Sole 24 Ore, 28 agosto) – appaiono fragili.
Intanto, come argomentato in un recentissimo saggio di Alan Blinder e Mark Zandi, è difficile negare che senza le politiche espansive la situazione statunitense sarebbe assai peggiore. A ben vedere, il riacutizzassi della crisi conferma che nessuna grande area economica sta prendendo il posto degli Stati Uniti nel trainare la domanda mondiale e che è necessario insistere con le politiche espansive. Ma mostra anche che non si esce dalla crisi senza intervenire sulle sue cause più profonde, sanando il forte squilibrio presente nei paesi industrializzati, Stati Uniti in testa, tra crescita dell’offerta potenziale e ristagno della capacità di consumo dei lavoratori. Uno squilibrio che è principalmente l’esito della crescente sperequazione nella distribuzione dei redditi cui abbiamo assistito negli ultimi lustri.
Per quanto attiene all'Europa, il principale argomento dei fautori dell’austerità è costituito dalla ripresa dell’economia tedesca trainata dalle esportazioni. Ma è ben arduo ritenere che si tratti di un risultato delle politiche restrittive del governo Merkel. Piuttosto, negli ultimi mesi – come ha rilevato Sergio Cesaratto su economiaepolitica.it – la Germania ha tratto vantaggio dal deprezzamento dell'euro, risultato delle difficoltà di alcuni paesi a rimanere nell’unione monetaria, ma anche dalla dinamicità delle importazioni statunitensi dovuta proprio alle politiche espansive di Obama. E, comunque, questa ripresa tutta “opportunistica” delle esportazioni tedesche non serve a trainare lo sviluppo europeo e soprattutto ad arginare gli squilibri e gli impetuosi processi di divergenza in atto nell'eurozona.
A ben rifletterci, la fiducia con la quale gli economisti liberisti guardano ai benefici dei tagli alla spesa pubblica in Europa si dimostra smisurata. Occorre infatti rammentare che il primo ed unico effetto certo dei tagli alla spesa pubblica è quello della compressione dei redditi distribuiti, e quindi il calo della domanda. Quali sarebbero i meccanismi principali attraverso i quali l’austerità rilancerebbe lo sviluppo e la convergenza in Europa? Aumentando gli investimenti privati grazie alla riduzione del cosiddetto effetto di spiazzamento? Permettendo una riduzione della pressione fiscale? Ma questi risultati sarebbero, a ben vedere, l’esito di lunghe catene causali, aleatorie ed anzi irrealistiche. Infatti, non è detto che i tagli migliorino le condizioni della finanza pubblica, dal momento che essi retroagiscono negativamente sulle entrate fiscali. E non è detto che abbattano i rapporti deficit/Pil e debito/Pil, favorendo una “stabilizzazione” dei mercati finanziari, anche perché tendono a ridurre i denominatori di quei rapporti. E pure ipotizzando che i tagli portino davvero a una caduta dei tassi, ciò è addirittura compatibile con una ulteriore contrazione degli investimenti, visto che essi dipendono anche dalle aspettative di profitto. E poi, immaginare che in tempi di crisi sia possibile abbattere contemporaneamente il debito e la pressione fiscale appare non meno irrealistico.
Il fatto è che le tanto invocate politiche di austerità sono la peggiore scelta per affrontare la crisi. Possono arrecar poco danno esclusivamente a un paese che segua una strategia opportunistica - come fa la Germania - e che attraverso la bilancia commerciale tragga beneficio dalle politiche espansive altrui. Ma all’Europa e agli Stati Uniti non serve che il liberismo rialzi la testa.
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