Tagli alla spesa pubblica? Una vecchia ricetta

Tagli alla spesa pubblica? Una vecchia ricetta
Gli sprechi non si combattono riducendo la spesa, ma riqualificandola
di Stefano Perri e Riccardo Realfonzo
www.economiaepolitica.it, 1 aprile 2014

Nella spesa pubblica italiana si annidano sprechi e intollerabili sacche di privilegi. Questa amara considerazione induce molti commentatori a dedurre che la spesa pubblica italiana sia eccessiva e andrebbe complessivamente ridotta. Ma si tratta di una vecchia ricetta che ha già dato pessima prova di sé. Infatti, la spesa pubblica è oggetto di tagli incisivi in Italia da oltre venti anni, senza che sprechi e i privilegi siano stati cancellati. Per non parlare degli effetti macroeconomici dei tagli, che hanno arrestato la crescita della nostra economia. In realtà, la spesa pubblica italiana non è affatto elevata e gli sprechi non devono essere combattuti tagliando la spesa, bensì riqualificandola. [VAI ALL'ARTICOLO]

Fondi europei per il Sud: una goccia nell'oceano

Fondi europei per il Sud: una goccia nell'oceano
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 26 marzo 2014

La strategia del nuovo governo sul Mezzogiorno non è stata ancora esplicitata, anche in merito alla creazione della Agenzia per la Coesione Territoriale annunciata dal governo Letta. Di certo vi è che se Renzi riuscisse a imporre in Europa lo scorporo di parte degli investimenti dal calcolo del vincolo europeo sul deficit - il famigerato 3% - si potrebbe quanto meno accelerare la spesa dei fondi europei. Una misura necessaria ma che per essere efficace dovrebbe accompagnarsi a nuove risorse e incisive politiche industriali. Per farsene una idea, bisogna sottolineare che la crisi economica ha accentuato sempre più il carattere dualistico dell’economia italiana. Gli indicatori del Pil pro capite e gli indici di sviluppo umano e di qualità della vita confermano che il divario tra il Sud e il resto del Paese è tornato a livelli di oltre cinquant’anni fa, e tende ad acuirsi. D’altronde, il tonfo economico del Mezzogiorno trova i suoi più vistosi riscontri nel pesantissimo saldo negativo della bilancia commerciale meridionale e nella spettacolare ripresa dei flussi migratori verso il Centro-Nord.
In questo contesto, buona parte del dibattito sulla “questione meridionale” si concentra sui temi della scarsità del “capitale sociale” e della inadeguatezza della classe politico-amministrativa locale. Aspetti ben difficilmente trascurabili, anche se è arduo dire in quale misura si tratti di fattori causali o piuttosto delle conseguenze di un tessuto produttivo arretrato quando non addirittura evanescente. Di certo vi è che per cogliere i termini nuovi della “questione” bisogna considerare il quadro internazionale. Infatti, se una volta il dualismo dell’economia italiana era una eccezione, oggi non lo è più. Come abbiamo sottolineato con il “monito degli economisti” pubblicato a settembre dal Financial Times, l’unificazione monetaria e il depotenziamento delle politiche economiche nazionali, dovuto all’austerità, hanno accentuato in Europa un processo di polarizzazione tra aree centrali sviluppate (in forte avanzo della bilancia commerciale) e aree in ritardo di sviluppo. Insomma, sussistono spinte sistemiche verso la concentrazione dei capitali e dello sviluppo nelle aree centrali d’Europa, mentre le regioni “periferiche” appaiono sempre più emarginate. È il processo di “mezzogiornificazione” europea.
A cospetto di queste potenti spinte alla divaricazione tra centri e periferie, i fondi europei (una ventina di miliardi per il Mezzogiorno continentale e la Sicilia, per l’intero periodo 2014-2020, cui si aggiunge il cofinanziamento nazionale) costituiscono una “goccia nell’oceano”. Eppure, l’Europa avrebbe dovuto imparare proprio dalla Storia italiana. Infatti, già con l’unificazione monetaria che si ebbe oltre 150 anni fa in Italia, all’insegna della lira, con la creazione dello Stato unitario, sperimentammo che la moneta unica e la cancellazione delle protezioni commerciali esaltano i processi cumulativi del mercato, accentuando il divario tra regioni prospere e regioni in ritardo. Oggi in Europa e in Italia, servirebbe una ferrea volontà politica – quindi una svolta espansiva delle politiche economiche – per contrastare quei processi. In assenza di una svolta in questa direzione, la desertificazione produttiva delle periferie europee procederà inarrestabile.

Più deficit è la via giusta

Più deficit è la via giusta
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 16 marzo 2014

Molti ritengono che il problema principale della manovra annunciata da Renzi consista nell’assenza di adeguate coperture finanziarie. La questione si pone in realtà in termini opposti: la "svolta" può avere efficacia proprio nella misura in cui essa viene finanziata con l’incremento del deficit.
Per comprendere il punto, occorre fare chiarezza su un aspetto gravemente trascurato nel dibattito di questi giorni. Mi riferisco agli effetti restrittivi dei tagli della spesa pubblica. A riguardo, la teoria economica è chiara: le manovre di riduzione della pressione fiscale finanziate da tagli di pari importo della spesa pubblica hanno di norma effetti complessivi recessivi. Una conclusione che risulta confermata anche da recenti ricerche promosse dai principali istituti internazionali. Ad esempio, uno studio del FMI del luglio 2012 arriva a sostenere, con preciso riferimento al caso italiano, che un taglio della spesa pubblica di 10 miliardi determinerebbe una contrazione del Pil di ben 15 miliardi, mentre una riduzione della pressione fiscale di 10 miliardi comporterebbe un incremento del Pil di appena 2 miliardi. Si tratta, naturalmente, di conclusioni di carattere generale che vanno emendate alla luce dei contenuti specifici della manovra delineata dal governo Renzi. Basterebbe sottolineare che il taglio dell’Irpef ai redditi medio-bassi risulterebbe particolarmente espansivo, perché l’incremento del reddito disponibile si trasformerebbe pressoché interamente in consumi. Al tempo stesso, sarebbe erroneo utilizzare quelle ricerche per difendere sprechi e spese pubbliche improduttive, che vanno eliminate anche per ragioni di efficienza ed equità sociale. Ma ciò che qui è importante sottolineare è che la teoria e gli studi empirici ci ricordano che una manovra di contrazione della pressione fiscale interamente finanziata da tagli della spesa pubblica ben difficilmente può avere effetti espansivi significativi.
È quindi chiaro che se il governo intendesse sul serio rispettare i vincoli europei sulla finanza pubblica, allora i tagli delle tasse non potrebbero che essere finanziati da sforbiciate alla spesa. In questo caso, la finanza pubblica resterebbe ingessata dalla necessità di chiudere il bilancio in avanzo, al netto degli interessi sul debito. E questo sarebbe un esito nefasto. L’Italia infatti registra avanzi primari sin dal 1992 (come ha ricordato lo stesso Renzi a Hollande): una sequenza record che è stata ottenuta riducendo di cinque punti il volume della spesa pubblica rispetto al Pil (dal 55% del 1993 a circa il 50% del 2013), portando la spesa di scopo per cittadino al di sotto della media europea (11.629 euro in Italia contro 13.350 dell’eurozona). Ma i risultati sono stati pessimi, visto che l’economia italiana è cresciuta la metà del resto dell’eurozona e il rapporto debito/Pil è aumentato di circa 35 punti.
Tuttavia, ci sono molte ragioni per dubitare che il premier intenda effettivamente rispettare i vincoli europei. In primo luogo, perché le fonti di finanziamento citate da Renzi non possono realisticamente coprire, almeno per quest’anno, le misure proposte. Inoltre, è già stata esplicitata l'intenzione di fare crescere il deficit sino al 3%, utilizzando il margine d’azione permesso dalla differenza tra il valore del deficit tendenziale, assai ottimisticamente stimato al 2,6%, e il vincolo europeo. Il che già significherebbe mettere da parte gli obblighi europei al pareggio strutturale del bilancio, per non parlare dell’abbattimento del debito.
Auguriamoci quindi che l’Europa non ostacoli il nostro attuale percorso verso lo sforamento del vincolo sul deficit, senza nemmeno chiederci una inaccettabile deflazione salariale, che molto meno di incisive politiche industriali può essere utile a tenere in equilibrio la bilancia commerciale. Insomma, la svolta di Renzi può essere buona se in deficit spending. Svanita questa occasione, il rischio che l’Italia perda contatto con l’Europa centrale si farebbe concreto. E a quel punto – come rilevato anche dal “monito degli economisti” pubblicato a settembre dal Financial Times – il rischio di una implosione della moneta unica diverrebbe concreto. Speriamo che nell’attendere l’arrivo di Renzi a Berlino, la Merkel sappia tenerne conto.

Realfonzo sugli effetti recessivi della spending review

estratto da Spending review, subito solo pochi soldi
di Emilio Carnevali
Pagina 99, 13 marzo 2014

Finalmente i numeri. Dopo le indiscrezioni più fantasiose che si sono susseguite nelle ultime settimane, Carlo Cottarelli, il commissario straordinario alla revisione della spesa, ha consegnato il suo rapporto. I risparmi possibili nell'arco di tre anni ammontano a 34 miliardi, per il 2014 i tagli potenziali alla spesa si attestano sui 3 miliardi di euro. Sette sono i settori di intervento indicati come prioritari: 1. Trasferimenti alle imprese dello stato e delle regioni. 2. Compensi dei dirigenti pubblici. 3. Spesa per le pensioni. 4. Sanità. 5. Costi della politica. 6. Microfinanziamenti. 7. Beni e servizi acquistati dalla pubblica amministrazione. 
Del tutto sottaciuto è stato invece il discorso sull'impatto macroeconomico della spending review, cui il governo ha affidato il compito di fornire le risorse per le politiche di crescita . «Nel valutare le conseguenze di una manovra che abbatte la pressione fiscale finanziandosi con riduzioni di spesa pubblica bisogna considerare l'effetto espansivo del taglio delle tasse ma anche l'effetto restrittivo di quello alla spesa. Dimenticarsi di quest'ultimo aspetto sarebbe molto grave», commenta a Pagina 99 Riccardo Realfonzo, ordinario di Fondamenti di economia politica all'Università del Sannio. «Gli studi di cui disponiamo, per esempio quelli molto recenti del Fondo monetario internazionale (alcuni dedicati esplicitamente all'Italia), sostengono che l'effetto dei tagli di spesa è maggiore di quello del taglio delle tasse. È ciò che si insegna nei corsi universitari del primo anno con il teorema di Haavelmo».
Questi risparmi dovrebbero però essere finalizzati ad eliminare gli sprechi e rendere così più efficiente la macchina burocratico-amministrativa. È giusto che i soldi dei contribuenti siano gestiti in modo oculato. «Giustissimo», concorda Realfonzo. «Per questa valutazione dovremo però aspettare i dettagli su misure fin qui enunciate solo in modo molto vago. Tagliare gli sprechi è sacrosanto. Ma da un punto di vista macro gli effetti di riduzioni di spesa pubblica, sopratutto se produttiva, devono essere considerati se vengono utilizzati per una operazione, come quella che ha messo in cantiere Renzi, che si vorrebbero di stimolo e di rilancio dell'economia. Il problema è che se si dovesse tentare di fare tutto entro i vincoli europei, che impongono consistenti avanzi primari per continuare a inseguire irrealistici obiettivi su deficit e debito, non assisteremmo a una manovra effettivamente espansiva».

10 miliardi, a chi li do? Il Foglio intervista Riccardo Realfonzo

10 miliardi, a chi li do?
Girotondo d'opinioni sulla manovra Renzi. Il Foglio intervista Riccardo Realfonzo
a cura di Marco Valerio Lo Prete
Il Foglio, 12 marzo 2014

"La diminuzione dell’Irpef – generando un aumento dei consumi – avrebbe un immediato impatto positivo sulla domanda interna di entità quasi pari a quella della manovra, cioè 10 miliardi se gli annunci dell’esecutivo saranno confermati, quindi va preferita rispetto allo sgravio dell’Irap sulle imprese. Ai fautori di quest’ultima ipotesi faccio notare invece che non c’è nessuna certezza che l’alleggerimento dell’Irap si trasformi in una riduzione dei prezzi delle nostre esportazioni, oppure in un reinvestimento dei maggiori profitti ottenuti. Meglio quindi concentrare le risorse sulla riduzione dell’Irpef, non abbassando le aliquote perché questo riguarderebbe tutti, anche i redditi maggiori, e a parità di risorse avrebbe perciò un impatto minimo: i 10 miliardi vanno usati per aumentare le detrazioni sui redditi più bassi".
"Gli effetti positivi dell’alleggerimento fiscale, però, non sono assicurati. Dipenderanno da come verrà affrontato il problema delle coperture. Se a fronte dei 10 miliardi di sgravio fiscale si procederà con tagli della spesa pubblica di pari entità, l’effetto recessivo di questa seconda scelta potrebbe annullare del tutto quello propulsivo generato dalla riduzione delle tasse. Se pensiamo di finanziare riduzioni della pressione fiscale con tagli di spesa, dentro i vincoli europei sui conti pubblici, gli effetti possono essere trascurabili o addirittura recessivi. Insomma, non è possibile procedere con gli avanzi primari per rispettare il vincolo europeo sul deficit. Altrimenti si vanifica tutto".

Questione meridionale: il disimpegno statale avviò la retromarcia

Questione meridionale: il disimpegno statale avviò la retromarcia

di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno/Mezzogiorno Economia, 3 marzo 2014

Ancora oggi abbiamo molto da apprendere dalla vicenda dell’intervento per il Mezzogiorno e in particolare dal mutamento delle politiche che si verificò alla metà degli anni ’70 del Novecento. Preliminarmente, è necessario ricordare che agli inizi degli anni ’50 il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord era particolarmente ampio. Infatti, nel 1951 il reddito medio di un cittadino del Mezzogiorno arrivava appena al 53% di quello di un abitante del resto del Paese. Quel valore fece un balzo di ben 12 punti, raggiungendo il 65% nel 1972, per poi avviare, con vicende alterne, una lunga triste discesa destinata a riportare il divario ai valori degli anni ’50. Oggi, infatti, il reddito di un meridionale si aggira intorno al 58% del reddito di un abitante del Centro-Nord. Cosa è accaduto? Come mai il Mezzogiorno aveva avviato una rincorsa verso i ritmi di crescita della parte più ricca del Paese e successivamente è ripiombato in una divergenza crescente?
Le ragioni di questa drammatica vicenda, fatta di speranza e delusione, sono essenzialmente due.
Il primo fattore da chiamare in causa è la politica di intervento straordinario per il Mezzogiorno. Come è ben noto, all’indomani della seconda guerra mondiale, ci fu una svolta politica a favore dell’industrializzazione del Sud. Gli interventi, condotti dalla Cassa del Mezzogiorno e sostenuti anche dalla Banca Mondiale, permisero di incanalare risorse pubbliche crescenti verso il Mezzogiorno. L’impegno a favore della localizzazione di grandi imprese conobbe il culmine nel 1972, quando ben il 37% degli investimenti industriali italiani si concentrarono nel Sud. Poi venne lo shock del prezzo del petrolio del 1973, l’inflazione, il buco dei conti con l’estero e le politiche di austerità, varate allo scopo di ridurre il deficit dei conti con l’estero. Insomma, non era più possibile sostenere un massiccio intervento per il Mezzogiorno, perché ora si trattava di soccorrere la parte più avanzata dell’economia italiana. E così cominciò il disimpegno, che si concretizzò con la chiusura della Cassa, la fine dell’intervento straordinario, e il varo – nei primi anni ’90 – della nuova programmazione per il Mezzogiorno.
L’altro fattore da considerare è la nascita delle Regioni, che furono istituite nel 1970, alle quali fu affidata la responsabilità dell’intervento straordinario. Con l’avvento delle Regioni la logica di intervento dall’alto, fondata sui principi della programmazione e della pianificazione territoriale, venne ad essere accantonata. Venivano ora a prevalere le logiche particolari dei singoli territori e i meccanismi, troppo spesso perversi, del governo politico locale. L’intervento per il Mezzogiorno perdeva risorse e cominciava anche a degenerare, con l’affermazione di una classe politica locale che molte volte piegava l’utilizzo delle risorse pubbliche ai fini della propria riproduzione e che finiva per essere implicitamente ostile a uno sviluppo industriale. Le politiche di intervento sfociavano così nell’assistenzialismo. 
Gli insegnamenti da trarre da questa tragedia collettiva sono almeno due.
Il primo è che per innescare processi di convergenza territoriale occorrono ingenti risorse e una grande volontà politica. La favola secondo cui i meccanismi di mercato consentono spontaneamente alle aree meno avanzate di agganciare lo sviluppo delle aree prospere è ormai destituita di basi scientifiche. La realtà è che il mercato generalmente conserva i divari territoriali e qualche volta incrementa le disuguaglianze nei ritmi di crescita del prodotto sociale. Non a caso, in questa epoca di austerità e disimpegno delle politiche economiche in Europa si moltiplicano i processi di mezzogiornificazione (per dirla con Krugman): cresce lo squilibrio tra aree centrali e aree periferiche. L’eccezione che conferma la regola è data dai colossali investimenti che i tedeschi stanno facendo nelle aree della vecchia Germania Est, favorendone una rapida convergenza con il resto del Paese.
Il secondo e più amaro insegnamento da trarre è che i localismi e gli interessi dei governi territoriali meridionali sono spesso entrati in conflitto con lo sviluppo del Mezzogiorno. Come osservava Augusto Graziani nel 1990, la classe politica locale ha troppo spesso “fatto del clientelismo e della corruzione le leve principali del proprio agire”. Una pessima qualità della spesa che ha costituito un eccellente alibi per quanti hanno sostenuto l’esigenza di un disimpegno economico nel Sud da parte del governo nazionale. Sotto questo aspetto, noi meridionali continuiamo ad essere i peggiori nemici di noi stessi.

Il Comune di Napoli? Meglio se fallisce. Intervista a Riccardo Realfonzo

Il Comune di Napoli? Meglio se fallisce. Intervista a Riccardo Realfonzo

di Luciano Capone,
Libero, 1 marzo 2014

“Il Comune di Napoli dovrebbe prendere atto della situazione e dichiarare il dissesto, potrebbe essere il punto di partenza per rilanciare la città”. A dirlo in un editoriale sul Corriere del Mezzogiorno è Riccardo Realfonzo, docente di economia politica ed ex assessore al bilancio di de Magistris.
Secondo la Corte dei Conti il Comune ha un deficit di oltre un miliardo ed un “irreversibile squilibrio strutturale”. Lei conosce bene i conti, non ci sono alternative al fallimento?
Sono diventato assessore nel 2011, dopo una campagna elettorale in cui si era promesso ai napoletani di fare un’operazione verità sui conti del Comune. La situazione era grave e prospettai a de Magistris due strade: lasciare che il Comune scivolasse in dissesto oppure, ciò che proponevo io, varare un programma di riforme incisive: riorganizzare gli uffici comunali, dismettere alcune partecipate che funzionano da macchina per il consenso, tagliare gli sprechi, fare lotta all’evasione. 
Un piano lacrime e sangue, eppure lei ha la fama di essere un keynesiano che si oppone alle politiche di austerità…
Guardi, io sono molto critico rispetto alle politiche di austerità, ma quando si amministra un Comune bisogna assumersi la responsabilità di far quadrare i conti con le risorse che si hanno, altrimenti si fa solo populismo. Comunque, ci sono modi diversi per far quadrare i conti e il nostro compito era quello di tutelare i ceti meno abbienti, ma anche spezzare le clientele e le tante inefficienze consolidate.
Lei era stato assessore con la Iervolino e si dimise perché le impedirono di attuare alcune riforme, anche con De Magistris è durato poco…
Con la Iervolino mi dimisi dopo poco appunto perché non c’era spazio per nessuna riforma e a Napoli quel gesto apparve rivoluzionario. È per questo che de Magistris volle il mio sostegno in campagna elettorale, ma una volta sindaco non ha avuto la volontà politica di cambiare le cose.
de Magistris dice che l’ha cacciata perché “è stato un pessimo assessore”.
Sì, lo ammetto, pessimo. Mi è mancata la capacità di fare quello che lui mi chiedeva. Cioè fare come la Dc, che è riuscita a governare per decenni con bilanci fantasiosi…
Per Roma è un ex assessore al bilancio come lei, Linda Lanzillotta, a chiedere al comune dismissioni e interventi radicali sulla spesa in cambio dell’aiuto statale. Il risanamento deve essere imposto dall’alto?
La Lanzillotta ed io abbiamo opinioni diverse, io credo che possa esistere una gestione pubblica efficiente dei servizi locali. Ma, al di là delle responsabilità locali, gli ultimi governi hanno messo in ginocchio i Comuni tagliando drasticamente i trasferimenti. Nei bilanci dei Comuni italiani ci sono oltre 45 miliardi di crediti che non si riesce a riscuotere. Più che interventi emergenziali, occorrerebbe ripensare la politica degli enti locali e rafforzare i controlli sulla qualità della spesa.
Ma da quest’orecchio i sindaci di Roma e Napoli non ci sentono, chiedono i soldi dallo Stato ma di tagli non se ne parla.
È il populismo di cui parlavo prima, non ci si assume le responsabilità del proprio ruolo e si cerca di passare il cerino al governo o all’amministratore che seguirà.
Pochi giorni fa De Magistris diceva: “Napoli non è in dissesto, a fine anno andremo in avanzo di bilancio”, ora dice che il governo deve aiutare Napoli come ha fatto con Roma. Ma ha un piano per la città?
Vuole scherzare? Pensi che in campagna elettorale, a differenza del candidato di centrodestra Lettieri che chiedeva una legge speciale, affermava che Napoli ce l’avrebbe fatta da sola. Poi ha fatto un consiglio comunale sotto Montecitorio per chiedere un intervento speciale. Successivamente ha cambiato nuovamente idea sostenendo che Napoli poteva essere autosufficiente, come Barcellona. Un Comune sull’orlo del dissesto... si rende conto?
Ma in campagna elettorale non ve n’eravate accorti che de Magistris era populista?
Avevamo capito che su molti temi non era particolarmente ferrato… ma ci pareva che avesse buone intenzioni e che alla fine si sarebbe affidato a chi ne capiva.
Invece vi ha cacciati tutti ed è andato avanti da solo….
Lui avanti e Napoli indietro. Credo che sarebbe il caso di fare una riflessione sull’elezione diretta dei sindaci.
Servirebbe l’impeachment?
Beh, con la vecchia legge elettorale i sindaci erano ostaggio del consiglio comunale e dei partiti. Ora abbiamo un uomo solo al comando, e se l’uomo è sbagliato siamo fritti.