Realfonzo e Narducci all'Istituto per gli Studi Filosofici

Realfonzo e Narducci all'Istituto per gli Studi Filosofici
Un dibattito su "Politica, Economia e Questione Morale".


Regione Campania, a che punto è la notte

Regione Campania, a che punto è la notte
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 22 settembre 2015

L’estate è archiviata e anche il periodo di “rodaggio” della giunta di De Luca in Campania è terminato da un po’. Si tratta ora di concretizzare quanto promesso nella campagna elettorale e il compito non è agevole, soprattutto sul terreno dell’economia e del lavoro. D’altronde i dati Istat confermano che mentre nel Centro-Nord vi è una tenue ripresa, il Mezzogiorno è al palo e i tassi di disoccupazione restano ben sopra il 20%. Non a caso, il governo sta finalmente valutando di inserire nella prossima Legge di Stabilità alcune misure per il Mezzogiorno. 
Ma nell’attesa fiduciosa di una qualche misura per il Sud, anche il governo regionale campano deve fare la sua parte. E i temi su cui si attendono risposte sono numerosi.
In primo luogo, i fondi europei. Opportunamente, in campagna elettorale De Luca poneva il dito accusatore contro l’amministrazione Caldoro, per la lentezza della spesa, per i fondi perduti e per la grande frammentarietà degli investimenti che li ha resi spesso improduttivi. Ebbene, la nuova programmazione 2014-2020 (circa 5 miliardi complessivi) è stata disegnata dalla Giunta Caldoro e include la maggior parte dei cosiddetti “Grandi Progetti” della programmazione 2007-2013. Quali strumenti ci assicureranno una radicale discontinuità con il passato? E ancora, ad esempio, si è parlato tanto di utilizzare i fondi europei per migliorare il sistema dei trasporti: a che punto siamo?
Certo non secondario, accanto alla questione della spesa sanitaria, è anche il tema delle società partecipate regionali, liquidato da Caldoro con un piano di razionalizzazione che puntava a grandi dismissioni, con una logica puramente contabile orientata solo al risparmio immediato. Speriamo che la Giunta sappia ripensare quelle scelte, evitando svendite e tenendo in mano pubblica assets strategici come ad esempio la Mostra d’Oltremare, inserendoli in un disegno di sviluppo organico.
Infine, c’è il tema delle politiche industriali. Qui, oltre a insistere con il governo per una fiscalità di vantaggio, bisognerebbe intervenire sulle strozzature dell’apparato produttivo campano. I problemi sono ben noti: la piccolissima dimensione media delle imprese, il bassissimo volume degli investimenti in nuove tecnologie e formazione del personale, la persistenza di modelli di governance tipici di un capitalismo antico e inadeguato a reggere la concorrenza. A questo proposito, bisognerebbe attuare finalmente quanto stabilito dal Testo unico sul lavoro vigente in Regione Campania che scaturì, lo ricordo, da un insieme di analisi e proposte che coinvolse numerosi dipartimenti universitari. Ebbene, nel titolo terzo del Testo unico viene codificato un innovativo sistema di incentivi per spingere le imprese a investire sulla crescita dimensionale, le nuove tecnologie e la qualità del lavoro.
La Campania e il Mezzogiorno sono nel tunnel. E non c’è dubbio che solo il coordinamento virtuoso tra un governo che si decida ad affrontare la questione meridionale e una amministrazione locale disponibile a utilizzare nuove misure di politica industriale potrà riportarci alla luce.


Crescere in deficit. Riccardo Realfonzo intervistato da Radio 24

Crescere in deficit. Riccardo Realfonzo intervistato da Radio 24
17 settembre 2015


Scuola governo del territorio: a Napoli formazione di figure di ''elevata professionalità''

Scuola governo del territorio: pubblicato bando, borse studio. A Napoli formazione di figure di ''elevata professionalità''
(ANSA) - NAPOLI, 16 SETTEMBRE
La Scuola di Governo del Territorio, inaugurata nel luglio scorso, ha pubblicato il bando del corso di alta formazione "Governo del Territorio", che si terrà a Napoli a partire dal prossimo novembre. Il corso è destinato alla formazione di figure, sottolineano i promotori in una nota, ''di elevatissima professionalità per gli uffici tecnici, urbanistici e amministrativi di enti pubblici e di istituzioni del settore pubblico e privato, nonché di liberi professionisti''. I temi al centro del corso sono soprattutto quelli della pianificazione del territorio e delle tecniche economico-finanziarie, catastali e  tributarie.
Il corso è stato progettato in collaborazione con gli Ordini degli ingegneri e degli architetti, e ciò ha permesso di prevedere al suo interno la presenza di sette moduli ai quali i professionisti possono iscriversi anche singolarmente, senza seguire l'intero corso, e ottenendo comunque il rilascio dei crediti formativi professionali.
''Numerose le borse di studio e vistoso lo sforzo compiuto a favore dei giovani - si rileva ancora - Infatti, nei moduli per i quali vengono riconosciuti i crediti formativi sono disponibili 70 posti a titolo completamente gratuito per i più giovani iscritti agli ordini. Con questo corso la Scuola di Governo del Territorio, il cui direttore scientifico è il professor Riccardo Realfonzo, propone una iniziativa scientifico-didattica di grande livello. Infatti, nei seminari e nelle lezioni verranno coinvolti gli enti e le istituzioni che hanno già aderito formalmente alla Scuola: l'Università L'Orientale, l'Università Parthenope, l'Università di Salerno, l'Università del Sannio, la Seconda Università di Napoli, l'Università Suor Orsola Benincasa, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, l'IFEL-Fondazione ANCI, l'Associazione Geotecnica Italiana, il Centro Nazionale di Studi Urbanistici, l'Associazione costruttori edili di Napoli''. ''Di grande rilievo - conclude la nota - il ruolo del Consorzio Promos Ricerche, che è sede amministrativa della Scuola, e della Camera di Commercio di Napoli, che offre il principale supporto finanziario alla Scuola e ne ospita gli uffici''. La scadenza per le iscrizioni è fissata al 15 ottobre. Per tutte le informazioni e per iscriversi online si può consultare il sito www.scuolagovernoterritorio.it.(ANSA).


Il corso "Governo del Territorio"

La Scuola di Governo del Territorio ha pubblicato il bando del corso di alta formazione "Governo del Territorio". Perché a Napoli, nel Mezzogiorno e in Italia c'è grande bisogno di elevate professionalità su questi temi, a cominciare dalle amministrazioni pubbliche.
Il Corso è proposto dalla Scuola  e dagli enti e istituzioni che ad essa aderiscono: l’Università di Salerno, l’Università del Sannio, l’Università L’Orientale, l’Università Parthenope, l’Università Suor Orsola Benincasa, la Seconda Università di Napoli, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’IFEL-Fondazione ANCI, il Consorzio Promos Ricerche, la Camera di Commercio di Napoli, l’Associazione Geotecnica Italiana, il Centro Nazionale di Studi Urbanistici, l’Associazione costruttori edili. Il corso viene svolto con la particolare collaborazione dell’Ordine degli Ingegneri e dell’Ordine degli Architetti, soprattutto per ciò che concerne il rilascio dei Crediti Formativi Professionali. Termine per le domande: 15 ottobre.
Tutte le informazioni sul sito www.scuolagovernoterritorio.it.

Monetary Policy Rules and Directions of Causality: A test for the Euro Area

Monetary Policy Rules and Directions of Causality: A test for the Euro Area

by Emiliano Brancaccio (University of Sannio, Italy), Giuseppe Fontana (Leeds University, UK and University of Sannio, Italy), Milena Lopreite (University of Parma, Italy) and Riccardo Realfonzo (University of Sannio, Italy)

forthcoming in Journal of Post Keynesian Economics

Abstract
Use is made of a VAR model in first differences with quarterly data for the Eurozone to ascertain whether decisions on monetary policy can be interpreted in terms of a “monetary policy rule”, with specific reference to the so-called “nominal GDP targeting rule” (McCallum 1988; Hall and Mankiw 1994; Woodford 2012). The results obtained indicate a causal relation proceeding from deviation between the growth rates of nominal GDP and target GDP to variation in the three-month market interest rate. The same analyses do not, however, appear to confirm the existence of a significant inverse causal relation from variation in the market interest rate to deviation between the nominal and target GDP growth rates. Similar results were obtained on replacing the market interest rate with the ECB refinancing interest rate. This confirmation of only one of the two directions of causality does not support an interpretation of monetary policy based on the nominal GDP targeting rule and gives rise to doubt in more general terms as to the applicability of the Taylor rule and all the conventional rules of monetary policy to the case in question. The results appear instead to be more in line with other possible approaches, such as those based on Post-Keynesian analyses of monetary theory and policy and more specifically the so-called “solvency rule” (Brancaccio and Fontana 2013, 2015). These lines of research challenge the simplistic argument that the scope of monetary policy consists in the stabilization of inflation, real GDP or nominal income around a “natural equilibrium” level. Rather, they suggest that central banks actually follow a more complex purpose, which is the political regulation of financial system with particular reference to the relations between creditors and debtors and the related solvency of economic units.

Quale politica industriale per il Sud

Quale politica industriale per il Sud
Solo rilanciando il Mezzogiorno l'economia italiana potrà avere una solida ripresa
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 3 settembre 2015

I dati Istat confermano che è in atto una moderata ripresa dell’economia italiana e che, indipendentemente dalle valutazioni sul carattere più o meno congiunturale di questi risultati, ci sono due Italie: il Centro-Nord nel quale la ripresa pare consolidarsi; il Mezzogiorno nel quale il Pil continua a ridursi e il tasso di disoccupazione resta al di sopra del 20%. Insomma oggi, come mai prima, la “questione meridionale” è questione nazionale: senza una ripresa del Mezzogiorno l’intera economia italiana non potrà sperare in una crescita robusta, che permetta di lasciarsi definitivamente alle spalle gli anni di declino e tornare ai valori occupazionali precedenti la crisi del 2007-2008.
A dispetto di ciò, il dibattito sugli strumenti di politica economica che dovrebbero confluire nel programma del governo stenta a decollare. Si parla molto di fondi europei, della necessità che essi vengano spesi in tempi congrui e soprattutto non dispersi in mille rivoli, più o meno clientelari. Si parla anche di ripristinare una fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno, rifinanziando le decontribuzioni e gli sconti Irap per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Attenzione: si tratta di interventi necessari, persino ovvi, ma non sufficienti. È indispensabile intervenire sui limiti intrinseci all’apparato produttivo meridionale. Tutti gli studi disponibili mostrano infatti che il sistema delle imprese meridionali si caratterizza per la piccolissima dimensione media delle aziende, per il bassissimo volume medio di investimenti in nuove tecnologie e formazione del personale, per la persistenza di modelli di governance e assetti proprietari tipici di un capitalismo familiare ogni giorno più inadeguato a reggere la concorrenza internazionale. Insomma, il tessuto delle imprese meridionali risulta in gran parte ancorato ai settori e alle tecnologie più tradizionali. Nel Sud il “made in Italy” di qualità e dal raffinato design resta una eccezione, mentre domina un modello di specializzazione produttiva che punta su una competitività da bassi costi di produzione e perde ogni giorno quote di mercato.
Le soluzioni che vengono generalmente prospettate si muovono su due estremi. Da un lato, ci sono le posizioni di chi, come la Svimez, denuncia con coerenza le strozzature allo sviluppo del Mezzogiorno ma appare ferma alla sola teorizzazione di un ritorno in campo dell’intervento pubblico. Dall’altro lato, ci sono le esortazioni di parte dell’imprenditoria meridionale che si limita a chiedere meno tasse e più mani libere. Queste posizioni appaiono entrambe inadeguate a gestire la fase attuale. Una nuova e più efficace proposta di politica industriale dovrebbe allora consistere nella adozione di un sistema di incentivi che puntino a intervenire sul modello di specializzazione produttiva, aiutando le imprese meridionali a compiere quel salto tecnologico, dimensionale e organizzativo che è oggi indispensabile. Lo spunto per l’analisi, in questa direzione, può essere tratto dall’esperienza del testo unico sul lavoro vigente in Regione Campania, il cui titolo terzo è dedicato alla definizione di un articolato sistema di incentivi per spingere le imprese a investire sull’Alta Qualità del Lavoro. Quella legge fu il prodotto di una ricerca meticolosa che coinvolse più istituti universitari del Mezzogiorno, che fu da me coordinata, e che come molte belle cose nel nostro Paese resta ancora in attesa di attuazione.
Senza una nuova e coraggiosa politica industriale per il Mezzogiorno, anche un migliore utilizzo dei fondi e le decontribuzioni sortirebbero effetti solo temporanei. Non riusciremmo ad attivare un autentico sviluppo autopropulsivo in questa parte del Paese. E resteremmo nel declino.


"Luigi, un clown. Così isola Napoli". Intervista a Riccardo Realfonzo

<<Luigi, un clown. Così isola Napoli>>.
Intervista a Riccardo Realfonzo
di Anna Paola Merone
Corriere del Mezzogiorno, 13 agosto 2015


Fondi agli atenei, il contesto conta

Fondi agli atenei, il contesto conta
Nella distribuzione si devono valutare i fattori socio-economici territoriali
di Riccardo Realfonzo
Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2015

Nell’ambito delle politiche di ridimensionamento della spesa pubblica, le riforme universitarie degli ultimi anni hanno assunto un ruolo tutt’altro che trascurabile. Gli interventi sul sistema universitario nazionale sono consistiti in azioni per l’aumento dell’efficienza delle strutture, in riduzioni generali dei finanziamenti e nell’adozione di meccanismi di concorrenza tra gli atenei nella ripartizione delle risorse. Il risultato è che dal 2008 al 2015 il Fondo di Finanziamento per le Università (FFO) è diminuito di circa il 14% a livello nazionale. Si tratta di una riduzione significativa, che oltretutto - come ha opportunamente segnalato il Sole 24 Ore - ha visto le università meridionali perdere il 19% delle risorse mentre quelle settentrionali hanno perso “solo” il 7%.
Nessuno discute che la distribuzione delle risorse debba premiare gli atenei migliori. Vi sono però diffuse perplessità sulla capacità del sistema attuale di valutare adeguatamente il merito degli atenei. Le preoccupazioni a riguardo risultano confermate da vari studi nazionali e anche a livello locale, come evidenziato da una ricerca che abbiamo condotto nell’ambito dell’Osservatorio regionale campano sul sistema universitario, di prossima pubblicazione. La ricerca mostra che il sistema di ripartizione delle risorse penalizza gli atenei del Sud soprattutto perché non tiene conto del difficile contesto socio-economico in cui sono immersi.
Le novità degli ultimi anni in materia di finanziamenti all’università sono essenzialmente due. In primo luogo, si è avviato il superamento del meccanismo di ripartizione delle risorse sulla base della spesa storica degli atenei, introducendo il principio del costo standard. In sostanza, si calcola il costo unitario di formazione per studente e lo si moltiplica per il numero degli studenti di ciascun ateneo. In secondo luogo, è cresciuta rapidamente la cosiddetta “quota premiale” che è ormai giunta a ripartire il 20% dell’FFO.
L’aspetto più significativo del costo standard è che la norma considera solo gli studenti iscritti entro la durata normale del corso di studi, e non anche i fuori corso. Tuttavia, le statistiche ufficiali mostrano che il fenomeno del ritardo negli studi è largamente diffuso al Sud. In qualche misura tali ritardi possono anche dipendere da carenze organizzative delle università, ma appare chiaro che essi sono influenzati in misura rilevante dal funzionamento del mercato locale del lavoro: dove c’è grande disoccupazione gli studenti tendono a rallentare il percorso universitario. Se il costo standard tenesse conto della quota di fuori corso non imputabile alle inefficienze delle strutture universitarie, il sistema eviterebbe di gravare gli atenei del Meridione di una diseconomia ambientale che non si può logicamente imputare ad essi.
Un effetto più dirompente è legato alla quota dell’FFO ripartita su basi premiali. Accanto alla valutazione della qualità dei prodotti scientifici, che continua a destare numerose perplessità nella comunità accademica nazionale e internazionale, le risorse premiali sono allocate in base a indicatori che riguardano anche la capacità degli atenei di attrarre risorse esterne, la quantità di tasse e contributi studenteschi, la mobilità degli studenti. Gli atenei che operano nei contesti meno sviluppati sono naturalmente svantaggiati da questi indicatori. La sperequazione a cui si è giunti è molto forte, in alcuni casi estrema, ed evidenzia più di una lacuna nella capacità del sistema di valutare l’effettiva qualità della formazione e della ricerca che si svolge nelle università. Si tratta di considerazioni che spingono a considerare l’introduzione di indicatori più neutrali, come ha rilevato anche un recente studio della Banca d’Italia.
Per tenere adeguatamente conto dei fattori socioeconomici territoriali, si può ad esempio contemplare un indice delle probabilità di trovare impiego dei laureati in rapporto al contesto (dunque rispetto alla occupabilità dei coetanei non laureati della medesima regione). La classifica che viene fuori è ben diversa da quelle a cui siamo abituati. Nei primissimi posti si trovano l’Università di Catania e la “Federico II” di Napoli. 
L’adozione di meccanismi che incentivino la qualità della ricerca e della formazione è essenziale. Tuttavia, anche alla luce del volume ridotto di risorse complessive dedicate all’università e alla ricerca, è altrettanto necessario adottare indicatori che non penalizzino gli atenei solo perché operano in contesti avversi. Ciò soprattutto nell’interesse dei giovani e del diritto costituzionale allo studio, perché una capacità effettiva di selezionare i migliori è una delle condizioni per dare un buon futuro all’intero Paese.



Un sigillo nuovo ma pochi impegni

Un sigillo nuovo ma pochi impegni
Le parole del leader democrat
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 8 agosto 2015

Meglio tardi che mai. Da oltre venti anni a questa parte, dalla chiusura della Cassa per il Mezzogiorno e dal varo della cosiddetta “nuova programmazione” con le sue politiche di incentivazione delle “vocazioni locali”, la “questione meridionale” era divenuta solo un terreno di confronto per studiosi. Insomma, eravamo rimasti soli, parte di noi meridionalisti, a spiegare che al di fuori di una logica di programmazione economico-territoriale, di risorse adeguate e di capacità amministrative di livello europeo il divario con il Nord del Paese si sarebbe accentuato sempre più. Ora, dando credito a questa segreteria agostana del Pd, sembrerebbe finalmente che la “questione” possa essere sdoganata sul piano della politica economica. Questa pare infatti essere la principale implicazione del discorso del segretario-premier al Pd. Naturalmente, come ha commentato su twitter Antonio Polito, “chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non prende in pegno”. Ma una retromarcia sarebbe ora politicamente molto difficile.
Certo, va chiarito che Renzi non ha assunto impegni precisi, e in apertura di discorso ha sottolineato che non avrebbe fatto annunci a effetto (per quanto abbia toccato anche una serie di aspetti concreti, come la nomina del commissario a Bagnoli e l’impegno a smaltire le ecoballe campane in tre anni). Eppure il senso politico del suo discorso è stato rilevante sotto almeno due aspetti. Il primo riguarda il lungo silenzio della politica economica sul Mezzogiorno. Un silenzio che Renzi, riconoscendo le responsabilità del Pd, ha attribuito essenzialmente al fatto che per molto tempo si è inseguita la Lega Nord nel dibattito intorno alla “questione settentrionale”. Una concausa, aggiungiamo noi, è stata la pessima qualità della classe politico-amministratrice meridionale di questi anni, che ha fornito la peggiore prova di sé, spesso coltivando il clientelismo e rappresentando un interlocutore non credibile. Il secondo passaggio significativo del segretario-premier si è incentrato nel chiarire che se il Sud non riparte è l’intero Paese che resta al palo: il tema della decrescita del Mezzogiorno come questione nazionale.
Possono essere considerati concetti scontati, ma che li abbia pronunciati il Presidente del Consiglio, unitamente a una agenda di lavoro che dovrebbe condurre a un masterplan entro la Legge di Stabilità, è una novità non da poco. Nel Mezzogiorno viviamo un dramma annunciato, che risponde a processi di divaricazione centro-periferia presenti sull’intera scena europea, le cui soluzioni sono note e passano in larga misura per nuove politiche industriali e infrastrutturali. Auguriamoci che la politica voglia effettivamente decidersi a prenderne atto.

Napoli, le dimissioni del vicesindaco. Ma ormai è tardi

Ormai è tardi, Luigi. Questo sacrificio non ti farà vincere
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 17 giugno 2015

Una pedina da sacrificare per provare a salvarsi. Nulla più di questo rappresenta ormai per il sindaco di Napoli Luigi de Magistris il suo ex vice Tommaso Sodano. Ma è tardi, e la stagione di de Magistris è irrimediabilmente segnata dal trionfo della più vecchia e becera politica di cui Sodano è stato “esemplare” rappresentante.
Erano i primi del giugno 2011, quando io e i pochi altri che si erano battuti sin dal principio per un rinnovamento amministrativo apprendemmo che il neoeletto sindaco stava riflettendo sulla designazione del vicesindaco. In corsa eravamo in due, Sodano ed io. La mia linea era nota e aveva caratterizzato la campagna elettorale: trasparenza sul bilancio, riforma della macchina comunale, taglio a sprechi e clientele nelle società partecipate, zero auto blu, alcune dismissioni, più risorse per i servizi ai cittadini. Sul piano delle alleanze, apertura anche alla società civile più vicina al Pd. Tutto molto difficile, ma d’altronde questo era il livello della sfida da tanti invocata. Della linea di Sodano non si sapeva molto, tranne il suo demagogico “no” a qualunque ciclo industriale dei rifiuti e le aperture all’assistenzialismo chiesto da alcuni movimenti dei disoccupati. Fatto sta che de Magistris scelse Sodano e con quella scelta si consegnò mani e piedi alla vecchia politica.
Di che pasta era fatto Sodano lo capimmo molto presto. Mi riferisco al modo in cui gestì le assunzioni in ASIA - la società del Comune che effettua il servizio di raccolta dei rifiuti - di alcune centinaia di dipendenti delle società private cui era stato appaltato negli anni una parte del servizio. Prima favorì l’espulsione del manager Raphael Rossi, che provava a implementare un modello organizzativo efficiente in ASIA; poi avallò un’operazione che violava impunemente le delibere comunali sul controllo delle partecipate, e che si presentava come assai discutibile anche sul piano della normativa nazionale, senza nemmeno avere la compiacenza di informare i colleghi di Giunta. Dopo di allora andò sempre così. Sodano era sistematicamente contro tutte le proposte di delibera che provavano ad attuare il programma elettorale. Ad esempio, si scagliò contro le misure di Giuseppe Narducci per regolarizzare i mercati e dare battaglia agli abusivi, e fu - a dispetto delle indagini della Corte dei Conti - grande sostenitore della transazione con la Romeo, che allora gestiva il patrimonio immobiliare. Poi si mise di traverso sulle operazioni di trasparenza del bilancio che proponevo, inclusa la famosa delibera del maggio 2012 che imponeva agli uffici di riesaminare le partite creditorie del Comune per fare finalmente emergere il clamoroso buco di bilancio. Si trattava della delibera che mi costò il posto in Giunta e che riuscii a fare passare solo perché l’anteposi alla approvazione del bilancio di previsione, grazie al sostegno di Narducci e di alcuni dirigenti di grande responsabilità (che, si badi bene, non mancano in Comune). 
Noi tutti ce ne siamo andati e Sodano è diventato sempre più padrone del campo, completando l’opera di tradimento del mandato elettorale.
Ma oggi Sodano non  serve più. A pesare non sono tanto gli scontri personali che pure ci saranno stati con il sindaco quando era “in strada”, né forse le vicende che lo vedono sotto processo. Il fatto è che oggi de Magistris sa di non avere speranze di rimanere sindaco, né forse un futuro politico, senza il sostegno di una parte del Pd. E allora via Sodano e spazio a un nuovo vice più dialogante. Ma è tardi, gli errori commessi pesano troppo, gli entusiasmi sono svaniti, e a meno che l’istinto suicida del Pd non compia un capolavoro, il prossimo anno avremo finalmente un nuovo sindaco.

Sud e Napoli, ecco la paralisi

Sud e Napoli, ecco la paralisi
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 10 giugno 2015

Le dichiarazioni del presidente emerito Giorgio Napolitano sull’assenza di una “strategia” per lo sviluppo del Mezzogiorno e sul “disfarsi dell’attività amministrativa” napoletana ben difficilmente troveranno una efficace smentita.
Sul piano nazionale, fin quando Graziano Delrio ha ricoperto l’incarico di plenipotenziario di Renzi, il deficit di elaborazione e proposta del Governo era in parte compensato da un’azione di raccordo istituzionale e spinta operativa su più fronti: dalla spesa dei fondi europei allo start-up dell’Agenzia per la Coesione Territoriale, fino a vertenze industriali-territoriali come Gioia Tauro, Termini Imerese, Taranto. L’impressione adesso è che, migrato Delrio al Ministero delle Infrastrutture, nessuno sappia su quale scrivania di Palazzo Chigi si trovi il dossier Mezzogiorno. A riguardo, gli esiti della vicenda Bagnoli - intervento governativo con decretazione di urgenza e successiva inerzia su nomina del commissario e individuazione del soggetto attuatore - sono significativi.
Se il Governo non riesce ancora a varare una azione incisiva per il Sud, sul piano regionale e locale scontiamo limiti certamente più gravi. Con tutta probabilità, il quinquennio di governo del centro-destra alla Regione Campania segnerà un record negativo continentale per il fallimento registrato nell’utilizzo dei fondi europei: non c’è una sola misura o un solo “grande progetto” della Giunta Caldoro che sia stato portato a conclusione o che abbia avuto effetti positivi apprezzabili sul tessuto economico e sociale campano. Scendendo sul piano metropolitano le cose vanno anche peggio. Continuiamo ad assistere allo stallo persino sullo statuto della Città Metropolitana ed è ormai sin troppo evidente che sulle politiche urbanistiche e di sviluppo di area vasta il micro-ceto politico aggregatosi intorno a de Magistris non sa cosa fare. E così, mentre dagli uffici stampa comunali partono inviti a sagre e tornei sportivi, il Progetto Genesis - uno dei pochi interventi di sviluppo previsti nel territorio del Comune, finalizzato a creare un distretto dell’indotto Whirpool - non decolla dopo un iter di ben tredici anni. Per di più, il caso del porto di Napoli - con l’assenza di un accordo tra Governo, Regione e Comune sulla presidenza dell’Autorità Portuale - dimostra come la paralisi istituzionale possa farci perdere occasioni e somme ingenti.
Auguriamoci che le parole di Napolitano siano di monito per la nuova stagione che va aprendosi nel governo regionale e per quella che a breve si schiuderà al Comune di Napoli, e ci aiutino a recuperare un po’ di serietà e di buona politica.

Le distanze crescenti che minacciano l'Europa

Le distanze crescenti che minacciano l'Europa
di Riccardo Realfonzo
Corriere della Sera, 7 giugno 2015

L’allarme lanciato in Portogallo, al termine del mese scorso, dal presidente della BCE Mario Draghi va al cuore del problema: nell’Eurozona sono in atto “profonde e crescenti divergenze” tra i Paesi che “tendono a diventare esplosive” e “possono arrivare a minacciare l'esistenza dell'Unione monetaria”.
In effetti, la scarsa capacità di crescita dell’Eurozona, con il valore complessivo del Pil che resta ancora al di sotto del livello pre-crisi, desta preoccupazione. Ma l’aspetto più grave è proprio la forza centrifuga che sembra dominare l’area euro, con il centro del Continente in crescita e diverse regioni periferiche sostanzialmente ferme, quando non in recessione. I dati ufficiali confermano l’allarme sollevato da Draghi. Dopo il 2007-2008, come registra il coefficiente di variazione del tasso di crescita del Pil pro capite, i differenziali di sviluppo tra i diversi Paesi sono aumentati vistosamente, al punto che ad esempio tra Germania e Italia si sono accumulati 14 punti di differenza nella crescita del Pil. E anche i dati relativi ai tassi di disoccupazione, alle insolvenze delle imprese e alle condizioni della finanza pubblica confermano l’azione dei processi di divergenza.
Queste evidenze empiriche rendono ormai difficilmente difendibile la tradizionale tesi della Commissione Europea. Si tratta dell’idea –  espressa sin dal 1990, nel famoso One Market, One Money e ribadita anche in recenti documenti ufficiali – secondo cui la moneta unica e l’integrazione commerciale, combinate con le politiche di austerità e la flessibilità dei mercati, avrebbero favorito la convergenza e la coesione tra i Paesi. Le stesse evidenze sembrano invece confermare il punto di vista alternativo degli economisti keynesiani, per cui l’integrazione commerciale e monetaria generano processi cumulativi che tendono piuttosto a concentrare lo sviluppo nelle aree più forti, finendo per accentuare le divergenze territoriali. È in fondo questa la tesi del monito degli economisti che abbiamo promosso e pubblicato nel 2013 sul Financial Times, secondo il quale i processi di divergenza, se non arrestati, comprometteranno la tenuta dell’eurozona. Una tesi alla quale tra una dichiarazione e l’altra sembra propendere anche il presidente della BCE.
Come lo stesso Draghi ha sottolineato, in questi anni si sono fatti numerosi passi avanti nella direzione delle riforme strutturali: si pensi alle deregolamentazioni del mercato del lavoro attuate nell’ultimo ventennio e alle riforme implementate nei mercati dei prodotti. Ma per innescare tangibili processi di convergenza tra i Paesi membri dell’euro occorrerebbe un approccio di politica economica più generale, che punti anche a nuove politiche industriali e al sostegno della domanda. Senza affrontare le differenze nelle infrastrutture materiali e immateriali dei territori, nella qualità dei tessuti produttivi, nei modelli di specializzazione e nelle condizioni della domanda aggregata di beni e servizi, che resta asfittica nei Paesi periferici, sarà sempre più difficile contrastare le divergenze che minacciano la sopravvivenza dell’euro e dell’Unione europea.

Grazie Vozza ma è meglio votare per De Luca

Grazie Vozza ma è meglio votare per De Luca
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 22 maggio 2015

Caro Direttore, il candidato alla presidenza della Regione Campania per Sinistra al lavoro, Salvatore Vozza, nei giorni scorsi ha indicato il mio nome come futuro assessore al bilancio e allo sviluppo di una sua eventuale giunta regionale. Sono lusingato per questa manifestazione di stima nei miei confronti e desidero ringraziarlo pubblicamente. Dal canto mio, ho maturato una convinzione sulle imminenti elezioni regionali: io credo che i cittadini della Campania dovrebbero esprimere un voto che assolutamente impedisca una conferma di Stefano Caldoro e della sua compagine.
Il punto è che l’economia della Campania versa in condizioni drammatiche. I record negativi che la regione ha collezionato uno dopo l’altro – in termini di tassi di disoccupazione, riduzioni del Pil, fallimenti delle imprese, passivi della bilancia commerciale, emigrazioni – sono documentati dalle statistiche ufficiali e ci vedono quasi sempre fanalino di coda in Italia. Personalmente, ho più volte argomentato che una parte delle responsabilità sia da imputare alle politiche europee e al sistema di vincoli alle politiche pubbliche che sta acuendo le disparità tra centri e periferie, alimentando meccanismi di divergenza alla lunga insostenibili. Tuttavia, una parte rilevante del disastro di fronte al quale ci troviamo va attribuito all’operato della Giunta Caldoro. Essa si è resa infatti protagonista di una politica delle finanze regionali scellerata, improntata a una inerte applicazione “ragionieristica” dei vincoli europei, in assenza di qualunque strategia di programmazione economica e territoriale. L’applicazione meccanica dei vincoli ha portato la Giunta a tagliare selvaggiamente la spesa in settori cruciali per i diritti sociali dei cittadini e per il sostegno alle imprese. Penso agli interventi sul sistema sanitario regionale, che hanno gravemente compromesso il diritto alla salute ampliando ulteriormente le disuguaglianze sociali, e penso ai trasporti, dove i tagli hanno ulteriormente deteriorato un sistema produttivo già segnato da gravi carenze infrastrutturali. Al tempo stesso, la Giunta ha dissipato le uniche vere risorse a disposizione per la crescita, i fondi europei. Nell’incapacità totale di programmare alcunché, quando non sono stati restituiti al mittente i fondi sono stati dispersi in mille rivoli, alimentando un meccanismo clientelare utile al rafforzamento di questo o quel politico locale ma che si è rivelato rovinoso per le imprese, per i lavoratori e soprattutto per le nuove generazioni.
Per queste ragioni, la priorità è fermare Caldoro per scongiurare un prolungamento della fallimentare esperienza amministrativa del centrodestra in Campania. È indispensabile che il voto esprima una volontà di rottura con le politiche dell’ultimo quinquennio, ed è innegabile che l’unica forza che oggi può riuscire nell’intento è il centrosinistra che fa capo al Pd guidato da Vincenzo De Luca. Il mio auspicio, dunque, è che le elezioni siano vinte da questa formazione, e che poi il governo De Luca abbia la lungimiranza di costruire un programma d’azione che possa anche aprirsi ai contributi di tutte le forze vive della sinistra campana e del civismo, e che soprattutto sia in grado di segnare una svolta tangibile rispetto alle esperienze amministrative degli ultimi anni.

L'Italia riparte? E il Mezzogiorno? Riccardo Realfonzo a UnoMattina

L'Italia riparte? E il Mezzogiorno? Riccardo Realfonzo a UnoMattina
UnoMattina in Famiglia, Rai 1, 16 maggio 2015


La nuova economiaepolitica.it

La nuova economiaepolitica.it
La redazione
economiaepolitica.it, 18 maggio 2015

Ecco on line la nuova economiaepolitica.it. Da oggi la nostra rivista esce con un sito completamente rinnovato, più versatile e adeguato alla consultazione con tablet e smartphone, nuovi servizi e una organizzazione ben più ricca degli articoli e dei video, nonché una nuova sezione su “il pensiero economico” con la finalità di rendere più chiari i principi fondamentali della critica all’economia politica del mainstream e i caratteri del confronto teorico tra le grandi scuole. E anche la redazione si arricchisce con nuove competenze di qualità.

La nostra rivista è nata nel dicembre 2008 da una idea di Riccardo Realfonzo e immediatamente intorno ad essa e al suo autorevole comitato scientifico – a cui sedevano Luciano Gallino, Pierangelo Garegnani e Augusto Graziani – si raccolsero numerosi economisti e altri studiosi di scienze sociali di formazione classico-keynesiana e critica verso i dogmi liberisti. Si trattava di quella parte dell’accademia italiana che già nel 2006 aveva proposto un appello per la stabilizzazione del rapporto tra debito pubblico e pil, sottolineando gli effetti recessivi delle politiche di “lacrime e sangue” da più parti invocate per abbattere il debito, e che nel 2007 (nel convegno di Roma su L’economia della precarietà, atti pubblicati dalla manifestolibri) aveva lanciato l’allarme sulla grande crisi che incombeva, sottolineando la necessità di fronteggiarla con politiche di bilancio espansive.

Da allora, economiaepolitica.it si è costantemente sforzata di offrire un punto di vista scientifico e frequentemente critico sulle principali decisioni di politica economica che si sono venute imponendo sulla scena italiana ed europea: dalle politiche fiscali restrittive ai tagli dello stato sociale, dalle privatizzazioni alle deregolamentazioni del mercato del lavoro, e così via.

In questi anni abbiamo pubblicato numerose centinaia di articoli, rigorosamente inediti, che periodicamente hanno suscitato l’attenzione dei media, per quanto i grandi giornali e le televisioni restino comunque poco sensibili alle tesi keynesiane, a dispetto dei disarmanti insuccessi registrati dal mainstream in termini di capacità di prevedere le dinamiche della crisi ed efficacia delle politiche economiche. A dispetto di ciò, abbiamo tirato diritto per la nostra strada, ospitando alcune tra le più illustri firme dell’economia politica internazionale, e promuovendo campagne di informazione e dibattiti. È il caso di citare almeno la Lettera degli economisti del 2010, con la quale diverse centinaia di studiosi italiani e stranieri hanno denunciato i danni delle politiche di austerità in Europa, l’accentuarsi dei processi di divergenza all’interno dell’eurozona e i drammatici rischi di tenuta della moneta unica. Una impostazione che è poi sfociata nel monito degli economisti del 2013, pubblicato dal Financial Times e in italiano da economiaepolitica.it, con il quale si chiarisce che proseguendo con le politiche di austerità e affidando il riequilibrio europeo alle sole “riforme strutturali”, l’esperienza della moneta unica si esaurirà.

Con la nuova economiaepolitica.it continuerà il nostro sforzo per approfondire in chiave critica e scientifica i grandi temi dell’efficacia delle politiche fiscali e monetarie, dell’assetto dell’Unione Monetaria Europea, dello sviluppo e della distribuzione della ricchezza, delle condizioni del lavoro, dei beni comuni, dell’ambiente, dei mercati finanziari internazionali. E il premio per questi nostri sforzi continuerà a essere il gradimento dei lettori, la loro partecipazione, il loro stimolo ad affinare il pungolo della nostra analisi e della nostra critica.

Il Jobs act rimescola ma non crea lavoro




Il Jobs act rimescola ma non crea lavoro
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 1 maggio 2015

Oggi è la festa del lavoro ma per tanti il lavoro non c’è più o resta un miraggio. Basti pensare che rispetto al 2008, prima della crisi, la disoccupazione è raddoppiata e solo nel Sud si conta ben oltre un milione di persone in cerca attiva di un impiego. Per questo, molti affidano le speranze al Jobs Act, entrato in vigore a marzo, e agli incentivi alle imprese in forma di “sconti” sui contributi previdenziali e assistenziali (decontribuzioni) per i nuovi assunti, operativi già da gennaio.
Il balletto delle cifre è in corso, sebbene sia ancora prestissimo per valutare gli effetti del Jobs Act, ma temo sia facile prevederne gli esiti. Come chiarito dallo stesso Fondo Monetario Internazionale, infatti, le deregolamentazioni del mercato del lavoro, come quelle previste dal Jobs Act, non hanno avuto effetti occupazionali significativi nella recente storia europea. La verità è che i livelli di produzione e di occupazione delle nostre imprese dipendono dalla domanda di merci e servizi che esse riescono a catturare, e i cambiamenti delle normative sul lavoro in ciò possono ben poco. Sotto questo aspetto, al netto di effetti temporanei, il risultato rischia di essere solo un rimescolamento nel ricorso alle forme contrattuali: una riduzione del numero di contratti di lavoro a termine e un aumento di quelli a tempo indeterminato (a tutele crescenti).
Più efficaci potrebbero essere le decontribuzioni che, abbattendo il costo del lavoro per le imprese, possono renderle più competitive. In questo modo si possono creare le condizioni per catturare una domanda un po’ più ampia, aumentando le esportazioni. Tuttavia, le merci del Mezzogiorno entrano nel mercato internazionale delle merci a tecnologia molto tradizionale nel quale trovano la concorrenza di imprese di Paesi aggressivi – in cui ad esempio i diritti dei lavoratori (che sono costi per le imprese) sono risibili – e i divari nei costi di produzione tra noi e quei Paesi ben difficilmente possono essere colmabili.
Insomma, nel Mezzogiorno anche le decontribuzioni scontano i limiti di un sistema produttivo inefficiente, tecnologicamente inadeguato, in un contesto povero di infrastrutture avanzate e privo di capacità amministrative. Prendiamo il caso Whirlpool. Ora che è scoppiata questa ulteriore crisi aziendale, la giunta regionale campana corre ai ripari e stanzia risorse. Ma domandiamoci come mai la Whirlpool intende chiudere lo stabilimento del casertano e al tempo stesso creare nelle Marche una grande fabbrica per la produzione di piani cottura.

Se il Sud butta i soldi

Se il Sud butta i soldi. L'incredibile caso del porto di Napoli
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 17 aprile 2015

È proprio vero che i nemici maggiori dello sviluppo produttivo del Mezzogiorno si trovano nel Mezzogiorno stesso. La vicenda illustrata dal Corriere del Mezzogiorno di ieri è solo l’ultimo, vergognoso, caso di sperpero di cui si è resa protagonista la nostra classe politico-amministratrice. Il fatto è che nei giorni scorsi, con alcuni atti notarili, il neocommissario dell’autorità portuale è stato costretto a dire definitivamente addio a ben 42 milioni stanziati con la legge Lunardi nel 2005, che avrebbero dovuto consentire rilevanti opere di ampliamento e riqualificazione del porto di Napoli. Semplicemente, negli anni scorsi non si è riusciti a spendere quei soldi, con buona pace delle imprese, dei lavoratori e di tutti gli operatori che direttamente e indirettamente avrebbero tratto beneficio dalle opere.
E dire che il Mezzogiorno ha una fame disperata di risorse. L’economia sprofonda, la disoccupazione continua a crescere, il divario con il Centro-Nord aumenta e ciò che manca sono soprattutto gli investimenti pubblici e privati. Basti pensare che oggi gli investimenti pubblici in infrastrutture per il Mezzogiorno si fermano solo a un quinto dei valori massimi registrati negli anni ’70 e che in pochi anni, dallo scoppio della crisi del 2008, gli investimenti privati si sono più che dimezzati. Non serve un dottorato in macroeconomia per capire che senza una politica industriale organica, assistita da investimenti infrastrutturali adeguatamente finanziati, il Mezzogiorno non troverà in sé le forze per riprendersi.
E ciò nonostante le scarse risorse che arrivano, a cominciare da quelle europee, continuano ad essere usate impropriamente e dissipate - troppo spesso per inseguire interessi particolari e clientele - o restituite al mittente perché, grazie tante, ma non ne abbiamo bisogno. È una storia che si ripete e che, con ogni probabilità, tornerà a interessare ancora Napoli e il suo porto, considerato che i fondi del Grande progetto europeo per il rilancio del porto (oltre 150 milioni) andrebbero spesi entro il 2015 e a questo punto ci sono poche possibilità che questo avvenga.
Questa storia infinita di sperperi e occasioni mancate dovrebbe farci capire alcune cose. In primo luogo, che non possiamo fare finta di indignarci per i commissariamenti da Roma, e men che meno può farlo una classe amministratrice che ha fatto del “cambiare tutto per non cambiare nulla” la sostanza della propria azione. In secondo luogo, che sul decollo produttivo del Mezzogiorno continua a gravare un tappo sociale costituito da una grigia borghesia politico-amministratrice che si alimenta nell’economia sussidiata ed è ostile allo sviluppo produttivo.

Presentato a Napoli il primo master universitario italiano sul commercio elettronico

A Napoli il primo master universitario italiano sul commercio elettronico
In Italia produce un giro di affari di 18 miliardi annui

(ANSA) - NAPOLI, 15 APR - "L'e-commerce è diventato oggi una scelta obbligata e un canale cruciale per le imprese che vogliano fare business sia nel nostro Paese sia su scala globale. L'Italia è conosciuta nel mondo per i suoi prodotti di abbigliamento, calzature, accessori, moda, arredo, design, vino e prodotti alimentari-gastronomici di qualità e tutte le piccole e medie imprese italiane che producono e/o commercializzano questo tipo di prodotti hanno degli spazi di mercato straordinari". Così Roberto Liscia, presidente di Netcomm, il Consorzio del commercio elettronico italiano, ha aperto stamane all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli la sua relazione su "Le opportunità del commercio elettronico per le piccole e medie imprese" in occasione della presentazione del primo Master universitario italiano sul commercio elettronico.
Si tratta del master in "E-commerce management" ideato e organizzato dall'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e dall'Università del Sannio, con la collaborazione proprio di Netcomm. Alla presentazione sono intervenuti i rettori delle due Università, Lucio d'Alessandro e Filippo de Rossi, il direttore scientifico e didattico del Master, l'economista Riccardo Realfonzo e il Presidente di Netcomm, Roberto Liscia, che ha aperto la giornata disegnando gli scenari e le opportunità di un mercato in grande espansione. "Tecnicamente stiamo parlando di una platea di oltre 1 miliardo di consumatori che abitualmente compra online - ha evidenziato Liscia - una platea per altro particolarmente affascinata dal Made in Italy in tutte le sue sfaccettature, e di 2,6 miliardi di individui che quotidianamente sono su internet. Ma in Italia stiamo perdendo competitività a livello globale e non riusciamo a sfruttare il potenziale di domanda anche per la carenza di figure professionali complete. Da questo punto di vista la formazione gioca un ruolo fondamentale, proprio perché servono competenze mirate e specifiche per aiutare le imprese a strutturare e migliorare la nostra presenza sul web. Ed è da questa esigenza che è nato il sostegno convinto di Netcomm al percorso formativo di alta specializzazione post laurea ideato dal Suor Orsola e dall'Università del Sannio, perché è evidente che in un ambito in cui la crescita economica che registriamo è in aumento così rapido e costante i profili con competenze mirate e conoscenze digitali avanzate saranno sicuramente premiati dal mondo delle imprese".
Un tema quello delle prospettive occupazionali che è stato sostenuto anche dai numeri presentati dal direttore scientifico e didattico del Master, Riccardo Realfonzo. "A dispetto della crisi, il settore del commercio elettronico - ha spiegato Realfonzo - cresce a ritmi molto sostenuti e ha ormai raggiunto in Italia un giro di affari di circa 18 miliardi di euro. Ma viste le grandi prospettive di ulteriore crescita è auspicabile che l'industria del commercio elettronico italiano diventi sempre più competitiva, considerato che il valore delle esportazioni italiane generato dal web è ancora inferiore alle importazioni, e che dunque ancora non si riesce a valorizzare adeguatamente il made in Italy ed è proprio per questo che servono investimenti importanti sulla formazione di nuove competenze, esattamente quello che stiamo facendo con questo nuovo percorso di alta formazione che unisce università ed aziende".
(ANSA).
COM-TOR/
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Il primo master universitario italiano sul commercio elettronico

Il primo master italiano sul commercio elettronico

Per dare un impulso al sistema produttivo italiano l'Università non può concentrarsi solo sulla ricerca di base e sulla teoria pura, ma deve sapersi confrontare anche con le esigenze formative del territorio e delle imprese, in un contesto in continuo cambiamento. Nasce così, a Napoli, il primo master che rilascia un titolo universitario sul commercio elettronico, uno dei pochi settori in forte crescita nel nostro Paese. Si tratta del master di primo livello in E-commerce management, promosso congiuntamente dall'Università del Sannio e dall'Univesità Suor Orsola Benincasa, con la collaborazione di Netcomm (il consorzio italiano del commercio elettronico). Il master - la cui direzione scientifica e didattica è affidata ai rettori dei due atenei e a me - verrà presentato a Napoli mercoledì 15 aprile alle 11,30. Qui il bando.



Los efectos de una salida del euro sobre el crecimiento, el empleo y los salarios

Los efectos de una salida del euro sobre el crecimiento, el empleo y los salarios
Riccardo Realfonzo y Angelantonio Viscione
Equilibrium Global, marzo 7, 2015


El análisis técnico expone que, tanto los catastróficos partidarios del euro sin objeciones como  los ingenuos teóricos de la moneda única como fuente de todos los males, están equivocados. La salidad de euro podría ser una manera de volver al crecimiento, pero al mismo tiempo oculta graves riesgos, especialmente para el mundo del trabajo. En retrospectiva, todo depende de la forma en que se permanezca en el euro y cómo, en la eventualidad, se sale de él.

1. Con austeridadel el euro no se sostiene
Desde finales de 2007 la zona euro ha dejado de crecer y la divergencia entre los países centrales y los periféricos se ha vuelto cada vez más impetuosa [1]. Continuando con las políticas económicas de austeridad impuestas por los Tratados, la crisis de la eurozona es sólo una cuestión de tiempo [2]. Por otro lado, la permanencia de los países periféricos en el euro, en el contexto de las políticas restrictivas, produce efectos sociales y económicos dramáticos. El caso italiano es elocuente: estamos asistiendo a un lento y progresivo declive; con una economía en gran medida disminuida, desempleo galopante, una distribución cada vez más desigual de los ingresos y el retiro del estado social. Obviamente, cambiar el signo de las políticas europeas sería sin duda la mejor opción. Sin embargo, es una solución políticamente cada vez menos probable, ya que Alemania y sus países satélites siguen rechazando cualquier apertura en esta dirección. Vale la pena entoces preguntarse cuáles podrían ser las consecuencias de una salida del euro.
Por supuesto, no es fácil predecir los escenarios después de una crisis del euro. Además porque dependería mucho de la posibilidad de que la salida del euro afecte a uno o más países, donde el "peso" económico-político de estos países tendría un rol destacado. Aún así, las cosas cambiarian mucho si las salidas fueran o no coordinadas y si se convertieran o no en uno o más regímenes cambiarios. No hace falta decir que casi todo esto por ahora está en la oscuridad.
Cualquier avance, sin embargo, podemos hacerlo siempre que se evite la trampa de los opositores ideológicos furiosos. Evitando, en conclusión, caer en el irracionalismo catastrófico de los partidarios del euro a toda costa como en la idea ingenua de que el euro es la fuente de todos los males, donde la salida de la zona euro podría resolver todos los males. Permanenciendo firmemente en el campo de los enfoques científicos, algunos economistas están trabajando en complejos modelos de predicción. Pero estos modelos en el pasado, a menudo, han demostrado límites en función de las hipótesis más o menos "heroicas" en la que se basan los mismos. Además, la teoría económica no ofrece respuestas univocas. De hecho, los fundamentos de la teoría económica nos enseñan que la salida de un país del euro y el retorno a su moneda antigua, con un intercambio inicial de uno a uno, deberia llevar inmediatamente a una depreciación de la moneda renacida, haciendola más atractiva frente a otras monedas. Esto debería promover las exportaciones del país y limitar las importaciones, mejorando el saldo de la balanza comercial, impulsando el crecimiento y el empleo. Sin embargo, hasta qué punto el abandono de los regímenes cambiarios y las devaluaciones es positivo para el crecimiento es objeto de disputas interminables. La devaluación aumenta el costo de los bienes importados y de esta manera tiende a aumentar el nivel de precios internos (es decir el precio de las mismas exportaciones) reduciendo la ventaja competitiva. Para complicar las cosas, se añaden los efectos redistributivos de la devaluación, sobre los que existe un amplio debate. El aumento en el nivel general de los precios internos que tiende a ser consecuencia de la devaluación tiende, por ejemplo, a reducir el poder adquisitivo de los salarios monetarios. La reducción de los salarios reales puede generar (en presencia de mecanismos de ajuste de los salarios a los precios o por la reacción de los sindicatos) una presión al alza sobre los salarios monetarios, y esto, aumentar la inflación erosionando aún más la ventaja ompetitiva de la devaluación. Por otra parte, la caída de los salarios en proporción con el PBI (la participación de los salarios) puede conducir a una reducción de la demanda interna de los bienes de consumo y esto tendería a reducir el crecimiento. Todo esto, sin hablar de los efectos potenciales sobre el costo de la deuda pública y sobre el riesgo de aquellos sujetos con una alta proporción de deuda en moneda extranjera donde el costo con la devaluación, obviamente, aumenta.
Llendo más allá de las disputas teóricas y, dada la debilidad inherente de los modelos de pronóstico, volvamos a la experiencia histórica de la que somos parte. De hecho, dado que no se tiene registro de una experiencia similar a la del euro, algunos indicios importantes se pueden extraer de las crisis monetarias del pasado próximas a nuestro caso.
A tales efectos, se consideran las crisis monetarias que en la historia reciente llevaron a grandes devaluaciones del tipo de cambio y que implicaron el abandono de acuerdos anteriores o de sistemas de cambio [3]. Centrando la atención en las crisis monetarias posteriores a 1980, hay 28 casos de grandes devaluaciónes – en más de un 25% en comparación con el precio del dólar [4] - que llevaron al abandono de los sistemas de cambio anteriores [5]. De ellos, 7 casos tienen implicaron a países con elevado ingreso per cápita (Australia 1985, Finlandia 1993, Islandia 1985, Italia 1993, Corea del Sur 1998, España 1983 y Suecia 1993) y 21 casos han afectado a países con bajos ingresos per cápita (Argentina 2002, Bielorrusia 1999, Brasil 1999, Chile  1982, Costa Rica 1981 y 1991, Egipto 2003, Guatemala 1990, Honduras 1990, Indonesia 1998, Kazajstán 1999, México 1995, Paraguay 1989, Perú 1988, Polonia 1990, Rumania 1990, Sudáfrica 1984 , Suriname 1994, Turquía 1999, Uruguay 1982 y 2002).
A la luz de las estadísticas descriptivas, vemos que la experiencia histórica enseña que las grandes crisis monetarias que han sido seguidas por devaluaciones significativas se han relacionado con el abandono de los sistemas cambiarios anteriores.

2. La inflación erosiona gradualmente la ventaja de las devaluaciones.
Lo primero que se debe comprobar es el grado en que las crisis monetarias tienden a desencadenar procesos inflacionarios y , en que medida, estos ultimos pueden anular los efectos positivos de la devaluación. Para desarrollar el análisis, consideramos la depreciación frente al dólar de los 28 casos expuestos y luego el diferencial entre la inflación de Estados Unidos y la de cada país.
Pues bien, en la experiencia histórica que estamos considerando, el valor promedio de las devaluaciones con respecto al dólar se acerca al 558%, lo que significa que dichas crisis monetarias han dado lugar a una depreciación -de las monedas involucradas- de alrededor de cinco veces y media respecto al dólar (Tabla 1). Es necesario mantener la atención sobre todo lo que sucedió en los países de altos ingresos, los que obviamente ofrecen más orientación para nuestro caso dado que la diferencia con la dinámica de los países de bajos ingresos es relevante. De hecho, la depreciación de las monedas de los países de altos ingresos se ha contenido en torno al 32%. Por ejemplo, la lira italiana se deprecio en 1993 en un 27,69% frente al dólar. [6]
Pero lo que más importa es la diferente reactividad de la inflación, que se describe en la literatura, como el efecto transmisión de la devaluación a los precios (pass-through). De hecho, como lo confirma la experiencia histórica, las devaluaciones a menudo dan lugar a procesos inflacionarios significativos. Basta señalar que en el año de la crisis monetaria se registró un diferencial de inflación total de alrededor de 58% en comparación con los EE.UU. (véase de nuevo la Tabla 1) y, en tan sólo dos años, el diferencial de inflación resulta ser de alrededor del 450%, devorándose así el 80% de la ganancia competitiva relativa a la devaluación. Una vez más, sin embargo, existe una diferencia significativa entre la experiencia de los países de altos ingresos y los de ingresos bajos. De hecho, en los países de altos ingresos el diferencial de inflación es igual al 6% en el primer año y alcanza el 16% después de tres años. Esto confirma que las evaluaciones tienden a desencadenar procesos inflacionarios significativos, que son, sin embargo, más atenuados en los países de altos ingresos, donde dentro de dos años de crisis, la inflación erosiona el efecto de la devaluación en aproximadamente un 50%.
No obstante, es imposible establecer reglas estrictas. De hecho mirando casos específicos de países de altos ingresos, se observa que el estudio de casos es heterogéneo. En algunos casos, a pesar de una depreciación de más del 25% frente al dólar no se registra una brecha de inflación significativa con los Estados Unidos (Finlandia, Corea, Suecia); en otros casos, el repunte de la inflación está contenido (como Italia de 1993 en la que, después de tres años, el diferencial de inflación acumulada se limitó al 5,7%); en otros, es bastante fuerte (Australia, España y especialmente en la pequeña Islandia, único caso entre los países de altos ingresos, donde después de tres años, el diferencial de inflación supera el valor de la devaluación) [7].

Tabla 1
Las devaluaciones y los diferenciales de inflación en los 28 casos de crisis monetarias (1980-2013)
Fuente: revista online Economia e Politica basada en datos del Banco Mundial
País y año de la crisis
Devaluacion en %  respecto al $
Diferencial de inflacion en respecto a los EE.UU.
Año de crisis
Año de crisis y uno despues
Año de crisis y dos despues
Todos los paises
558,51
57,56
237,84
447,45
Paises de altos ingresos
31,91
6,14
10,92
15,65
Austraia (1985)
25,66
1,42
6,06
10,75
Finlandia (1993)
27,52
-0,46
-0,95
1,49
Islandia (1985)
30,96
28,89
51,46
68,85
Italia (1993)
27,69
1,51
2,92
5,76
Republica de Corea (1998)
47,32
3,87
1,40
0,08
España (1983)
30,56
7,94
15,25
20,65
Suecia (1993)
33,65
-0,17
0,33
1,96
Paises de bajos ingresos
734,04
75,56
317,27
598,58



3. La balanza comercial mejora
Debemos, por tanto, esperar que un primer efecto positivo de la salida del euro sea el mejoramento de la balanza comercial debido al crecimiento de las exportaciones y la tendencia a la baja de las importaciones.
Para tener una mejor idea retomemos nuestra casuistica historica y hagamos una comparación entre el promedio del saldo de la balanza comercial (exportaciones menos importaciones) y el PBI en los dos y tres años previos y posteriores a las crisis monetarias. De hecho, como se muestra en la Tabla 2, los países de bajos ingresos no se han beneficiado enormemente de las devaluaciones dado que los saldos de la balanza comercial se mueven en promedio muy poco. Muy diferente es la conclusión para los países de altos ingresos donde evidentemente las crisis monetarias no suelen tener los efectos ruinosos (también en las estructuras institucionales y políticas) experimentados en los países de bajos ingresos. De hecho, en los países de altos ingresos, el saldo de la balanza comercial mejora vistosamente, en promedio, más de tres puntos porcentuales del PBI  tomando como referencia temporal los dos y los tres años [8]. se observa una sola excepción (Australia, 1985) donde la balanza comercial mejora inmediatamente a la devaluación.

Tabla 2
Balanza comercial - Valores promedio en comparación con el PBI en los dos y los tres años previos y posteriores a la crisis (1980-2013)
Fuente: revista online Economia e Politica basada en datos Ameco - Comisión Europea y datos del Banco Mundial
Paises y años de crisis
promedio exportaciones netas en % del PBI
2 años antes
2 años despues
3 años antes
3 años despues
Todos los paises
-0,04
0,99
0,20
0,85
Paises de altos ingresos
-0,33
3,07
.0,69
3,02
Austraia (1985)
-1,77
-2,37
-1,87
-1,81
Finlandia (1993)
-0,05
5,12
-0,55
5,90
Islandia (1985)
1,05
1,97
-0,83
0,98
Italia (1993)
0,14
3,21
0,17
3,36
Republica de Corea (1998)
-1,65
9,31
-1,28
7,16
España (1983)
-1,88
0,55
-2,00
0,92
Suecia (1993)
1,88
3,71
1,53
4,60
Paises de bajos ingresos
0,06
0,26
0,51
0,09


4. Las exportaciones empujan el crecimiento, pero no siempre
Las mejoras en la balanza comercial que seguirían a la salida del euro tendría un impacto positivo en el crecimiento. Eso al menos es lo que el análisis histórico tiende a demostrarnos cuando se compara la tasa de crecimiento promedio registrado en los dos y los tres años previos y posteriores a la crisis.
En los hechos, para todos los  28 casos históricos considerados, no hubo resultados positivos. Sin embargo, al desagregar los países de altos ingresos de los de bajos ingresos, una vez más podemos comprobar efectos muy diferentes (Tabla 3). En efecto, a diferencia de los países de bajos ingresos, en los países de altos ingresos, la tasa media de crecimiento aumenta apreciablemente, pasando del 1,2% de los dos años previos a la devaluación al 2,2% en los dos años despues. Una aceleración del crecimiento aún más pronunciada se observa en el horizonte de los tres años anteriores y posteriores, cuando el crecimiento promedio pasa de un 1,4% a 3,2%. En general, los países de altos ingresos, impulsados por la balanza comercial (lo cual no ocurre en los países de bajos ingresos) han aumentado significativamente el ritmo de crecimiento. Sin embargo, la experiencia histórica induce a la prudencia y la moderación. Hay que señalar que no todos los países de altos ingresos han experimentado aumentos en la tasa de crecimiento. Estos incluyen a Italia, a pesar de que había recibido después de la devaluación un aumento del saldo de la balanza comercial de más de tres puntos del PIB.

Tabla 3
Tasa de crecimiento del PBI - Valores promedio en los dos y los tres años previos y posteriores a la crisis (1980-2013)
Fuente: Ameco - Comisión Europea, Banco Mundial
Paises y años de crisis
Media de la tasa de crecimiento del PBI
2 años antes
2 años después
3 años antes
3 años despues
Todos los paises
2,43
0,08
2,72
1,27
Paises de altos ingresos
1,20
2,22
1,45
3,21
Austraia (1985)
4,94
3,19
2,55
3,99
Finlandia (1993)
-4,62
1,60
-2,85
2,47
Islandia (1985)
0,99
4,78
1,38
6,04
Italia (1993)
1,19
0,65
1,48
1,40
Republica de Corea (1998)
6,48
2,51
7,29
4,60
España (1983)
0,56
1,78
0,80
1,96
Suecia (1993)
-1,15
1,01
-0,52
2,02
Paises de bajos ingresos
2,86
-0,67
3,17
0,59


5. La ocupación frecuentemente no crece
Más allá de considerar algunos aspectos positivos en la competitividad, en el saldo de la balanza comercial y en el crecimiento, los efectos sobre la ocupación no son tranquilizadores.
Tomando el conjunto de los 28 casos históricos considerados, se observa que después de la crisis monetaria, la tasa de desempleo se reduce gradualmente, cayendo en promedio un punto dentro de los tres años posteriores al estallido de la crisis monetaria (Tabla 4). Sin embargo, la disminución del desempleo afecta en promedio sólo a los países de bajos ingresos. De hecho, en los países de altos ingresos, la tasa de desempleo es perfectamente estable. Incluso en la experiencia de algunos países, como Italia, la tasa de desempleo ha crecido de forma significativa. Está claro que en los países de ingresos altos históricamente el crecimiento después de las crisis monetarias ha sido garantizado por una mayor utilización del capital industrial y del trabajo. Sin embargo, incluso en este punto hay diferencias significativas entre los países de altos ingresos, lo cual es una señal de que las diferentes estructuras de los mercados de trabajo (institucionales y normativos) y las diferentes políticas económicas impulsadas, afectan en gran medida sobre el empleo.


Tabla 4
El desempleo después de la crisis monetaria - Tasa de desempleo en los años posteriores a la crisis (1980-2013)
Fuente: Ameco - Comisión Europea, Banco Mundial, Eclac CepalStat
Paises y años de crisis
Tasa de desempleo
Año de crisis
Año despues la crisis
2 años despues la crisis
Todos los paises
9,74
9,38
8,91
Paises de altos ingresos
9,46
9,83
9,46
Austraia (1985)
8,26
8,08
8,11
Finlandia (1993)
16,30
16,60
15,40
Islandia (1985)
1,60
1,10
0,80
Italia (1993)
9,70
10,60
11,20
Republica de Corea (1998)
6,95
6,34
4,14
España (1983)
14,30
16,70
17,80
Suecia (1993)
9,10
9,40
8,80
Paises de bajos ingresos
9,86
9,19
8,67


6. El peligro de la deflación salarial
Para entender lo que podría atascar la recuperación del empleo a raíz de una salida del euro -a pesar de la tendencia de mejora en la balanza comercial- es necesario tener en cuenta lo que podría suceder en términos de los salarios.
Esta es la principal preocupación que surge de este análisis. Nuevamente, la experiencia histórica demuestra inequívocamente que los efectos de las crisis monetarias en los salarios pueden ser particularmente graves. Para verificar estos resultados, consideramos los salarios reales (es decir, el poder adquisitivo de los salarios nominales promedio de los trabajadores) o la participación de los salarios en el PBI -wage share- (que muestra el porcentaje del PBI que se dirige a los asalariados). Como se muestra en la Tabla 5, en los primeros tres años posteriores a la devaluación, en los 28 casos se ha producido una disminución drástica de los salarios reales y de la participación de los salarios en el PBI, lo que parece ser principalmente el resultado de los procesos inflacionarios que generan una redistribución de los salarios, las ganacias y las rentas.
Por supuesto, una vez más, es conveniente separar el caso de los países de altos ingresos de los demás. Pues bien, el efecto es fuerte incluso teniendo en cuenta sólo los países de altos ingresos, donde - con exclusión la excepción de la pequeña Islandia (donde se registró un fuerte aumento de los salarios reales) - se observa que los salarios reales despues de tres años siguen siendo inferiores a la cifra del  año de la crisis monetaria. Especialmente en los países de altos ingresos cae la participación de los salarios en un 7,8% en sólo tres años, con un efecto repentino y masivo de redistribución contra los trabajadores. Es fácil deducir que la caída de los salarios ha contribuido a mantener baja la demanda de bienes de consumo interna, en detrimento de los sectores más tradicionales, lo que ha reducido significativamente la recuperación del empleo.
Al respecto, puede ser significativo recordar el caso italiano. Como se sabe, después de la crisis monetaria de 1993 se promulgaron políticas salariales restrictivas. Esto limitó evidentemente la presión inflacionaria y así permitió que las exportaciones sigan creciendo, pero provocó una caída de los salarios después de tres años de más del 4% y una caída en la participación de los salarios que toco el 9%. Lo dicho explica la caída de la demanda interna y la falta de crecimiento de nuestro país en esos años, además de un mayor desempleo. En otras palabras, a la luz de los datos sobre el crecimiento del saldo de la balanza comercial y de la disminución de los salarios reales, es evidente que en Italia el aumento de la demanda externa fue compensado en gran parte por el estancamiento de la demanda interna con efectos nulos sobre el crecimiento. Son los efectos generales de las políticas de contención salarial de aquel tiempo.

Tabla 5
Salarios reales y porcentaje de los salarios en el PBI - valores acumulados en los tres años siguientes a la crisis monetaria (1984-2013)
Fuente: revista online Economia e Politica basada en datos del Banco Mundial
Paises y años de crisis
Variacion % de los salarios reales
Variacion % de la participación salarial en el PBI
 Año de crisis
Año de crisis y 1 despues
Año de crisis y 2 despues
 Año de crisis
Año de crisis y 1 despues
Año de crisis y 2 despues
Todos los paises
-8,23
-18,94
-18,25
-4,99
-11,73
-12,16
Paises de altos ingresos
-0,34
0,98
4,10
-0,67
-3,22
-3,79
Paises de altos ingresos sin Islandia
-1,33
-0,89
-0,66
-1,99
-4,94
-7,76
Austraia (1985)
-0,87
-2,98
-3,47
-0,65
-1,43
-4,98
Finlandia (1993)
-3,42
-0,40
2,83
-6,48
-9,70
-12,25
Islandia (1985)
5,63
12,21
32,62
7,24
7,10
20,01
Italia (1993)
-0,78
-2,40
-4,08
-1,80
-5,12
-8,60
Republica de Corea (1998)
-1,94
-1,66
-1,96
-1,08
-5,33
-6,62
España (1983)
1,42
1,25
2,23
-0,39
-4,85
-7,66
Suecia (1993)
-2,41
0,82
0,50
-1,55
-3,22
-6,45
Paises de bajos ingresos
-10,99
-25,91
-26,07
-6,58
-14,86
-15,25

7. En conclusión: la salida del euro no es una panacea
La crisis de la Eurozona podría provocar levantamientos, individuales o colectivos, autónomos o concertados, de países más pequeños o más grandes, y llevar o no a nuevos regímenes cambiarios. Por supuesto, no existe una teoría económica o la experiencia histórica que puede arrojar luz con certeza sobre los posibles escenarios que darían lugar las diferentes combinaciones de estas opciones. Al mismo tiempo, la experiencia histórica nos dice que el abandono de la eurozona por parte de un país periférico podría ser una oportunidad para volver al crecimiento. Pero el “euroexit” no es una panacea.
Está claro que una salida desde el euro podría aumentar la competitividad del país en cuestión, especialmente en el corto y mediano plazo; sin embargo poco tiempo después la inflación erosionaría la ventaja competitiva. Al mismo tiempo, las mejoras del saldo de la balanza comercial deberian promover el crecimiento, pero es difícil que aumenten el empleo. Mucho dependerá de la estructura del mercado de trabajo, de las políticas salariales y, en general, de las políticas económicas puestas en marcha. En los casos donde los salarios eran hasta cierto punto protegidos de la inflación, la demanda interna puede no verse tan afectada y esto apoyaría el crecimiento y el empleo. Donde, por el contrario, los salarios no están protegidos, la economía estaría impulsada por las exportaciones, por lo cual el mercado nacional podría sufrir de manera espectacular; así también la ocupación que depende en gran medida de los sectores tradicionales que miran a la demanda interna. En este caso, el aumento de las exportaciones generaría mayores beneficios, con el riesgo de no generar una expansión de los niveles de empleo. Al mismo tiempo, una devaluación acompañada de políticas de apoyo a los salarios y políticas industriales incisivas podría apoyar la demanda interna y crear las condiciones para un crecimiento estructural de la competitividad.
En resumen, si el cambio se da en un sentido redistributivo y expansivo de las políticas europeas, que implique el abandono de la austeridad, la salida desde el euro podría ser la solución elegida por algunos países en un futuro próximo. Y esto también podría reactivar la economía. Sin embargo, un retorno a la soberanía monetaria y a las maniobras de cambio, no es suficiente para borrar -como por arte de magia- los problemas relacionados con las deficiencias de los aparatos productivos o la falta de financiación de las infraestructuras materiales y no materiales. La lección más importante que podemos aprender de la historia es que los resultados -en términos de crecimiento, distribución y empleo- dependen más de la forma en que se permanezca en el euro que del abandono del viejo sistema de intercambio en sí, de la calidad de las políticas económicas que se pongan en marcha una vez  recuperados los resortes monetarios y fiscales.

Tradución y desarrollo por
William Bavone y Maximiliano Barreto



[1] Cnf  “Eurocrisi, il conto alla rovescia non si è fermato”, www.economiaepolitica.it, 2 de diciembre de 2014.
[2] Previsión del “alerta de los economistas”, publicado en 2013 por el Financial Times.
[3] Desarrollamos en tal sentido la sugerencia de Emiliano Brancaccio y Nadia Garbellini en “Uscire o no dall’euro, gli effetti sui salari”, www.economiaepolitica.it mayo de 2014, profundizada por los mismos autores en “Sugli effetti salariali e distributivi delle crisi dei regimi di cambio”, Revista de Politica Economica, julio-septiembre de 2014; y en “Currency regime crises, real wages, functional income distribution and production”, European Journal of Economics and Economic Policies: Intervention, próxima a  publicarse.
[4] Considerado como valor de referencia generalmente en la literatura.
[5] En referencia a la clasificación de los regímenes cambiarios propuesta por el FMI.
[6] Por el contrario, los países de bajos ingresos han experimentado una depreciación de más del 700%; sin embargo, un valor que cae alrededor del 150% si se excluye del análisis la super-depreciación de Suriname en 1994.
[7] Es interesante señalar que en los países de altos ingresos después de 5 años a partir de la crisis monetaria, el diferencial de inflación erosiona en promedio el 78% de la devaluación.

[8] A una conclusión similar se llega también tomando en cuenta el promedio del saldo de las exportaciones netas respecto al PBI en los cinco años anteriores a la crisis de la moneda y en los cinco años siguientes. Esto muestra que en los países de altos ingresos los efectos positivos de la devaluación tienden a ser persistentes, incluso en el mediano plazo.