Un autogol a Bagnoli. L'errore fatale del sindaco di Napoli

Un autogol a Bagnoli. L'errore fatale del sindaco di Napoli
di Riccardo Realfonzo
Il Corriere del Mezzogiorno, 5 dicembre 2014

Transennata, commissariata, politicamente isolata. Questi gli aggettivi che definiscono oggi la condizione di Napoli. Molti si chiedono se sia democratico e istituzionalmente leale che il governo estrometta la città dalle decisioni riguardanti Bagnoli, e se lo sia l'atteggiamento ritorsivo del Sindaco. Io rispondo con una domanda: cosa abbiamo fatto noi napoletani per evitare questo esito? Perché il timore maggiore è questo: che l’accrocco giuridico-finanziario pensato a Roma, unito alla conclamata irresponsabilità delle classi dirigenti locali, possa fallire l’obiettivo del risanamento ambientale e del rilancio economico dell’area dell’ex acciaieria. Non dimentichiamo che quando nei primi anni ’90 uno spirito pubblico orientato al benessere collettivo incontrò capacità amministrative e ambizione politica di respiro nazionale, Napoli riuscì, proprio su Bagnoli, a dotarsi di strumenti urbanistici di prima grandezza. Una grandezza poi tradita dal prevalere della politica stracciona e incompetente che incombe su Napoli e sul Mezzogiorno come una sorta di maledizione. Basti pensare alla vicenda della società pubblica Bagnoli Futura, fallita qualche mese fa dopo che per oltre dieci anni praticamente tutti hanno cercato in ogni modo di tenerla in vita: il blocco del periodo tardo-bassoliniano, nel tentativo di ottenere da essa potere e finanziamenti pubblici; i potentati economici locali, nell’attesa che il sogno della “Bagnoli verde” fallisse per potere lucrare sull’edilizia e sulle rendite; l’amministrazione arancione, che anche in questo caso non ha avuto il coraggio di attuare i propositi “rivoluzionari” promessi ai cittadini, cioè lo scioglimento della Bagnoli Futura Spa e l’apertura di un tavolo con il governo per attuare innanzitutto le bonifiche. Ma l’attuale amministrazione, il sindaco in prima persona, porta una particolare responsabilità, che fa tutt'uno con la sconcertante oscillazione delle sue posizioni sull'argomento. Quando de Magistris dopo due anni di mandato si ritrovò la Bagnoli Futura con l’acqua alla gola, dopo aver ceduto su alcuni capisaldi della variante urbanistica (compresa la mancata delocalizzazione di Città della Scienza), trovandosi con le spalle al muro, si decise a intimare proprio a Fintecna, il principale creditore di Bagnoli Futura, di bonificare le aree. Fu subito evidente che quell’azione avrebbe innescato una reazione che portava diritti al fallimento della società e all’intervento del governo. E, infatti, il Comune di Napoli non si è pronunciato contro il commissariamento, almeno fino a quando si è capito che il commissario non sarebbe stato il sindaco. Così oggi egli si scaglia comicamente contro il governo e la persona stessa di Renzi, avendo intanto perso ogni credibilità istituzionale, politica, umana, e offrendo su un piatto d'argento la possibilità di scaricare esclusivamente sulle istituzioni locali la responsabilità di una vicenda fallimentare, che sembra senza fine.

Eurocrisi: il conto alla rovescia non si è fermato

Eurocrisi: il conto alla rovescia non si è fermato
di Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione
Economia e Politica, 2 dicembre 2014

L'opinione della Commissione Europea, secondo cui la moneta unica e le politiche di austerità avrebbero favorito una crescita equilibrata nell'eurozona, è del tutto smentita dai fatti. Al contrario, con la crisi scoppiata alla fine del 2007 i processi di divergenza tra le economie europee sono diventati sempre più impetuosi e giorno dopo giorno aumenta il costo economico e sociale della permanenza nell'euro per i Paesi periferici. Di questo passo - come previsto dal "monito degli economisti" pubblicato dal Financial Times - la fine della moneta unica porterà al fallimento del progetto di unificazione europea. E nonostante ciò la Germania e i suoi Paesi satellite non sembrano avere alcuna intenzione di fermare il conto alla rovescia dell'euro.



Presentazione del Rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno

Lunedì 1 dicembre parteciperò alla presentazione del Rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno. Sarà l'occasione per ribadire che le tendenze all'allargamento del dualismo tra centri e periferie ormai riguardano l'intera eurozona, come chiarito nel "monito degli economisti" pubblicato dal Financial Times.

Un mio impegno alle regionali in Campania?

Leggo sui giornali di un mio possibile coinvolgimento nelle elezioni regionali in Campania. A riguardo, tengo a precisare di avere effettivamente ricevuto una proposta in questo senso da autorevoli esponenti del centrosinistra, schieramento al quale in passato ho più volte offerto il mio contributo di studioso che non si sottrae al dovere di impegnarsi per la propria comunità. Tuttavia, ho preferito declinare la proposta. Infatti, prima ancora di considerare la praticabilità di un simile percorso sul piano strettamente personale, ho chiarito che non potrei comunque prendere parte ad alcuna iniziativa politico-elettorale del centrosinistra che vedesse coinvolte anche le frange politiche vicine all’attuale amministrazione del Comune di Napoli, che hanno dimostrato un marcato connotato demagogico e opportunistico. Anche io infatti credo, come il professore Massimo Villone che è intervenuto ieri sulla stampa, che per costruire una nuova prospettiva nella nostra Regione sia indispensabile un'alleanza tra il Partito Democratico e le altre forze di centrosinistra in grado di esprimere una cultura di governo e fornire un serio contributo di idee per rilanciare il tessuto economico-sociale campano. Ritengo che questa alleanza costituirebbe la soluzione in grado di scongiurare tentazioni di apertura a destra e al tempo stesso credo che il coinvolgimento di frange populistiche non solo penalizzerebbe elettoralmente il centrosinistra ma rappresenterebbe un ostacolo al buon governo della Campania.
(6 novembre 2014)


(Corriere del Mezzogiorno, 6 novembre 2014)

Napoli, i debiti crescono e non è detto che il dissesto si potrà evitare

Napoli, crescono i debiti di de Magistris e non è detto che il dissesto si potrà evitare. Intervista a Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 2 novembre 2014

Professore Realfonzo, le piace la versione on the road del sindaco reintegrato de Magistris?
Come la versione precedente, per nulla. Dico solo che il populismo più estremo non farà dimenticare ai napoletani questi tre anni di disastro amministrativo e tutte le promesse tradite.
Il sindaco, intanto, ha annunciato di voler lavorare ad una nuova maggioranza.
Ormai è chiaro che la politica partenopea è affollata di soggetti pronti a vendersi per un piatto di lenticchie. La nota peggiore di questa fase è stata la totale assenza di iniziativa politica dei partiti di opposizione e purtroppo anche della società civile.
Intanto le Sezioni Riunite della Corte dei Conti sottolineano che il buco di bilancio del Comune ha radici antiche. Prima dell’avventura con de Magistris lei è stato per un anno assessore al bilancio con la Iervolino, cosa ne pensa?
Che le casse comunali facessero acqua da tutte le parti lo denunciai io nel 2009, in solitudine. Appena assunsi l’incarico nella Giunta Iervolino, esaminati i conti, chiarii che il Comune era sull’orlo della bancarotta e mi misi al lavoro per risanare. Ma dopo alcuni risultati, fui bloccato perché proponevo misure incompatibili con la politica clientelare. Provavo a bloccare i debiti fuori bilancio e gli sperperi delle società partecipate, volevo la verità sui conti.
In che senso fu bloccato?
Le racconto una vicenda non nota. In quel periodo, il tentativo di ostacolare la mia azione veniva dall’interno e dall’esterno del Palazzo. Tra gli altri vi era un cronista locale che sviluppò una campagna di stampa. La cosa raggiunse il culmine sul consuntivo 2008, quando sulla scorta di miei indirizzi, gli uffici decretarono la cancellazione di oltre 200 milioni di crediti fasulli del Comune, multe e tributi non riscossi. Il cronista in questione mi attaccò, fino a sostenere che con quell’operazione avevo prodotto un danno erariale. Lo denunciai per il reato di diffamazione. 
E come è andata a finire?
I magistrati incaricarono la Guardia di Finanza di indagare e il loro rapporto diede pienamente atto della azione positiva che avevo compiuto. Oggi il giornalista risulta rinviato a giudizio.
De Magistris dice che lui non conosceva la condizione delle casse prima di diventare sindaco
Ridicolo. Presentò persino il mio libro "Robin Hood a Palazzo San Giacomo", in cui le ragioni del buco di bilancio sono spiegate in dettaglio. Poi, appena insediata la Giunta, feci redigere una due diligence che confermava che o si varavano le riforme incisive che gli proposi o si sarebbe giunti al dissesto.
E poi?
Fu mal consigliato, si convinse che io fossi ostile alle sue ambizioni e volessi bloccarlo sugli eventi. La rottura fu definitiva quando feci passare la famosa delibera 388 del 25 maggio 2012, che bloccava l’esecutività del bilancio di previsione e imponeva una ricognizione straordinaria dei residui attivi, imponendo finalmente una pulizia approfondita del bilancio.
De Magistris reagì male?
Fu una battaglia feroce, nella quale fui sostenuto a spada tratta da Narducci e da pochi dirigenti. Subito dopo, Narducci si dimise, i dirigenti furono epurati, e io tornai a casa.
Poi il Comune ha aderito al salva-Comuni per evitare il dissesto e predisposto il Piano di riequilibrio
Il punto è che il Piano non funziona, punta su entrate immaginarie e non prevede riforme. Ciò è stato rilevato dalla sezione regionale della Corte dei Conti che aveva bocciato il Piano e stava avviando il dissesto. 
Però le Sezioni Riunite hanno capovolte le cose, respingendo la delibera della Corte campana, come mai?
Guardi, i magistrati contabili campani conoscono i meccanismi amministrativi del Comune e avevano condotto un’analisi stringente del documento, alla luce delle vicende che ci hanno portato di fatto a un nuovo dissesto, dopo quello del 1993. Le Sezioni Riunite hanno scelto un approccio diverso, sorvolando sostanzialmente sulla sostenibilità del Piano così come sottopostogli e riponendo grande fiducia sulla sua adattabilità nel lungo periodo.
Può fare un esempio?
La vendita del patrimonio immobiliare, decisivo nel Piano perché si prevede di incassare 750 milioni. La Sezione campana aveva criticato queste previsioni, anche per l’assenza di un cronoprogramma delle vendite e per la presenza di una serie di vincoli ignorati. Invece per le Sezioni Riunite si tratta di aspetti secondari, perché - sono loro parole - “non assume rilevanza la specificazione della singola risorsa o del singolo intervento di spesa, purché sia evincibile la capacità dell’ente di raggiungere la monetizzazione pianificata”.
Per le Sezioni Riunite il Piano di de Magistris è definitivamente promosso?
No, le stesse Sezioni Riunite sottolineano che la legge prevede un monitoraggio sull’attuazione del Piano, la cui eventuale bocciatura potrà riportarci alla dichiarazione formale di dissesto. E oggi sappiamo che le riscossioni diminuiscono, che la vendita di quote di partecipazioni azionarie ai privati per 50 milioni è una bufala, che i debiti fuori bilancio sono schizzati verso l’alto e vengono finanziati, con una operazione di “finanza creativa”, mediante entrate degli anni futuri.

Repubblica commenta l'analisi di Realfonzo sul mercato del lavoro italiano e il Jobs Act

Contratti e protezione dei lavoratori: Italia meno rigida della Germania

L'analisi di Realfonzo: secondo i dati Ocse i contratti a tempo indeterminato italiani proteggono i lavoratori meno di quanto accada in Germania o Francia. Anche guardando alla sola voce del reintegro, centrale nella disputa sull'articolo 18, il mercato tedesco è più rigido.

"Mission impossible" al Comune di Napoli

Mission impossible al Comune di Napoli
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 21 ottobre 2014*

Che si voti già il prossimo anno o si giunga alla scadenza naturale del sindaco sospeso, certo è che il futuro sindaco di Napoli si troverà a gestire una situazione economica da brivido. Una eredità peggiore di quella che de Magistris raccolse da Rosa Iervolino.
Tutti sanno, infatti, che il dissesto del Comune è stato evitato grazie a due norme. Da un lato, il decreto salva-Comuni, venuto in soccorso dei Comuni in predissesto mettendo a loro disposizione - in presenza di un piano di risanamento credibile - somme consistenti da restituire in un decennio. Le difficoltà del piano predisposto a Napoli nell’ottenere il via libera sono state enormi, dal momento che la sezione regionale della Corte dei Conti era risoluta a dichiarare il dissesto del Comune, dato il buco di bilancio da un miliardo di euro e nessuna promessa credibile di risanamento. Ma poi, in un modo o nell’altro, il via libera è arrivato e oggi il piano di risanamento descrive una road map impercorribile, a meno di riforme radicali. Dall’altro lato, il Comune approfittava del pacchetto di decreti sui debiti della pubblica amministrazione che concedeva ulteriori importanti crediti, dando ossigeno alle società partecipate e allentando temporaneamente la morsa dei creditori. Questi salvataggi hanno messo però sul groppone del Comune oltre un miliardo e mezzo da rimborsare allo Stato, a suon di tasse locali, nei prossimi 30 anni.
Ma i problemi non finiscono qui e altre due norme vengono a turbare il futuro del sindaco che verrà. La riforma dei bilanci locali e la Legge di Stabilità del governo Renzi tentano, infatti, di dare una risposta a due questioni ulteriori: da un lato, le difficoltà croniche di alcuni Comuni italiani nel riscuotere tasse e tariffe, per cui nell’insieme delle loro casse mancano circa 45 miliardi (il 3% del pil del Paese); dall’altro, i vincoli asfissianti del Patto di Stabilità, che in alcuni casi impediscono ai Comuni di effettuare investimenti anche in presenza di risorse. Alla luce di tutto ciò, la riforma dei bilanci locali prevede che i Comuni dovranno creare un “fondo” a garanzia delle somme che non riescono a riscuotere e che varrà, per l’insieme dei Comuni, non meno di due miliardi e mezzo. In cambio di ciò, la manovra del governo allenterà gli obiettivi del Patto di Stabilità, ma solo a vantaggio dei Comuni virtuosi, che riescono a riscuotere tasse e tariffe. Tutto ciò peggiorerà ancora la situazione del Comune di Napoli, che riesce a incassare solo il 50% delle somme messe a bilancio e che registra persino peggioramenti delle percentuali di riscossione.
Insomma, col piano di risanamento che non funziona, un debito di oltre un miliardo e mezzo, una totale inadeguatezza della macchina comunale e con riforme che scaricano sui Comuni inefficienti gli oneri del Patto di Stabilità, c’è da credere che il futuro sindaco di Napoli avrà da svolgere una mission (quasi) impossible.

*Pubblicato con il titolo "Le tasse non riscosse che affondano il Comune"

Referendum "Stop austerità": obiettivo sfiorato, raccolte 400mila firme. La battaglia continua


Alla scadenza dei 90 giorni previsti dalla legge e dopo una estate passata ai banchetti, l'obiettivo delle 500mila firme non è stato raggiunto. Ce ne sono 400mila per il quesito di maggiore successo, oltre un milione e mezzo in totale. Insomma, non ce l'abbiamo fatta, ma siamo fieri di averci provato: unici a porre concretamente il tema della necessità di una politica economica diversa, espansiva e orientata alla piena occupazione, in un Paese che resta fermo nel tunnel della crisi.
Ma la mia battaglia contro l'austerità, cominciata già con la "Lettera degli economisti" del 2010, non finisce qui.

La battaglia contro l'austerità continua. Il comunicato stampa del Comitato promotore del referendum "Stop austerità":
7 ottobre 2014

Sedici europeisti, seppure con orientamenti politici e culturali diversi tra di loro, uniti nella critica all’attuale politica economica prevalente nel continente, dopo le elezioni europee hanno deciso di promuovere un referendum, “Stop Austerità”, per modificare la legge 243/2012, recante disposizioni per l'attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell'articolo 81 della Costituzione. È così che è cominciata la nostra battaglia all’ottusa austerità, con due idee forti di fondo a guidarci.
La prima è che non eravamo convinti che la ripresa europea fosse iniziata né che gli effetti depressivi dell’austerità fossero finiti. Avevamo ragione, come ha dimostrato il crescente drammatico andamento della disoccupazione e l’avvio della deflazione in Italia e in Europa.
La seconda era la convinzione della necessità di trovare un modo per far pronunciare il popolo italiano, facendogli esprimere il suo giudizio su quelle politiche di austerità approvate in Parlamento la vigilia di Natale del 2012, in tutta fretta e di nascosto. Il rischio era quello che l’attuale crisi economica si legasse sempre più ad una crisi sociale ed entrambe ad una vera e propria crisi della democrazia.  Un rischio sempre più reale col passare del tempo.
Nel mese di luglio è partita la raccolta delle firme nel silenzio dei mezzi di comunicazione. Da settembre siamo riusciti ad attirare sul referendum l’attenzione crescente dell’opinione pubblica, anche a fronte del peggiorare persistente delle condizioni economiche in cui versano il Paese e l’Europa.
Il quesito su cui abbiamo raccolto più firme (quello che intende abrogare la corrispondenza dell’equilibrio di bilancio con l’obiettivo a medio termine concordato in sede europea) ne conta circa 400.000.  I quattro quesiti hanno raccolto, nel loro complesso, poco più di 1.500.000 firme. Il nostro ringraziamento va a tutti i cittadini che si sono impegnati con la loro firma ed il loro lavoro affinché l’iniziativa avesse successo.
E’ un risultato importante che ci porta a non desistere e a rilanciare, per sostenere una linea di politica economica alternativa per l’Europa e l’Italia. Una politica economica espansiva, necessaria per i paesi europei ma anche per il mondo intero. Molti sondaggi ci confortano: la propensione di disponibilità a votare i nostri referendum è fra le più alte, negli ultimi vent’anni, tra tutti i referendum abrogativi testati (ed è significativamente più alta della partecipazione alle ultime elezioni europee).
L’attuale volontà di non rispettare appieno i dettami del Fiscal Compact, specie in Francia ed in Italia, mentre conferma la giustezza ed il tempismo della nostra iniziativa, non deve illudere: rimane nei programmi pluriennali inviati alla Commissione europea da parte di questi Governi l’ottuso annuncio di rientri a tappe forzate, nei prossimi anni, a forza di maggiori tasse e minori investimenti pubblici. Non è possibile che la domanda interna di consumi e investimenti privati ritrovi slancio all’interno di annunci così ambigui e poco rassicuranti. La sola soluzione efficace rimane quella della sospensione senza se e senza ma della costruzione del Fiscal Compact.
Per tutti questi motivi non possiamo che rilanciare la battaglia contro l’austerità, anche con l’appoggio alla raccolta di firme a sostegno della legge di iniziativa popolare per riscrivere l'articolo 81 della Costituzione, ad iniziative analoghe di modifica che dovessero essere promosse in questa direzione in sede parlamentare nazionale ed europea per rivedere radicalmente il Fiscal compact. Il Comitato promotore proseguirà inoltre nei prossimi mesi la sua azione contro l’austerità con una serie di iniziative politiche su tutto il territorio, fra le quali eventualmente anche la raccolta di firme. Per continuare a chiedere uno STOP ALL’AUSTERITA’. La battaglia per un’Europa capace di innovare e crescere nella solidarietà reciproca non si ferma.

Le politiche della BCE e il cavallo di Keynes

Le politiche della BCE e il cavallo di Keynes
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 2 ottobre 2014

La BCE si riunisce a Napoli e tocca con mano i limiti delle misure che essa ha varato per rimettere in moto la crescita. Napoli è, infatti, una delle capitali di quelle periferie d’Europa - al pari di Atene o Lisbona - che perdono sempre più contatto dalle aree centrali del Continente. Da queste parti, l’azzeramento del costo del denaro e le operazioni straordinarie di rifinanziamento a favore delle banche commerciali non hanno minimante arrestato la decrescita.
C’è un problema di fondo nelle politiche della BCE e ha radici antiche. Dopo l’iperinflazione della Repubblica di Weimar, quando in Germania si stampavano banconote del valore di migliaia di miliardi, i tedeschi si dotarono di una Banca Centrale - la Bundesbank - indipendente dal potere politico, indisponibile ad assecondare i governi e finanziare la spesa pubblica, attenta esclusivamente alla stabilità dei prezzi. La storia italiana è diversa, anche se una “svolta tedesca” si ebbe nel 1981, quando la Banca d’Italia “divorziò” dal Tesoro e si stabilì il principio che essa non fosse più tenuta ad acquistare titoli del debito pubblico. Anche per questo, fu pacifico accettare che l’Unione Monetaria si dotasse di una BCE simile alla Bundesbank: una banca “conservatrice” - nel gergo degli economisti - che non finanzia la spesa pubblica e che ha nel controllo dei prezzi il suo obiettivo statutario.
Eppure lord Keynes aveva spiegato che una banca così concepita espone l’economia a un grave rischio. Finché il circuito economico non conosce intoppi, infatti, questo modello di banchiere centrale può funzionare. Ma quando scoppia la crisi sono guai. In questo caso, la banca centrale può anche impegnarsi ad abbassare il costo del credito e aprire i cordoni della borsa; tuttavia, come ricordava il buon Keynes, si può portare l’acqua al cavallo, ma non si può costringerlo a bere.  Fuor di metafora: perché gli imprenditori dovrebbero indebitarsi, sia pure a tassi bassissimi, se non c’è chi compra le loro merci? La politica monetaria, nel suo splendido isolamento, è largamente inefficace nel rimettere in moto l’economia e nel frenare la deflazione. Siccome poi è unica per tutti, e la sua azione è guidata da valori medi, può ancora meno per le periferie.
Gli americani hanno appreso la lezione keynesiana e si sono ben guardati dal dotarsi di una banca “conservatrice”. Dopo la crisi, Obama ha messo in campo il Recovery Act: oltre 800 miliardi di dollari finanziati per lo più con biglietti appena stampati dalla Banca Centrale e indirizzati verso politiche industriali mirate, la costruzione di grandi infrastrutture, il sostegno al reddito dei disoccupati. Insomma, la banca centrale che finanzia la spesa pubblica, politiche fiscali e monetarie coordinate, con la crisi che già è uno sbiadito ricordo. L’alternativa, è la recessione che viviamo in Europa.

Realfonzo sulla inefficacia della politica monetaria ripreso dal Washington Post

“If there’s a periphery of the euro zone’s periphery, that’s Naples”, said economist Riccardo Realfonzo, a former councilman of the Southern Italian city. “The gap between the debate at the Royal Palace in Capodimonte and everyday life can’t be filled with just monetary policy.”
The miracle would be if European governments finally agreed on expansive fiscal measures,” said economist Realfonzo. “Naples is the best proof of how even accommodative monetary policy is set to fail if not coupled with expansive fiscal policies.”

In difesa dell'Università e contro i tagli alla spesa pubblica

In difesa dell'Università e contro i tagli alla spesa pubblica
Realfonzo a "L'aria che tira"
La7, 24 settembre 2014


La favola dei superprotetti

La favola dei superprotetti
Flessibilità del lavoro, dualismo e occupazione in Italia
di Riccardo Realfonzo
www.economiaepolitica.it, 26 settembre 2014

In questo articolo chiarisco che i lavoratori italiani a tempo indeterminato godono di un livello di protezione inferiore a quello dei colleghi francesi e tedeschi. E questo anche perché le tutele dell’articolo 18 sono state già ampiamente depotenziate dalla riforma Fornero. Nell’articolo, inoltre, dimostro che il dualismo tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a termine è molto più grave in Germania e in altri paesi dell’Eurozona che in Italia. In aggiunta a ciò, osservo - riprendendo un mio precedente contributo - che il grado generale di flessibilità del mercato del lavoro italiano è già stato portato in linea con la media europea, senza che però ciò abbia in alcun modo contribuito ad incrementare l’occupazione.
L’analisi è condotta su basi scientifiche – utilizzando il database OCSE sul mercato del lavoro – al riparo da faziosità e pregiudizi.
La conclusione è che l'introduzione del contratto a tutele crescenti potrebbe essere utile solo a condizione di cancellare la moltitudine di contratti super-precari e garantire progressivamente le tutele previste oggi per i lavoratori a tempo indeterminato.
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Realfonzo sul Jobs Act - RaiNews

Realfonzo sulla flessibilità del mercato del lavoro, sul dualismo tra lavoratori più e meno protetti e sul contratto a tutele crescenti
RaiNews, 17 settembre 2014



A Roma, in piazza, contro l'austerità

A Roma, in piazza, contro l'austerità
Piazza del Pantheon, 10 settembre 2014

Decisamente eterogeneo lo schieramento che si è presentato in piazza, a Roma, per sostenere il referendum "stop austerità" e chiedere una svolta di politica economica in Italia e in Europa.


Da sinistra verso destra: Riccardo Realfonzo, Danilo Barbi, Mario Baldassarri, Gustavo Piga (in piedi), Arturo Scotto, Gad Lerner, Stefano Fassina, Gianni Cuperlo.

Appesi allo Sblocca Italia

Appesi allo Sblocca Italia
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 24 agosto 2014

Le cronache estive hanno confermato che l’Italia resta nel tunnel della crisi, facendo anche peggio del resto dell’eurozona, e il governo prova a correre ai ripari. Stando agli annunci di Renzi,  in settimana dovrebbe arrivare il decreto Sblocca Italia, cui sono affidate alcune misure per rilanciare gli investimenti pubblici e privati; poi il primo ottobre avremo la nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza 2014, cui il governo non intende accompagnare alcun intervento correttivo; e sempre a ottobre arriverà l’impianto della manovra per il 2015, che invece nelle intenzioni del governo dovrebbe prevedere una correzione dei conti pubblici di oltre 20 miliardi di euro, di cui ben 17 (oltre un punto di pil) mediante tagli alla spesa. Nello scenario che si va delineando, per il Mezzogiorno potrebbero esserci diverse novità: qualcuna positiva, qualcuna di effetto dubbio e altre molto preoccupanti.
Tra le notizie positive vi è la possibilità che lo Sblocca Italia possa rimettere in moto, attraverso commissariamenti e semplificazioni, alcune rilevanti opere pubbliche, annunciate e ferme da tempo, come l’atteso asse ferroviario Napoli-Bari. E dovrebbe finalmente prendere il via anche l’Agenzia per la Coesione Territoriale (cui però si è attribuita una natura troppo burocratico-amministrativa) che avrà il compito cruciale di migliorare la capacità di spesa dei fondi europei. Si tratta di un tema del massimo rilievo, se si pensa che dall’intera programmazione 2007-2013 dovrebbero essere teoricamente ancora disponibili per la spesa 13 miliardi per il 2014 e 17 per il 2015 (dati Svimez).
Molto più discutibile sarebbe invece l’effetto di un intervento, su cui il governo pare essere al lavoro, finalizzato a ridurre drasticamente il numero delle società partecipate dagli enti locali. Tutti sanno che queste società erogano talvolta servizi scadenti e possono essere il canale privilegiato per oscure reti clientelari. Ma, come l’esperienza insegna, è anche vero che il ricorso generalizzato alle privatizzazioni ha spesso effetti controproducenti, spogliando le comunità locali del controllo su servizi pubblici importanti (specie quando realizzate nel Mezzogiorno), generando aumenti delle tariffe, non garantendo i livelli occupazionali e salariali, con il risultato di acuire la crisi.
Tra le notizie certamente preoccupanti c’è il fatto che la manovra 2015 sembra delinearsi, sul piano della finanza pubblica, in continuità con il recente passato. Vi è insomma il rischio concreto che, nonostante la crisi e gli appelli per manovre espansive, il governo proceda con ulteriori politiche di austerità. Dal 2010 ad oggi, i governi italiani hanno effettuato manovre correttive (i cosiddetti “consolidamenti fiscali”) per poco più di 100 miliardi di euro, tra tagli della spesa pubblica e aumenti della pressione fiscale. E la crisi si è aggravata. Inoltre - questo è un dato che viene spesso trascurato - quei tagli della spesa pubblica (che deprimono l’economia anche più degli aumenti delle tasse) hanno colpito proporzionalmente più il Mezzogiorno che il Centro-Nord: hanno infatti pesato per il 5,5% sul pil meridionale e solo per il 2,8% su quello centro-settentrionale. Se il governo intendesse procedere ancora lungo questa direzione, non potranno esserci commissariamenti, semplificazioni ed eventuali privatizzazioni “azzeccate” che faranno uscire l’Italia e ancor più il Mezzogiorno dal tunnel.

"Non si cresce tagliando la spesa". Intervista a Riccardo Realfonzo

"Non si cresce tagliando la spesa". Intervista a Riccardo Realfonzo
di Roberto Ciccarelli
il manifesto, 7 agosto 2014

Siamo in recessione. Nel primo semestre del 2014 il pil si è ridotto dello 0,3% e a fine anno il governo rischia di far lievitare il rapporto deficit/pil oltre il 3%. 
Professore Riccardo Realfonzo, ordinario di economia all'Università di Benevento, dopo appena 200 giorni, siamo alla caporetto economica di Renzi?
Il punto è che l’impianto complessivo del Documento di Economia e Finanza del ministro Padoan si è posto in continuità con il passato. E oggi risulta ancora più evidente che io e altri avevamo ragione nel chiedere una discontinuità, una azione espansiva che rilanciasse l’intervento pubblico in chiave anti-crisi, andando oltre i vincoli europei sul deficit. E dire che lo stesso Renzi aveva attaccato i vincoli europei a inizio anno, definendoli “superati” e sottolineando la necessità di proporre una svolta keynesiana. Poi però Padoan ci ha presentato la solita vecchia ricetta: rispetto dei vincoli europei e tagli alla spesa pubblica come strumento per risanare i conti. E così ci troviamo sempre di fronte agli stessi risultati cui assistiamo dallo scoppio della crisi del 2007. Le politiche che puntano a generare avanzi primari, cioè eccessi del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, accentuano la recessione e la disoccupazione, finendo per peggiorare anche i conti dello Stato. È sempre più urgente cambiare le politiche economiche.
L'Ue nicchia sul rinvio del pareggio di bilancio al 2016, il governo nega la manovra correttiva in autunno. L'unica soluzione è una sassata da 30 miliardi in autunno. Chi sarà colpito?
Una manovra con nuovi tagli alla spesa sarebbe una iattura, approfondirebbe ancora la crisi. La spesa pubblica italiana, pur avendo al suo interno intollerabili privilegi e gravi sacche di spreco, è già inferiore ai valori medi europei. In particolare, la spesa sanitaria, per l'istruzione, per il sostegno ai redditi dei cittadini meno abbienti. Ulteriori tagli cancellerebbero diritti sociali e ridurrebbero ancora la domanda. E ciò metterebbe in ulteriore difficoltà le imprese, che già soffrono per l’assenza di politiche industriali. Non si torna a crescere continuando a tagliare.
Le «riforme» chieste dall'Europa servono a curare la recessione?
Le riforme utili riguardano la riorganizzazione della macchina statale e la conseguente riqualificazione della spesa pubblica. Se, invece, il riferimento fosse a ulteriori liberalizzazioni del mercato del lavoro, allora cadremmo in nuovi errori. Molti studi che esaminano gli effetti della riduzione del grado di protezione del lavoro sull’occupazione dimostrano che queste liberalizzazioni non riducono la disoccupazione e non aumentano la competitività delle imprese.
La Bce chiede all'Italia «aggiustamenti strutturali»…
Piuttosto che dare indicazioni ai governi, le autorità monetarie dovrebbero disporsi a operare come la FED statunitense: soprattutto in recessione, sarebbe necessario che finanziassero direttamente la spesa pubblica. Purtroppo, in Europa prevale un modello di banca centrale di tipo tedesco e la BCE si guarda bene dal sostenere le politiche anticicliche dei governi.
Queste politiche accomodanti non creano bolle finanziarie che esplodono con effetti devastanti?
È un rischio che può essere evitato con politiche monetarie coordinate con le politiche fiscali. Ma restiamo ai fatti: oggi gli Usa hanno un Pil che è circa 9 punti più alto rispetto allo scoppio della crisi del 2007, mentre nell'Eurozona siamo ancora due punti sotto.
Si può uscire dal paradigma dell'«austerità espansiva» per cui servono ancora misure fiscali restrittive per ottenere la crescita? 
Certo, come stanno facendo gli USA e il Giappone. La difficoltà consiste nel fatto che i dogmi dell’austerità sono radicati nelle tecnocrazie europee e in particolare tra i banchieri centrali. E i popoli di Europa sino a oggi hanno finito col subire la volontà di soggetti e istituzioni in deficit di legittimazione democratica. 

Il Mezzogiorno nella crisi, viene da dire "fujtevenne"

Viene da dire "fujtevenne"
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 31 luglio 2014

Scappatevene dal Mezzogiorno, “fujtevenne”, avrebbe ripetuto Eduardo De Filippo. E nessuno potrebbe restare immune da questa tentazione leggendo il Rapporto Svimez. Il Mezzogiorno è ormai un deserto sociale ed economico, in cui lo Stato investe sempre meno e taglia sempre più, le imprese falliscono, le famiglie cadono in miseria, le donne risultano estranee al mercato del lavoro, i giovani sono disoccupati e nel migliore dei casi precari, la popolazione sempre più anziana. Una realtà dalla quale, non c’è da meravigliarsi, negli ultimi dieci anni oltre un milione e mezzo di persone sono scappate via.
I numeri sono da brivido e non ammettono contraddittorio. Basti pensare che ormai il reddito medio di un meridionale vale poco più del 55 per cento di quello di un abitante del resto d’Italia: come accadeva nella metà degli anni ’50, come se l’intervento per il Mezzogiorno fosse stato del tutto assente o inutile. Oppure, basti pensare che nel solo 2013 si sono persi 280 mila posti di lavoro al Sud e le famiglie in condizione di povertà assoluta hanno così largamente superato il milione.
Una condizione a dir poco drammatica che, come correttamente rileva la Svimez, trova una parte della spiegazione nelle politiche economiche all’insegna dell’austerità con le quali i governi nazionali hanno reagito alla crisi scoppiata sul finire del 2007. In altri termini, la condizione del Mezzogiorno è risultata ampiamente aggravata dal fatto che, anziché sostenere l’economia, complici i famigerati vincoli europei, i governi hanno sottratto risorse, tagliando la spesa pubblica e aumentando il prelievo fiscale. Al Sud ancora più che al Nord. Si pensi che nel quadro di queste politiche i soli cittadini della Campania, ad esempio, hanno ceduto tra il 2010 e il 2014 poco meno di 9 miliardi di euro, tra meno spesa pubblica e più tasse. Con un effetto particolarmente doloroso per ciò che riguarda il taglio della spesa pubblica per le infrastrutture a sostegno dei cittadini e delle imprese, che addirittura misura oggi solo la quinta parte dei valori registrati mediamente negli anni ’70.
Le politiche economiche nazionali hanno quindi finito per alimentare il crollo della spesa delle famiglie per beni di consumo e ciò ha ulteriormente accentuato la spirale recessiva. Se mettiamo nel conto anche le difficoltà nell’accesso al credito, si comprende come mai le imprese abbiano bloccato totalmente gli investimenti produttivi, che infatti si sono più che dimezzati rispetto al periodo pre-crisi.
L’analisi chiarisce due cose su tutte che non vanno dimenticate. La prima è che non potrà esserci una ripresa stabile e duratura dell’economia italiana nel suo insieme senza un rilancio del Mezzogiorno; e questo non potrà avvenire senza un disegno lucido di politica industriale, adeguatamente finanziato, a sostegno della competitività delle imprese del Sud. La seconda è che la crisi economica si alimenta moltissimo nelle colpe del ceto politico meridionale: basti pensare all’imperdonabile ritardo con cui vengono spesi i fondi europei e al modo in cui essi vengono dispersi in mille rivoli, spesso al servizio delle clientele e non del tessuto produttivo. Insomma, senza maggiori risorse e una classe dirigente capace di spenderle per la crescita economica, la desertificazione meridionale risulterà un processo inarrestabile.

Un referendum contro l'austerità. Intervista a Riccardo Realfonzo

Un referendum contro l'austerità. Intervista a Riccardo Realfonzo
di Alessio Viscardi
Fanpage, 29 luglio 2014

Quattro "sì" per dire "no" all'austerità. Il proposito del movimento raccoltosi attorno all'economista ed ex-assessore al Bilancio del Comune di Napoli, Riccardo Realfonzo, è quello di chiamare alle urne gli italiani per chiedere l'abolizione del pareggio di bilancio costituzionale e la fine dei vincoli dettati dalle direttive europee del fiscal compact.


Di austerità si muore

Di austerità si muore
di Riccardo Realfonzo
Rassegna Sindacale, 17-23 luglio 2014

Il settimanale della Cgil dedica il numero al referendum stop austerità ed apre con l'editoriale di Riccardo Realfonzo.

Gli economisti sempre più frequentemente denunciano gli effetti recessivi delle politiche di austerità, cioè di quelle manovre di politica economica finalizzate a determinare un volume delle entrate fiscali complessivamente maggiore della spesa pubblica. La “teoria dell’austerità espansiva”, che negli anni passati era stata sostenuta da molti, per quanto immediatamente respinta da noi economisti keynesiani, è ormai sempre più accantonata. Secondo quella teoria, i consolidamenti fiscali (appunto gli eccessi del prelievo fiscale sulla spesa pubblica) determinavano nei consumatori e nelle imprese aspettative positive di riduzione dei tassi di interessi e della pressione fiscale per il futuro; e ciò avrebbe alimentato la domanda attuale di merci e servizi, favorendo la crescita economica e l’aumento dell’occupazione. Quella teoria naturalmente ben si conciliava con il sistema di vincoli europei, e in particolare con il Patto di Stabilità, secondo il quale il deficit pubblico deve necessariamente rimanere contenuto entro il 3% del Pil; ed anche con il cosiddetto “fiscal compact”, stando al quale il bilancio pubblico deve essere mantenuto strutturalmente in equilibrio (cioè in pareggio tra entrate e uscite, al netto delle variazioni dovute al ciclo economico) e il debito pubblico deve essere abbattuto in venti anni al valore considerato “ottimale”, pari al 60% del pil.
Oggi, dopo essere stata sommersa dalle critiche degli economisti di formazione keynesiana, da sempre sostenitori di una regolazione pubblica del ciclo economico, anche gli istituti di ricerca più vicini all’“ortodossia economica” chiariscono che l’“austerità espansiva” non funziona. Come ad esempio il FMI, che è giunto, in uno studio del 2012, a sostenere che i tagli della spesa pubblica riducono drammaticamente il Pil. Con specifico riferimento al caso italiano, gli studiosi del FMI hanno calcolato che un taglio della spesa di 10 miliardi di euro abbatte il Pil in modo più che proporzionale, in media di ben 18 miliardi di euro.
Ma, al di là del dibattito tra gli economisti, è la realtà dell’economia che si preoccupa di smentire categoricamente l’idea che l’austerità possa alimentare la crescita. A riguardo è sufficiente porre a confronto quanto accaduto in questi anni nell’eurozona e negli USA. Come è ben noto, queste due economie hanno reagito in modo diverso alla crisi scoppiata nella seconda metà del 2007. Nell’eurozona i governi si sono mossi nella cornice restrittiva delle regole europee, arginando fortemente la tendenza automatica alla crescita della spesa pubblica che sempre si determina in condizioni di crisi (perché, soprattutto, tende ad aumentare complessivamente la spesa per gli ammortizzatori sociali). Negli USA invece, si è attuata una politica aggressiva. Il presidente Obama ha varato il famoso Recovery Act, impiegando – grazie al pieno sostegno della Federal Reserve Bank, che non ha esitato a finanziare la spesa pubblica – oltre 800 miliardi di dollari per politiche industriali, interventi infrastrutturali, sostegno dei redditi. I risultati delle politiche economiche alternative praticate nelle due realtà non potevano essere più diversi. L’eurozona di oggi realizza un Pil che è ancora inferiore rispetto al dato del 2007 di circa un punto e mezzo, con la disoccupazione che è aumentata del 65% (da 11,6 milioni del 2007 a oltre 19 milioni a fine 2013). Negli USA, invece, il Pil supera di 8 punti percentuali il dato di fine 2007.
La verità quindi è che le politiche di austerità hanno tagliato le gambe alla crescita, impedendoci di uscire dalla crisi, ed hanno anche contributo ad incrementare la divergenza tra i paesi dell’eurozona.
Quel che è peggio è che i trattati europei ci impegnerebbero in questa direzione anche per il futuro. Allo stato delle cose, infatti, il governo ha costruito una manovra economica (con il Documento di Economia e Finanza – DEF – varato nell’aprile scorso), che punta a tenere il deficit pubblico sotto il 3% del Pil, a raggiungere l’equilibrio strutturale del bilancio nel 2016 e ad abbattere progressivamente il debito pubblico portandolo al 60% del Pil in venti anni. Quest’ultimo risultato lo si ottiene accumulando avanzi primari – cioè eccessi delle entrate fiscali sulla spesa pubblica di scopo (interessi esclusi) – sempre più ampi: dal 2,6% previsto per il 2014 al 5% del 2018, e così continuando per venti anni. Si tratta di un quadro di politica economica disastroso. Come ho infatti mostrato in uno studio pubblicato da www.economiaepolitica.it, ci sono molte ragioni per ritenere che una manovra di questo tipo non sia economicamente e socialmente sostenibile. Qui basti sottolineare che la differenza tra prelievo fiscale e spesa pubblica di scopo dovrebbe essere portata nel 2018 alla cifra astronomica di 90 miliardi di euro e che – a meno di non credere nel dogma dell’austerità espansiva – ben difficilmente una manovra di questo tipo potrà essere compatibile con la crescita reale piuttosto sostenuta prevista nel DEF per quell’anno, pari all’1,9%. Viceversa, adottando stime dei moltiplicatori come quelle contenute nello studio prima citato del FMI, si arriverebbe alla conclusione che la manovra di abbattimento del debito pubblico prevista dal fiscal compact generebbe effetti sociali ed economici insostenibili.
A queste osservazioni sulla inefficacia delle politiche di austerità, e sui rischi ad esse connesse, si aggiungono le perplessità sull’effetto espansivo delle tanto attese riforme, che dovrebbero affiancare le politiche fiscali, con riferimento particolare al mercato del lavoro. Gli studi più recenti (e qui nuovamente rinvio a un contributo di Tortorella Esposito e mio apparso su www.economiaepolitica.it) permettono di sottolineare che dal 1990 ad oggi le politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro non hanno sortito effetti occupazionali positivi. A questa conclusione si giunge esaminando l’andamento dell’indice di protezione del lavoro (EPL) elaborato dall’OCSE, per i diversi paesi dell’eurozona, ed  incrociando con metodologie consuete i dati con i tassi di disoccupazione. La conclusione è che la ricerca di una crescente flessibilità del mercato del lavoro non ha generato gli esiti sperati. In sostanza, non vi è alcuna correlazione apprezzabile tra flessibilità del lavoro e occupazione. E questa è, si badi bene, una conclusione che risulta confermata anche se ci si concentra sull’indicatore di protezione del lavoro a termine (EPT).
Ne scaturisce un quadro molto preoccupante, i cui rischi economici e sociali sono evidenti. E ciò resta confermato anche se si considera l’eventualità che – sotto la pressione del governo italiano e di altri governi europei – le autorità dell’Unione si accordino per uno scambio tra riforme e una sorta di “austerità flessibile”, cioè la concessione di qualche margine temporale e di spesa in più impiegando al massimo i risicati gradi di libertà presenti nei trattati. Una “austerità flessibile”, che non altererebbe le linee di fondo e gli obiettivi austeri previsti nei trattati, non sarebbe certo sufficiente a rilanciare l’economia italiana e quella europea verso un sentiero di crescita sostenuta ed equilibrata.
Ed è per tutte queste ragioni che occorre sostenere il referendum “stop austerità”. Naturalmente, il referendum si muove entro i limiti costituzionali e quindi non può abrogare trattati internazionali né può cancellare il principio di pareggio del bilancio introdotto in Costituzione. Però può annullare quel sovrappiù di rigore che assurdamente abbiamo inserito nella legge 243 del 2012, attuativa del principio costituzionale. E soprattutto, attraverso la discesa in campo del popolo sovrano, può porre uno stop alle tecnocrazie europee e chiedere che finalmente si prenda atto del fallimento delle politiche di austerità e della necessità di cambiare strada in Europa. Sarebbe un risultato politico di enorme rilievo. Da conseguire prima che le emergenze sociali mettano seriamente a rischio la tenuta dell’eurozona e con essa lo straordinario progetto di unità tra i popoli d’Europa. 

L'austerity nuoce gravemente alla salute


L'austerity nuoce gravemente alla salute. Una conversazione tra amici alla radio, per prendere le opportune precauzioni.

Conversazione con Federico Libertino (segretario generale Cgil Napoli) e Riccardo Realfonzo (comitato  promotore del referendum stop austerità). Moderano Norberto Gallo e Mario Colella.

Come pecore in mezzo ai lupi, 18 luglio 2014

Napoli contro l'austerità. Realfonzo al Tg3 Campania

Napoli contro l'austerità
Napoli sceglie di crescere. Parte la raccolta di firme per il referendum stop austerità. Ai microfoni Federico Libertino (segretario Cgil Napoli) e Riccardo Realfonzo (comitato promotore nazionale).
Tg3 Campania, 13 luglio 2014


Napoli, la tarantella del bilancio

La tarantella del bilancio
I conti di Napoli che non tornano nel rendiconto 2013
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 19 luglio 2014

La situazione dei conti del Comune di Napoli è grave, ma non è seria. Da anni ormai sappiamo tutti, inclusi i muri di Palazzo San Giacomo e i bimbi che giocano in strada, che i conti non tengono, ma non c’è chi si decida ad affrontare la cosa con responsabilità.
Sul finire del suo mandato, quattro anni or sono, la sindaca Iervolino ricordava che lei aveva formalmente chiusa la procedura di dissesto del Comune, scattata nel lontano 1993, e che ormai i conti erano in ordine. Siccome qualche scettico pure c’era, lei ventilò la possibilità di sottoporre i conti a una società specializzata, che ne asseverasse la qualità. Curiosamente, quell’asseverazione non arrivò. Arrivammo invece noi, col sindaco arancione, e in cassa non trovammo praticamente il becco di un quattrino. Al punto che, appena un mese dopo il nostro insediamento, gli stipendi dei comunali furono pagati con alcuni giorni di ritardo: il tempo che ci volle per raggranellare i soldi. Il Comune era sull’orlo del fallimento. Ciononostante, l’attuale sindaco credette più al suo predecessore che a me, né consulto i muri del Palazzo né si rivolse ai bimbi in strada, e le grida d’allarme si persero nel vento. Quando poi io ebbi l’ardire, col sostegno del rigoroso Narducci, di imporre una delibera che obbligava a una verifica radicale dei conti, si decise che era meglio mettere in squadra qualcuno più ottimista. E chi più adatto di colui che negli ultimi due anni aveva certificato che i conti erano ok?
Intanto, però la quella delibera  faceva il suo corso e portò alla quantificazione di un buco di bilancio da 850 milioni. Ovviamente, nessuno si stupì. Tranne, forse, il sindaco.
Venne allora il tempo degli appelli disperati, dei consigli comunali a Montecitorio, e le richieste di aiuto al governo furono riprese dal cassetto. Il pianto partenopeo colpì persino le corde dell’austero presidente Monti, che varò prima il decreto salva-Napoli e poi quello per pagare i debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese. E ciò aprì le porte a un flusso di denaro a favore del Comune di Napoli di quasi un miliardo di euro, una cifra che i sindaci Bassolino e Iervolino non avevano mai nemmeno sognato. Beninteso, si tratta di prestiti che i cittadini di Napoli dovranno rimborsare negli anni a venire, in parte anche con gli interessi. Ma questo è solo un dettaglio.
L’ottimismo ritrovato però fu galeotto, e nel piano di riequilibrio che avrebbe dovuto dimostrare che i conti si sarebbero risanati in dieci anni, spuntarono un po’ troppe corbellerie, come l’idea che il Comune venderà, per mezzo di una società che fa tutt’altro, ben 750 milioni di immobili, non si sa come e non si sa quando. Ovvio che la Corte dei Conti della Campania, che ben conosce la realtà del Comune, bocciò quel piano, senza se e senza ma. Ma si sa, l’Italia non è la Germania, e due più due non fa sempre quattro. E così, le sezioni riunite della Corte, in aperto dissenso con la magistratura regionale, hanno ritenuto di dare il via libera al piano di riequilibrio e ai quattrini.
Ma non è finita qui. Il bilancio del 2013, quello grazie al quale il Comune ha potuto illustrare alla Corte i mirabolanti progressi realizzati nel risanare i conti, è stato bloccato dal Tribunale amministrativo regionale. Paradossalmente, per un problema apparentemente formale - i consiglieri comunali hanno avuto solo 4 giorni per studiare il bilancio, contro i 20 previsti dalla legge - mentre ben più sostanziose sono le magagne di quel bilancio pure denunciate in consiglio comunale (si pensi che il collegio dei revisori del Comune, che pure ha dato il placet al consuntivo, ha ammesso candidamente di non avere avuto uno straccio di carta dalla giunta su questioni di grande rilievo, come i bilanci delle società partecipate). Grande confusione e grandi imbarazzi. Il bilancio 2013 è come se non ci fosse, ma intanto è stato indispensabile per avere il via libera al piano di riequilibrio. Al tempo stesso, senza quel bilancio non si potrà approvare la manovra del Comune per il 2014 e si rischia addirittura il commissariamento. Almeno fino al prossimo rattoppo.
Beninteso, la questione dei conti degli enti locali è grave lungo tutta la penisola, anche a causa di una crisi che le politiche di austerity non fanno che accentuare. Ma quella dei conti del Comune di Napoli, oltre ad essere grave, è anche una questione poco seria. Una tarantella partenopea, verrebbe da dire: tanti si agitano, come morsi dalla tarantola, non ultimi i leader di partito e i politicanti vari, senza produrre alcunché di positivo. Una tarantella inutile e, soprattutto, estremamente costosa per il pubblico pagante, fatto di cittadini e imprese.

Una nuova agenda per la crescita. Il referendum stop austerità

Eccesso di austerità, un errore da correggere con il referendum
Una nuova agenda per la crescita.
di Riccardo Realfonzo
Corriere della Sera, 16 luglio 2014

È un momento difficile per i paladini dell'austerità. Negli USA e in Giappone si è reagito alla crisi con aumenti della spesa pubblica assecondati dalla banca centrale, con il risultato che gli americani realizzano oggi un Pil reale superiore di ben otto punti rispetto al 2007 e il gigante nipponico si è destato dal lungo torpore. Dal canto suo, la scienza economica conferma sempre più compatta la necessità di affrontare le crisi con politiche fiscali e monetarie espansive. E molti studiosi che in passato avevano sostenuto la dottrina dell'”austerità espansiva”, secondo cui i tagli di bilancio avrebbero favorito la crescita, sono giunti a ricredersi. Ben noto è il caso del capo economista del FMI, Olivier Blanchard, che nel World Economic Outlook di due anni fa candidamente ammise che i vistosi errori previsionali del FMI scaturivano da una sottostima degli effetti recessivi dell’austerità. Rifacendo i conti, occorreva precisare che i tagli della spesa pubblica riducono il Pil, invece di accrescerlo, e anche in modo più che proporzionale.
Queste evidenze e questi ripensamenti non hanno fatto breccia in Europa negli ultimi anni e l’austerity ha imperato. Eppure, i risultati sono ben diversi da quelli americani o giapponesi: il Pil dell’eurozona resta inferiore ai livelli pre-crisi, la disoccupazione è incrementata del 65 per cento (da 11,6 milioni del 2007 a oltre 19 milioni a fine 2013), gli obiettivi di risanamento della finanza pubblica non sono stati raggiunti. Con questi dati era inevitabile che anche da noi si prendesse atto  dell’impossibilità di una crescita sostenuta e diffusa in presenza di vincoli asfissianti sulle politiche economiche. Proprio su queste colonne, nella primavera scorsa, due influenti studiosi come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, a lungo sostenitori delle austere regole europee, hanno condiviso l’idea che fosse necessario lasciare lievitare il deficit al di sopra del limite del 3 per cento previsto dal Patto di Stabilità, per fornire una spinta adeguata all’economia italiana. “Una politica di piccoli passi per non sforare il 3 per cento sarebbe miope perché così la crescita non riparte”, scrivevano i due, teorizzando la necessità di andare oltre i trattati europei.
Oggi il presidente Renzi – che ha varato una manovra interna ai vincoli europei e che è alle prese con una economia che in questo primo semestre non ha voluto saperne di tornare a crescere – chiede ai partners europei una “austerità flessibile”. Chiede cioè qualche margine temporale e finanziario in più, sfruttando quel po’ di flessibilità già previsto nei trattati, per provare a uscire dal tunnel. Il forte timore, tuttavia, è che questa opportunità non venga concessa e, soprattutto, che questa “politica di piccoli passi” comunque non sia sufficiente, considerate le condizioni in cui versa la nostra economia. Anche perché – diciamolo con franchezza – la capacità espansiva delle attese riforme è tutta da verificare. Ecco allora che assume un preciso senso politico il referendum “stop austerità”, che sta raccogliendo consensi trasversali tra le forze politiche e sociali. Nel rispetto dei vincoli costituzionali, l'iniziativa mira ad abrogare il deleterio surplus di austerity rispetto ai trattati, che in un eccesso di zelo rigorista ci siamo inflitti in Italia; e a lanciare alle istituzioni europee un segnale, che le induca a prendere atto degli insuccessi delle politiche restrittive di questi anni. Il referendum “stop austerità” darebbe man forte a quelle forze politiche e a quei governi che intendessero realmente impegnarsi per cambiare l'agenda di politica economica dell'Unione, per un'Europa all'insegna della crescita e della occupazione.

Come cambierebbe la nostra vita senza il fiscal compact

Bonus fiscale da 200 euro (non 80). Ecco come
Così cambierebbe la nostra vita senza il fiscal compact
di Manuele Bonaccorsi
Left, 12 luglio 2014

Un referendum mette in discussione il fiscal compact. Per liberare 77 miliardi bloccati dall'Europa dell'austerity. E investirli nel nostro futuro.

L'Unione europea ha deciso di porre termine alla crisi che dura da sei anni: «Con 19 milioni di disoccupati e 124 milioni di poveri non c'era altra possibilità che cambiare verso», ha dichiarato il neopresidente della Commissione, il lussemburghese Claude Junker. «Abbiamo sbagliato: l'austerity è stata un clamoroso errore», ha ammesso la Cancelliera Angela Merkel. Ieri, nella riunione dei capi di Stato e di governo dell'Unione, è stata proprio l'inflessibile Cancelliera tedesca a prendersi il compito dell'annuncio shock. Il fiscal compact, il trattato che obbligava gli Stati membri dell'Ue al pareggio di bilancio e a ridurre il debito pubblico, viene unilateralmente cancellato da tutti i 25 Paesi che l'avevano sottoscritto. La sostenibilità delle finanze pubbliche, finora custodita dai parametri di Maastricht, sarà garantita da una sola nuova regola: il debito pubblico non deve aumentare. Ai Paesi della sponda sud dell'Europa basterà fotografare lo status quo, con l'impegno solenne di non far crescere ancora il rapporto tra debito e Pii. Sarà la Bce a garantire che la decisione non generi ondate speculative sui mercati internazionali. Per l'Italia il cambio di direzione dell'Unione significa molto: il nostro Paese potrà investire, quest'anno, ben 34 miliardi di euro prima destinati alla riduzione del debito pubblico. La quota di risorse da iniettare nell'economia salirà ogni anno, fino ai 77 miliardi del 2018. Il governo Renzi sta preparando un piano triennale per l'occupazione, diviso in tre parti: un terzo sarà investito nella riduzione delle tasse, (il bonus di 80 euro diventerà subito di 120 euro e salirà a 200 nel 2016); un terzo sarà impegnato in investimenti per infrastrutture, scuola e ricerca, cura del territorio, mobilità sostenibile; un terzo sarà impegnato sul welfare (in particolare è previsto un aumento del 40 per cento delle pensioni minime e il reddito minimo garantito per giovani e precari di lunga durata). Si stima che nuovi consumi e investimenti produrranno da qui alla fine del 2018 una crescita cumulata del Pii di 8 punti maggiore rispetto a quella stimata e una riduzione della disoccupazione da tre a due milioni di cittadini.
Bene, buongiorno, ben svegliati. Era solo un sogno. Come uno di quegli spot - "dell'Europa si deve parlare" - che ci raccontano senza sosta quale densità di valori e speranze contenesse l'ambizioso e visionario progetto di unire Paesi tanto diversi sotto un'unica bandiera, con una moneta e istituzioni comuni. La realtà, purtroppo, è molto diversa. Ma le cifre sono quasi tutte vere. Provengono da uno studio di Riccardo Realfonzo, ordinario di Economia all'università del Sannio, uno tra i promotori di un referendum contro il fiscal compact su cui è da poco iniziata la raccolta di firme (ne parliamo approfonditamente nelle pagine seguenti). L'economista, uno dei più attivi tra gli studiosi che da anni si battono contro l'austerità europea, ha realizzato sul sito www.economiaepolitica.it una stima delle risorse che si libererebbero se l'Italia potesse abbandonare la fatica di Sisifo della riduzione del debito pubblico imposta dai trattati europei: 26 miliardi nel 2015, 52 miliardi nel 2016, per poi salire fino a 64 miliardi nel 2017 e 77 nel 2018. Risorse con cui l'Italia potrebbe cambiare completamente il suo volto: ridurre la disoccupazione, dare finalmente slancio alla riconversione verde dell'economia, colpire drasticamente povertà ed esclusione sociale. Fare, cioè, tutto ciò che, negli ultimi otto anni, è stato impossibile, per ognuno dei governi che si sono avvicendati. Risorse che l'Italia potrebbe spendere senza far crescere il suo debito, salito dal 105 al 134 per cento del Pii proprio durante gli anni dell'austerity. La conseguenza di investimenti così ampi, secondo Realfonzo, potrebbe paradossalmente essere una riduzione del debito stesso. Poiché ogni euro impiegato in minori tasse o in maggiore spesa pubblica produce una crescita del Pii superiore a un euro, come ha ammesso lo stesso capo economista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard. L'unico ad avere fatto davvero mea culpa per i propri errori di calcolo, affermando con colpevole ritardo ciò che a chiunque cittadino ignorante di economia parrebbe un'ovvietà: l'austerità rende il Paese più povero, non più ricco. In sintesi: provare a ridurre il debito fa ridurre il Pil, e quindi fa crescere l'incidenza del debito pubblico (oltre a provocare disoccupazione e povertà). Al contrario, spendere risorse a debito fa crescere il Pii e dunque riduce l'incidenza del debito stesso.
Quello di Realfonzo non è un esercizio di stile per economisti, né una controproposta rivoluzionaria e irrealizzabile. Perché l'analisi dello studioso parte da dati reali. In particolare da un presupposto molto preoccupante. Per garantire il rispetto dei parametri del fiscal compact, cioè la riduzione del debito pubblico al ritmo di circa 3 punti di Pil ogni anno, il governo sarà costretto a collezionare avanzi primari (al netto degli interessi sul debito) sempre crescenti. Cioè a incamerare dalle tasse più di quanto viene poi speso. Secondo il Def varato ad aprile dal governo Renzi, già nel 2013 gli italiani hanno pagato 34 miliardi in più di quanto lo Stato ha speso. Una quota destinata a salire ancora, fino al 5 per cento del Pil, oltre 90 miliardi, nel 2018. E questo, solo se le previsioni del governo sulla crescita economica dell'esecutivo si riveleranno vere. Ma tutto lascia credere, purtroppo, che anche l'espertissimo ministro Padoan abbia peccato, come tutti i suoi predecessori, di ottimismo immaginando una crescita reale del Pil superiore a un punto e mezzo a partire dal 2015. Anche la crescita dello 0,8 per cento del Pil, stimata ad aprile per il 2014, è già stata rivista a ribasso nelle stime della commissione Uè (+0,6). E i risultati veri, incontrovertibili, certificati all'Istat fanno temere che il risultato finale sarà ancor più basso: il -0,1 per cento del primo trimestre dell'anno ha sentito subito i furori di riscossa del governo dei quarantenni. Molti economisti ammettono a denti stretti che l'anno potrebbe chiudersi, nella migliore delle ipotesi, con una crescita dimezzata rispetto alle stime dell'esecutivo.
Ad aggravare la situazione c'è l'andamento dell'inflazione. Com'è ovvio, chi ha un debito - come lo ha, e molto grande, l'Italia - ha tutto da guadagnare da un aumento dei prezzi. L'inflazione, infatti, riduce i tassi di interesse reali, e rende più facile pagare i creditori. Purtroppo in Europa i prezzi sono fermi, si rischia quella che gli economisti chiamano deflazione. L'Istat ha certificato questo scenario: a giugno ha calcolato un aumento dei prezzi dello 0,3 per cento sull'anno precedente e dello 0,1 su base mensile. La Bce di Marco Draghi ha annunciato misure per far salire l'inflazione, ma il sabotaggio dei falchi della Bundesbank frena anche il più importante rappresentante italiano nelle istituzioni europee.
Il risultato? Se le cose continueranno così, il governo Renzi sarà costretto ad ammettere il fallimento dei suoi obiettivi di finanza pubblica e, volendo rispettare i trattati, dovrà annunciare una nuova manovra. Inutile sperare che le cosiddette riforme strutturali possano far cambiare in tempi brevi segno al Pil. La spending review, le privatizzazioni, la riforma della pubblica amministrazione e la liberalizzazione dei contratti a termine difficilmente avranno effetti positivi sulla crescita. Lo studio di Realfonzo, che riprende dati dell'Ocse, dimostra che non esiste alcuna relazione tra il grado di flessibilità del mercato del lavoro e l'andamento della disoccupazione. Ed è impossibile, spiega l'economista, immaginare una crescita reale del Pii che arrivi al 2 per cento nel quadro della spending review (50 miliardi di tagli alla spesa pubblica in 3 anni). D'altronde, la spesa dello Stato si è ridotta come quota del Pil del 6 per cento dal 1990 a oggi.
La via, insomma, è stretta e piena di insidie. La bassa crescita potrebbe costringere il governo, già a ottobre, a una mini manovra per restare sotto il parametro del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil. Poi, nel 2015, si aprirà la partita del fiscal compact: per ridurre il debito senza ulteriori manovre la somma tra crescita economica e inflazione dovrebbe essere superiore al 3 per cento, un obiettivo che ora sembra irraggiungibile. Per rispettare i trattati servirebbe un'ulteriore manovra da oltre 10 miliardi. «Con questi livelli di crescita e inflazione non c'è alcuna possibilità di rispettare il fiscal compact», afferma Stefano Fantacone, del Centro Europa ricerche. «Ma la vera soluzione, cioè una modifica dei trattati, per ora non è politicamente raggiungibile. Ï governo oggi non può far altro che sfruttare tutti i margini di flessibilità possibili».
Insomma, se questo scenario, come tutto lascia credere, dovesse realizzarsi, il giovane rottamatore sarebbe costretto suo malgrado a diventare la copia sbiadita del tecnocrate Mario Monti. Ancora tagli e nuove tasse per inseguire la chimera dell'Europa.
Un finale che il premier vuole evitare a tutti i costi. E per farlo l'unica speranza è vincere la partita diplomatica che ha aperto a Bruxelles. Le condizioni ambientali sono tutte a suo favore. Renzi è diventato presidente di turno dell 'Unione sull'onda di una vittoria elettorale senza precedenti. E vuole far pesare ognuno dei suoi 11 milioni di voti, in una congiuntura in cui tutti i partiti di governo hanno raccolto dalle urne solo dolori. Il primo tempo di questa partita, quella giocata a Bruxelles, non ha riservato sorprese: come sempre ha vinto la Germania. Renzi s'è dovuto accontentare di un documento che afferma, a parole, l'introduzione di "elementi di flessibilità" nella gestione dei conti pubblici, specificando però: «Insita nelle norme esistenti del Patto di stabilità e di crescita». Renzi, infatti, aveva due obiettivi: scorporare dal calcolo del deficit la quota di cofinanziamento nazionale ai fondi strutturali europei (circa 5 miliardi) e una parte delle spese in investimenti, a partire dalle infrastrutture. Ma i trattati non prevedono nulla di tutto ciò. Al massimo, ricorda un documento tecnico del Partito socialista europeo, l'Italia potrebbe chiedere di rimandare di un anno il cosiddetto obiettivo di medio termine, cioè il pareggio di bilancio strutturale, ma solo in caso di un «large negative output gap», di un ampio divario negativo. Non a caso, ammette il Pse, parlare di flessibilità "all'interno" dei trattati, non basterà a far cambiare segno all'Europa - Bisognerebbe ampliare la «flessibilità» anche ai casi di «bassa crescita» e «lasciare la porta aperta a una revisione delle regole fiscali», prevedendo l'introduzione anche degli eurobond, cioè titoli di debito garantiti dall'Unione. La Merkel, invece, esce vincitrice dal vertice. In un documento quasi ignorato dai giornali italiani, il Consiglio europeo, «alla luce dell'emergere di uno scarto rispetto ai requisiti del patto di stabilità e crescita», chiede di anticipare di un anno il pareggio di bilancio, che il Def di aprile aveva rimandato dal 2014 al 2015. La linea del dialogo con Angela Merkel, insomma, finora non ha pagato. Le sfuriate riservate all'Italia dai falchi della Bundesbank, a cui la Cancelliera ha risposto dando fiducia al governo italiano, sembrano un vecchio film americano: i tedeschi giocano al poliziotto cattivo e a quello buono. Il nostro titolare dell'economia Padoan è giunto fino al punto di firmare, insieme al potente ministro delle finanze tedesco Scheuble, un articolo sul Watt Street Journal, per ripetere lo stesso ritornello: i trattati non si cambiano. La strategia, per ora, è cercare soluzioni all'enigma dei conti nei meandri delle regole europee. Sperando anche m una modifica dei criteri di calcolo del debito da parte della Commissione. Ma se Renzi e Padoan dovessero trovare la strada sbarrata, non resterebbe altro che tentare il tutto per tutto, chiedendo a voce alta una modifica dei trattati. E in questo caso, l'ipotesi di un referendum sul recepimento nelle leggi italiane del fiscal compact, potrebbe spiazzare la massiccia diplomazia di Bruxelles e Berlino.

Stop austerità, perché il referendum? Parla Riccardo Realfonzo

Stop austerità, perché il referendum? Parla Riccardo Realfonzo
registrazione dell'intervista di Roberta Lisi
Radio Articolo 1, la radio della Cgil, 11 luglio 2014

Stop austerità, sosteniamo il referendum. Realfonzo a Tg3 Linea Notte

Stop austerità, sosteniamo il referendum
Tg3 Linea Notte, 7 luglio 2014

Serve una spinta popolare e democratica per fermare l'austerità e ottenere una svolta nelle politiche economiche europee, per la crescita e la piena occupazione.



Il referendum contro il Fiscal Compact sfida l'Eurogruppo e l'austerità

Il referendum contro il Fiscal Compact sfida l'Eurogruppo e l'austerità ottusa
di Raffaele Ricciardi
Repubblica, 7 luglio 2014

Un gruppo di economisti bipartisan ha avviato la raccolta di firme per abrogare quattro articoli della legge che fissa il pareggio di bilancio. Per i proponenti l'Italia non può tecnicamente mantenere gli impegni presi in sede europea, cioè coniugare avanzi primari e crescita. Si cerca la sponda politica.

Uno è stato viceministro dell'Economia con Silvio Berlusconi. Un altro è un ex membro della segreteria del Partito Comunista, poi Pds. Poi c'è l'economista della giunta di De Magistris a Napoli, dal quale si è separato in polemica, il sindacalista della Cgil e il professore di Scelta Europea. La compagine è piuttosto composita, ma il fine è uno solo: rompere il vincolo della "austerità ottusa" dell'Europa e mandare gambe all'aria il suo più potente strumento, il Fiscal Compact. Quest'ultimo consiste nella lista di impegni che ha raffinato il Patto di stabilità e crescita e i successivi "Six" e "Two pack" e prescrive - pur non avendo il rango di trattato - una rigida tabella di marcia per gli Stati che hanno i conti in disordine: su tutto, prevede il pareggio di bilancio costituzionale, l'obbligo di non superare la soglia di deficit strutturale oltre lo 0,5% del Pil e la riduzione del rapporto tra debito e Pil di un ventesimo l'anno (per la parte eccedente il 60% del Pil, caso in cui rientra l'Italia).
Da inizio luglio è partita la caccia alle firme per chiamare in consultazione gli italiani con un referendum che depotenzi in maniera significativa il Fiscal Compact stesso. Lo propone un comitato - appunto - variegato, a testimonianza di quanto il tema susciti interesse trasversale, anche dopo aver deposte le armi della campagna elettorale per le europee: tra i firmatari, riprendendo l'ordine di presentazione di cui sopra, vi sono gli economisti
Mario Baldassarri, Cesare Salvi, Riccardo Realfonzo, Danilo Barbi della Cgil e Gustavo Piga di Scelta Europea, che già aveva proposto un referendum con il movimento dei "Viaggiatori in Movimento". 
La proposta del comitato propone di abrogare quattro articoli del testo di legge 243 del 2012, la norma attraverso la quale si attua il principio costituzionale del pareggio di bilancio. Una sottile escamotage per disarcionare il Fiscal Compact, che sarebbe intoccabile sul lato (costituzionale) del pareggio di bilancio stesso. Le ragioni della richiesta di abrogazione di fatto sono spiegate dall'economista Realfonzo sulla rivista economiaepolitica.it, dove si ricorda che "la risposta del tutto inadeguata alla crisi ha portato nell'Eurozona a una crescita del numero dei disoccupati da 11,6 ad oltre 19 milioni di fine 2013 (con un incremento che sfiora il 65%) e il Pil ancora oggi risulta di 1,5 punti inferiore al livello raggiunto nel 2007 (dati Commissione Europea, a prezzi costanti)".
A fronte di questa situazione, al di là dei tecnicismi, Realfonzo spiega che l'Italia - per le disposizioni del Fiscal Compact - è chiamata a mettere in fila avanzi primari che non sono pensabili, soprattutto se affiancati a un obiettivo di crescita. Per questo si propongono quattro punti: "Abrogare le norme che consentono di stabilire obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea (quando la norma dice di assicurare "almeno" gli obiettivi di medio e lungo termine europei, ndr); Abrogare la norma che limita ai soli casi straordinari il ricorso all'indebitamento pubblico per operazioni finanziarie; Abrogare la norma che impone manovre correttive di bilancio quando ricorrono alcune condizioni previste da trattati internazionali; Abrogare la norma che identifica rigidamente e tassativamente il principio costituzionale di equilibrio dei bilanci pubblici con un obiettivo di bilancio stabilito in sede europea".
La sfida di raccogliere 500mila firme entro la fine di settembre, per poter poi tenere la consultazione nel 2015, si inserisce perfettamente nelle discussioni di questi giorni sulla flessibilità, focus dell'Eurogruppo e dell'Ecofin. "Per definire la nuova politica europea in discussione in queste ore si potrebbe parlare di 'austerità flessibile'", spiega Realfonzo: "Gli obiettivi di lungo termine non cambiano, ma si lascia solo qualche piccolo margine di gestione per i più virtuosi". Il problema è che "così le cose non possono comunque funzionare".
L'economista di stampo keynesiano sottolinea che la presentazione dell'iniziativa ha attirato l'interesse del sindacato, ma anche "di esponenti di peso del Pd come Cuperlo e Fassina, insieme a Sel e altre forze politiche". Proprio sul terreno politico alcuni hanno letto la proposta referendaria come un giudizio su Renzi, ma Realfonzo precisa: "Non è un referendum contro il governo, ma una spinta dal basso che può anzi essere utile agli esecutivi che vogliono impostare una politica economica diversa". Si cerca quindi la sponda del Pd, che d'altra parte "ospita i nostri banchetti alla festa dell'Unità"...

L'austerità ha fallito. Realfonzo a Omnibus

L'austerità ha fallito
Omnibus, La7, 6 luglio 2014

Riccardo Realfonzo spiega perché le politiche europee all'insegna dell'austerity hanno frenato la crescita e alimentato la disoccupazione.