Realfonzo a La Gabbia parla del "monito degli economisti"

Realfonzo a La Gabbia parla del "monito degli economisti" pubblicato dal Financial Time
La 7, 25 settembre 2013


The economists' warning

The economists' warning
Financial Times, 23 settembre 2013

"...proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro".

Nello stesso giorno in cui i media celebrano la vittoria di Angela Merkel in Germania, il Financial Times ha pubblicato un testo che interpreta molto diversamente la fase e che guarda più avanti: è “Il monito degli economisti” (“The Economists’ Warning”), un documento promosso dagli italiani Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio) e sottoscritto da alcuni tra i principali esponenti della comunità accademica internazionale, appartenenti a varie scuole di pensiero: tra di essi Philip Arestis (University of Cambridge), Wendy Carlin (University College of London), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (ex capo dell’ufficio Finanziamenti per lo sviluppo dell’ONU), Dimitri Papadimitriou (presidente del Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Willi Semmler (New School University, New York), Tony Thirlwall (University of Kent) ed altri.

Il testo completo e tutte le informazioni su www.theeconomistswarning.com.

Il monito degli economisti

Il monito degli economisti
Financial Times, 23 settembre 2013

La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel 2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici dell’Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali; la Germania e gli altri paesi centrali dell’eurozona hanno invece visto crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è una delle cause dell’attuale stallo politico europeo e dell’imbarazzante susseguirsi di vertici dai quali scaturiscono provvedimenti palesemente inadeguati a contrastare i processi di divergenza in corso. Una ignavia politica che può sembrare giustificata nelle fasi meno aspre del ciclo e di calma apparente sui mercati finanziari, ma che a lungo andare avrà le più gravi conseguenze.
Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione. Nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera sottoscritta da trecento economisti lanciò un allarme sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità”: tali politiche avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Quell’allarme rimase tuttavia inascoltato. Le autorità europee preferirono aderire alla fantasiosa dottrina dell’“austerità espansiva”, secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione, favorendo così la diminuzione dei tassi d’interesse e la ripresa economica. Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale, oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Gli stessi fautori della “austerità espansiva” adesso riconoscono i loro sbagli, ma il disastro è in larga misura già compiuto.
C’è tuttavia un nuovo errore che le autorità europee stanno commettendo. Esse appaiono persuase dall’idea che i paesi periferici dell’Unione potrebbero risolvere i loro problemi  attraverso le cosiddette “riforme strutturali”. Tali riforme dovrebbero ridurre i costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire quindi una ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso l’estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l’unità europea. Le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un’azione coordinata da parte di tutti i membri dell’Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee.
Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con parole lungimiranti: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». Sia pure a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupposti per l’ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Ma la memoria di quegli anni sembra persa: le autorità tedesche e gli altri governi europei stanno ripetendo errori speculari a quelli commessi allora. Questa miopia, in ultima istanza, è la causa principale delle ondate di irrazionalismo che stanno investendo l’Europa, dalle ingenue apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male fino ai più inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo.
Occorre esser consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.

Promosso da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), il “monito degli economisti” è sottoscritto da Philip Arestis (University of Cambridge), Wendy Carlin (University College of London), Giuseppe Fontana (Leeds University), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (University of Tallin), Heinz Kurz (Graz University), Alfonso Palacio-Vera (Universidad Complutense Madrid), Dimitri Papadimitriou (Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Willi Semmler (New School University, New York), Engelbert Stockhammer (Kingston University), Tony Thirlwall (University of Kent).
...ed anche: Georgios Argeitis (Athens University), Jesus Ferreiro (University of the Basque Country), Malcolm Sawyer (Leeds University), Felipe Serrano (University of the Basque Country), Lefteris Tsoulfidis (University of Macedonia).

Sito web: www.theeconomistswarning.com

Ora serve una svolta nel Pd

Ora serve una svolta nel Pd
di Riccardo Realfonzo
Il Corriere del Mezzogiorno, 19 settembre 2013

Con l’approvazione della manovra di bilancio, l'amministrazione de Magistris porta ai massimi le imposte locali frustrando le speranze di ripresa dell’economia cittadina. Si verifica così quanto avevo preannunciato al sindaco ancor prima che fosse eletto: in assenza di una immediata e profonda azione riformatrice, finalizzata a riorganizzare il Comune e le società partecipate, si sarebbero riversati sui cittadini e sulle imprese costi insostenibili. D'altronde, il vero e proprio fallimento del Comune lo si sta evitando solo grazie al decreto salva-Comuni del governo Monti che (insieme al decreto sui debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese) ha consentito al Comune di Napoli di sottoscrivere alcune centinaia di milioni debiti con lo Stato. Debiti che i cittadini napoletani dovranno rimborsare nei trenta anni a venire. Come se non bastasse, l’intera manovra per colmare il buco di bilancio prodotto nell'epoca iervoliniana (il cosiddetto piano di riequilibrio) desta molte preoccupazioni in merito alla sua sostenibilità. Basti ricordare che il piano di dismissioni immobiliari – architrave del programma di risanamento finanziario e di rilancio degli investimenti pubblici – dovrebbe essere gestito dalla partecipata Napoli Servizi, la quale, è notizia di questi giorni, non riesce neppure a spedire i bollettini di pagamento agli affittuari degli alloggi comunali.
Stando così le cose, la questione è se sia possibile cominciare a porre freno a tutto questo al più presto o se occorrerà attendere quasi tre anni, cioè la fine naturale del mandato del sindaco.
La prima domanda da porsi è se possa immaginarsi un atto di responsabilità del Consiglio Comunale che, in qualche modo, supplisca alla incapacità del sindaco nell’offrire scelte strategiche coraggiose per la Città. Ma come ha sottolineato Paolo Macry su queste colonne, e come la cronaca di questi giorni sull’approvazione della manovra di bilancio ha pienamente confermato, il Consiglio è piuttosto preda di una deriva trasformistica da basso impero; il che significa che dopo soli due anni dalle elezioni il sindaco e la sua variabile maggioranza consiliare non rappresentano più i napoletani e in particolare quello straordinario movimento di opinione che sostenne il suo programma di rottura con le pratiche del vecchio centrosinistra.
In seconda battuta, si potrebbe considerare la possibilità che sia lo stesso de Magistris a decidere di lasciare anzitempo l'incarico. Certo, lui ha annunciato l'intenzione di non dimettersi e ricandidarsi alla scadenza del mandato; ma si tratta solo di un nuovo bluff. Quali possibilità ha infatti de Magistris di essere rieletto? Nessuna. Anche perché posso assicurare che quella parte di società civile che lo ha sostenuto due anni fa si opporrebbe strenuamente a una sua candidatura. E una volta incassata la bocciatura dei napoletani, ci sarebbe un futuro politico per il sindaco? Probabilmente no. Ecco allora che sarebbe razionale per de Magistris tentare una exit strategy prima della scadenza dei cinque anni, finché ha ancora qualcosa da mettere sul piatto. Ad esempio, tentare una candidatura alle politiche o alle europee, magari con il Pd, lasciando via libera al Comune.
Una ulteriore ipotesi è che sia proprio il Pd a tentare la spallata al sindaco. Magari approfittando del fatto che i consiglieri comunali di maggioranza sono orfani di riferimenti parlamentari e potrebbero essere sedotti dalle sirene di una nuova casa politica. Certo, il Pd è attraversato da mille tensioni e parla con mille voci, soprattutto in questa fase, in vista del congresso del partito; eppure sul piano locale il Pd sembra avere trovato coesione intorno a una posizione di forte critica a de Magistris, con la sola imbarazzante eccezione - per le ragioni sopra dette - dei suoi stessi consiglieri comunali. Una circostanza che, oltre a minare la credibilità del partito, potrebbe complicare non poco un tentativo di superamento di questa esperienza.
Come che sia, presto o tardi, una volta chiusasi la parentesi di de Magistris quale scenario si aprirà? È chiaro che il lascito amministrativo di questo sindaco sarà disastroso. Inutile elencare ciò che è davanti agli occhi della Città e del Paese. Basti qui ricordare la notizia del versamento di mezzo milione di euro agli organizzatori del Giro d'Italia che, se confermata, scoprirebbe l'ennesima favola raccontata ai napoletani, ai quali era stato assicurato che l’evento sarebbe stato a costo zero. Ma il lascito politico rischia di essere davvero esiziale per l'insieme delle forze progressiste che a Napoli appaiono, nonostante tutto, ancora presenti e vitali. Il fallimento di questa esperienza amministrativa ha avuto infatti ricadute pesanti, fiaccando l'entusiasmo di quel “nucleo avanzato” di società civile che si coalizzò, due anni e mezzo or sono, accogliendo la proposta dell’Italia dei Valori di Di Pietro e puntando sulla visibilità e popolarità del giovane ex magistrato de Magistris. Un “nucleo avanzato” che raccoglieva le istanze favorevoli a una “rivoluzione della buona amministrazione” provenienti, da un lato, dalla borghesia cittadina illuminata e da ambienti intellettuali diretti eredi delle Assise di Palazzo Marigliano, e, dall'altro, da ampi settori del mondo del lavoro e dell'associazionismo diffuso, della cittadinanza attiva e consapevole. E tuttavia, è proprio da quel nucleo di società civile partenopea - che si è prontamente allontanato dal sindaco appena ha compreso che questi tradiva il programma elettorale e che porta il testimone della mancata “rivoluzione” - da cui occorre ripartire per trovare un futuro possibile per Napoli. Provando però a non ripetere gli errori del passato. Sotto questo aspetto, gli scenari futuri dipenderanno in buona misura dalle scelte delle forze politiche del centrosinistra e in particolare del Pd, che resta una grande forza elettorale sebbene in affanno sul piano della credibilità politica e programmatica. Possiamo essere certi che una parte del Pd sarà tentata del riportare indietro l’orologio della storia e riproporci qualche esperienza del passato; ed è altrettanto probabile che qualcuno pensi a qualche soluzione “esterna”, eterodiretta, come accadde l'ultima volta. In entrambi i casi la società civile napoletana si metterà di traverso. Per questo, tra gli errori da non ripetere c'è il restare indifferenti rispetto alla vicenda del Pd, o addirittura cedere alla tentazione del tanto peggio, tanto meglio. La parte viva e sana della società civile napoletana dovrebbe fornire un contributo affinché all'interno delle forze politiche del centrosinistra prevalgano le spinte rinnovatrici e un autentico spirito di servizio. Solo in un quadro così delineato, non certo di facile realizzabilità, la Napoli migliore potrebbe avere una opportunità per voltare pagina.