C'è una lobby che vuole l'acqua privata

Ho molto apprezzato questo articolo del prof. Carlo Iannello che mi sembra colga nel segno.

C'è una lobby che vuole l'acqua

La Repubblica Napoli, 23 gennaio 2010

di Carlo Iannello


La recente legge sui servizi pubblici locali (la cosiddetta legge Ronchi) avrà effetti gravi su tutto il territorio nazionale, ma a Napoli le conseguenze rischiano di essere particolarmente vistose. Le nuove disposizioni, infatti, costringono i Comuni ad affidare la gestione dei servizi pubblici locali, acqua compresa, a società private o al massimo miste pubblico-privato. Si chiude così il cerchio della privatizzazione: la legge non lascia spazio per nessuna residua forma di gestione diretta, impedendo ciò che i Comuni hanno realizzato per circa un secolo, dalla legge Giolitti del 1903 fino al 2001, anno di entrata in vigore della prima dirompente "riforma" in questa materia. Ardua diviene persino la possibilità di affidare il servizio a una società per azioni di cui sia integrale proprietario l´ente pubblico (il cosiddetto affidamento in house). Si trasferisce così al capitale privato una nicchia di mercato protetta, quella dei servizi pubblici locali, che è fonte di rendite certe.
È bene chiarire che la contro-riforma dei servizi pubblici locali fortemente voluta dal governo si basa su alcune mistificazioni.
In primo luogo, si sostiene strumentalmente che le disposizioni servirebbero ad adeguare l´ordinamento interno a quello europeo: si tratta di una assoluta falsità perché l´Europa lascia gli Stati membri liberi di decidere se gestire i servizi locali facendo ricorso o meno al mercato. La pubblicizzazione dell´acqua a Parigi, ad esempio, è stata resa possibile dalle leggi francesi che continuano a prevedere che i Comuni possano realizzare anche gestioni dirette dei servizi locali. E nessuno dubita della conformità di queste disposizioni al diritto europeo.
In secondo luogo, si invoca ingannevolmente la concorrenza. In questi settori - si pensi al servizio idrico che viene erogato attraverso un´unica infrastruttura acquedottistica - la privatizzazione non può generare le condizioni per la concorrenza, come è viceversa accaduto, ad esempio, a livello nazionale, nel settore delle telecomunicazioni. Il risultato cui si perverrà sarà dunque quello della sostituzione di monopoli pubblici con monopoli privati. In settori come quello idrico la naturale conformazione monopolistica del mercato assicurerà al gestore privato una rendita cospicua che sarà pagata a caro prezzo dai cittadini.
In questo difficilissimo scenario il consiglio di amministrazione dell´Ato 2 - il consorzio di Comuni che da 10 anni avrebbe dovuto governare il settore idrico - dopo aver puntato nel 2004 alla privatizzazione dell´acqua, con un bando che scandalizzò l´opinione pubblica campana, dorme sonni profondi. E ciò a dispetto del fatto che nel corso del 2009 l´assessore alle Risorse strategiche del Comune di Napoli Riccardo Realfonzo abbia sostenuto la linea dell´acqua pubblica, rendendosi promotore di una impegnativa delibera approvata in consiglio comunale e inviando formalmente all´Ato 2 uno schema di delibera. Con quest´ultimo, che risale al maggio scorso, si chiedeva all´Ato 2 di affidare il servizio idrico all´Arin, l´unica azienda al 100 per cento pubblica in grado per storia, competenze e affidabilità di poter gestire l´acqua a Napoli e negli altri Comuni del bacino, comunque istituendo una commissione tecnica per verificare la possibilità, a legislazione vigente, di trasformare questa azienda in un ente di diritto pubblico.
Purtroppo, come è ben noto, l´azione di Realfonzo è stata bloccata da interessi lobbistici al punto da costringerlo alle dimissioni. E l´Ato 2 prosegue i suoi sonni. Tra soli 11 mesi scadranno ex lege le attuali concessioni, con l´effetto che i servizi verranno messi a gara. In altre parole, il rischio (per qualcuno il vero malcelato obiettivo) è che l´Ato 2 non proceda nella direzione dell´affidamento all´Arin, che quest´ultima venga sciolta (tanto è scritto nello statuto e previsto dalla legge) e che i suoi straordinari beni (dall´acquedotto del Serino a tutte le altre infrastrutture legate al servizio idrico) divengano oggetto di un vero e proprio sciacallaggio da parte dei soliti rapaci.

L'afasia della Cgil e del PD

L'afasia della Cgil e del Pd raccontate dagli economisti
I silenzi della sinistra dinanzi alla recessione e l'isolamento del sindacato di Corso d'Italia al centro di un convegno promosso dalla mozione di minoranza

Il Riformista, 21 gennaio 2010

di Mastrobuoni Tonia

Quando si tocca l'argomento tasse qualcuno non si trattiene, «c'è anche Dracula!» e in sala riecheggia qualche risata un po' grassa. Ma Vincenzo Visco sorride, ormai affezionato a un nomignolo che lo accompagna da tre lustri. E quando parla dell'economia italiania, come sempre, ha ragione da vendere. Con un ma che riguarda la sua personalissima visione del fisco. Occasione, un interessante confronto tra economisti di aree molto distanti - da Tito Boeri a Riccardo Realfonzo, da Silvano Andriani a Riccardo Bellofiore - organizzato da "La Cgil che vogliamo" , la mozione di minoranza del sindacato di Corso d'Italia. E insomma, per l'ex ministro delle Finanze «le tasse non sono poi tante: il 29% del Pil», contributi esclusi. Però Visco è lucido sulla vera emergenza. Il fatto che l'Italia stia sprofondando, contranamente all'epica dominanite del "ce la siamo cavata meglio degli altri", in un disastro assolutamente evidente, come mostrano i dati dell'Ocse. Per Visco anche nel crollo della ricchezza pro capite degli ultimi anni si coglie il sintomo chiaro del declino, visto che «quest'anno torniamo ai livelli del 1999».
Forse il dramma vero, tuttavia, è quello culturale, quella che Visco chiama senza fronzoli l'antica, «forte subalternità della sinistra al modello dominante» neoliberista. Al di là di chi rivendica, come Silvano Andriani, autore del delizioso "L'ascesa della finanza" (Doizelli) che dopo la débàcle dei neoliberisti "non possiamo non dirci keynesiani", il problema è capire qual è stata la reattività della sinistra e del sindacato alla crisi più paurosa dal 1929. Sferzante Bellofiore: «ne siamo usciti con politiche di spesa pubblica gestite dai neolibensti. E dall'altra parte c'è stato un totale silenzio». Anche Stefano Fassina, responsabile ecollomico del Pd, ammette che «stiamo utilizzando troppo poco quello che sta accadendo per un'offensiva culturale». Pur non condividendone dei passaggi, «mi pare che l'unico elemento di novità di questi mesi sia stata l'enciclica papale», osserva l'economista del Nens. Da apprezzare «nella critica all'individualismo metodologico e nella riproposizione del tema della politica come dimensione dell'interesse generale». La finestra concessa a un vero dibattito sulla crisi, forse, è stata piuttosto breve ma la sinistra ha indubbiamente fallito. Adesso, insinua Visco, «stiamo uscendo dalla crisi, al meglio, con un'altra fase di crescita basata su bolle speculative». Si ricomincia da capo.
L'orizzonte ancora lungo di uscita dalla crisi - con rischi di una ricaduta "double dip" come hanno sottolineato ieri in molti - impone la programmazione di politiche vigorose di rilancio della crescita, ma anche di una profonda ridefinizione del ruolo del sindacato. Per Realfonzo, ca va sans dire, la Cgil deve riconquistare la sua funzione di sindacato «conflittuale e solidaristico». E lo steccato attorno all'articolo 18 va mantenuto saldo. Non è di questo parere, com'è noto, Tito Boeri, teorico del contratto unico, che ha sottolineato l'importanza di «non proibire la flessibilità», ma trovare il modo, fmalmente, di risolvere il dualismo del mercato del lavoro. Una consapevolezza che è divenuta finalmente tema congressuale della Cgil.Ma è stato Alfonso Gianni ieri a pronunciare l'impronunciabile, dinanzi all'afasia della sinistra: «chiedere che il sindacato torni ad essere supplenza non è una bestemmia: è una necessità». E forse le parole più esplicite sono arrivate da Giorgio Cremaschi, sull'urgenza che la Cgil esca dall'angolo in cui è finita dalla firma separata sulla riforma dei contratti. «Abbiamo costruito per il congresso un documento con sindacalisti riformisti e antagonisti: siamo dinanzi a una crisi drammatica del confederalismo sindacale che va affrontata». Inoltre, per il segretario nazionale Fiom «è chiaro che la Cisl e la Uil una risposta alla crisi ce l'hanno», ed è «il modello socialcorporativo disegnato assieme al Governo e alla Confindustria». Chiosa il leader dei metalmeccanici, Gianni Rinaldini: l'area vasta che si è raccolta attorno alla mozione anti-epifaniana «non costruirà un'altra area programmatica», quella che nei partiti si chiamerebbe "corrente", «per mettersi d'accordo sulle poltrone ai vertici, bensì vuole aprire un dibattito». Questo passaggio, a dire il vero, non convince del tutto. Ma un confronto sui contenuti come quello di ieri aiuta certamente ad apprezzare questa eterogenea coalizione dei volenterosi che va dai riformisti ai massimalisti della Cgil.

La crisi e le periferie d'Europa

Il Sole-24 Ore ha messo a confronto tre economisti - Paolo Guerrieri, Marco Pagano e io - sul tema degli effetti della crisi sulle aree in ritardo di sviluppo d'Europa. Il risultato è l'articolo "La periferia di Eurolandia vivrà dieci anni difficili" (di Alfredo Sessa, Il Sole-24 Ore, 7 gennaio 2010).

In Campania servono discontinuità e rigore. Liberazione intervista Riccardo Realfonzo

Intervista a Riccardo Realfonzo: "In Campania va dato un chiaro e forte segnale di discontinuità e rigore nei programmi"
di Gemma Contin
Liberazione, 7 gennaio 2010
Riccardo Realfonzo, economista, professore ordinario e direttore del Dipartimento di Analisi dei sistemi economici e sociali dell'Università del Sannio, membro della consulta economica nazionale della Fiom-Cgil, assessore "tecnico" al bilancio del Comune di Napoli dal gennaio al dicembre 2009. Lo abbiamo intervistato sulle prospettive che si apriranno in Campania con le elezioni regionali del 28 e 29 marzo.
Professor Realfonzo, lei è stato per circa un anno assessore al bilancio di Napoli nella giunta di Rosa Russo Jervolino, poi ha dato le dimissioni. Cos'è successo?
Accettai l’incarico nel gennaio dello scorso anno con l’obiettivo di contribuire a una nuova politica economica cittadina. Consapevole della disastrosa eredità che raccoglievo, impostai una politica di risanamento del bilancio comunale allo scopo di evitare il dissesto, di sostenere i ceti meno abbienti colpiti dalla crisi, di bloccare le privatizzazioni dei servizi pubblici locali, a cominciare dall’acqua. Una azione che ho definito di “rigore nel pubblico per la difesa del pubblico” e che è stata sempre sostenuta dalla sinistra in consiglio comunale, pur nelle condizioni di debolezza e frammentarietà che conosciamo. Credo di avere conseguito risultati evidenti, tagliando le spese della macchina amministrativa, implementando una politica di trasparenza e rigore, conducendo una lotta serrata all’evasione, aumentando la spesa sociale. Ma sui temi delicati del risanamento delle numerose società partecipate del Comune e della difesa dell’acqua pubblica si sono mano a mano chiusi tutti gli spazi per una azione di rinnovamento. Qui è prevalsa una difesa di interessi particolari consolidatisi in questi anni, rappresentati dalle frange egemoni del Pd campano, che vedono nelle società partecipate dei meri strumenti di consenso, legati a prebende e a privilegi. A quel punto, non potendo spezzare questo meccanismo perverso, nel dicembre scorso ho dato le dimissioni.
Il Comune di Napoli è uno dei punti in cui la crisi economica, politica e sociale è più acuta, ma in Campania rimangono aperte gravissime questioni come i posti di lavoro a rischio, il degrado ambientale e amministrativo, le inflitrazioni e il peso della camorra. Con le elezioni regionali cosa accadrà?
Napoli, la Campania, il Mezzogiorno intero vivono condizioni croniche di marginalità, accentuate dalla crisi. Molte di queste difficoltà sono il frutto di una politica economica nazionale del tutto inadeguata e che politicamente guarda altrove, oltre che di un quadro istituzionale europeo che spinge le aree in ritardo verso la desertificazione economica. Ma le responsabilità delle amministrazioni locali di centrosinistra in Campania sono purtroppo evidenti. La mia esperienza al Comune di Napoli è testimonianza di quante resistenze si incontrino nel tentativo di implementare una politica di rigore, difesa del pubblico, sostegno dei ceti meno abbienti. D’altra parte, i dati sugli scarsi risultati conseguiti dalla Regione Campania con i fondi europei parlano chiaro. Adesso sarebbe necessario mettere in campo una proposta realmente e credibilmente innovativa, che rompa con il passato. Una strada impervia, ma forse l’unica per non rischiare di essere travolti dal giudizio critico degli elettori sulle amministrazioni di questi anni.
Secondo lei quali sono le priorità che una forza politica di sinistra dovrebbe darsi, tenendo conto del problema ineludibile delle alleanze e del lascito di due legislature bassoliniane?
La parola d’ordine dovrebbe essere discontinuità. Serve una discontinuità nel personale politico-amministrativo e soprattutto serve discontinuità nel merito delle politiche che sono state implementate in questi anni. Penso, ad esempio, all’utilizzo dei fondi europei, che sono stati dispersi in mille rivoli, inseguendo la logica della programmazione negoziata che ha finito per premiare la piccola imprenditoria locale e le presunte vocazioni locali. Soldi gettati al vento. Gli unici punti di forza dell’economia campana e meridionale restano le grandi imprese nate negli anni dell’intervento straordinario. E poi c’è da difendere i servizi pubblici locali, mettendo in campo un sistema locale efficiente, razionale, difendibile economicamente e politicamente. Qualsiasi alleanza politica credo che dovrebbe fondarsi sulla discontinuità. Mi sembra una condizione irrinunciabile.
Lei che uomini e donne vedrebbe alla guida della Campania, dato che alla corte di Berlusconi corrono e soccorrono personaggi di antico e recente potere locale, da Nicola Cosentino a Clemente Mastella?
Come dicevo prima penso sia più importante discutere nel merito dei programmi. Ma è certo che servono donne e uomini nuovi, del tutto estranei al sistema di potere che nel centrosinistra campano di questi anni ha pensato più alla autoconservazione che ai cittadini.
Che ruolo stanno svolgendo, e potrebbero o dovrebbero svolgere in una situazione così pesante, le forze sociali, gli intellettuali, il mondo del lavoro?
La mia esperienza all’assessorato al bilancio è stata un lungo braccio di ferro con le inefficienze del blocco di potere consolidatosi in questi anni a Napoli e in Campania. Una esperienza dura nella quale ho sempre avuto il sostegno della sinistra e di una parte consistente del sindacato. Ma ho avuto anche e soprattutto il supporto di larga parte della società civile, come l’Assise che si raccoglie intorno all’Istituto per gli Studi Filosofici e che mi ha sostenuto con un appello pubblico. Insomma a Napoli e nel Mezzogiorno c’è tanta società civile che chiede un gran colpo di reni al centrosinistra. Da questa società civile ancora vitale credo occorrerebbe attingere per rilanciare un’azione progressista a Napoli e nell’intero Mezzogiorno.

La bassa inflazione non è una benedizione

La bassa inflazione non è una benedizione
Il Riformista, 6 gennaio 2010 (pag. 1)
di Riccardo Realfonzo

L’inflazione si riduce, praticamente si azzera, e il ministro dello sviluppo Scajola trova modo di rallegrarsi affermando che, nonostante la crisi, il “potere di acquisto dei cittadini non è stato penalizzato”. La tesi è persino confermata da talune forze sindacali le quali sembrano compiacersi nel notare che, in assenza di una apprezzabile dinamica del livello generale dei prezzi, i risicati incrementi dei salari monetari spuntati nell’anno di contrattazione possono essere considerati sufficienti a tenere stabile il potere di acquisto delle famiglie. È il caso di sottolineare che questa affermazione, che pure contiene in sé una banale ovvietà, è viziata da un errore di fondo.
L’ovvietà è presto detta: in astratto un cittadino che abbia la certezza di un reddito fisso, non può che trarre beneficio dalla stabilità dei prezzi dal momento che questa garantisce a sua volta la stabilità del suo potere di acquisto. L’errore di fondo è meno facilmente intuibile, soprattutto a causa del prevalere, negli ultimi decenni, di una cultura economica neoclassico-monetarista che ha descritto l’inflazione come il peggiore dei mali. Si tratta della stessa cultura economica che ha spinto l’Europa unita a dotarsi di una Banca Centrale Europea che avesse come obiettivo essenziale la stabilità dei prezzi e non lo sviluppo economico o la piena occupazione. Eppure gli economisti sanno bene, da secoli, che lo spegnersi della dinamica dei prezzi, addirittura la deflazione, costituisce il più chiaro sintomo della patologia economica, cioè della depressione in atto. Nella situazione attuale nessuno può negare che l’inflazione si azzera perché si contraggono le richieste di credito e le concessioni di prestiti dalle banche alle imprese, si riducono gli investimenti, langue la spesa per consumi delle famiglie. In sostanza, la domanda complessiva di beni e servizi diminuisce, le imprese contengono i prezzi e cala vistosamente il livello di attività dell’economia.
A chi sostiene che tutto ciò in fin dei conti potrebbe andare a beneficio delle stesse famiglie lavoratrici occorrerebbe spiegare che la recessione nella quale siamo oggi immersi è esattamente il prodotto della contrazione del potere di acquisto delle famiglie lavoratrici - in termini di quota del Pil che esse hanno ottenuto - progressivamente definitasi dai primi anni ’80 del Novecento ad oggi nei paesi industrializzati. Chi avesse dubbi sulla straordinaria dimensione di questa dinamica redistributiva “al contrario”, che ha sottratto ai redditi da lavoro e ha dato ai redditi da capitale, può trovare conferma in tutti i recenti studi delle principali istituzioni internazionali (ILO, OCSE, FMI). Insomma, la deflazione non beneficia affatto le famiglie lavoratrici dal momento che mai come oggi essa è proprio il portato dell’impoverimento di quelle stesse famiglie.
Coloro che avessero ancora qualche perplessità sul fatto che il tasso di inflazione a pochi decimali si spieghi con il grave immiserimento del mondo del lavoro, dovrebbero riflettere sulle dimensioni drammatiche della crisi occupazionale. Tali dimensioni sono colte solo parzialmente dal tasso di disoccupazione (che pure è significativamente aumentato): una loro piena comprensione deve infatti spingere a valutare non solo i posti di lavoro persi, ma anche l’effetto di scoraggiamento su tutti coloro che hanno smesso di cercare il posto di lavoro, la crescita esponenziale del numero dei lavoratori in cassa integrazione e le crescenti difficoltà dell’esercito di lavoratori precari che vedono ridursi impegno lavorativo e salari.
Insomma, le famiglie lavoratrici non vivono affatto bene in tempi deflazionistici. Ma questo Scajola e gli altri ministri del governo Berlusconi sembrano non saperlo e si guardano bene dal varare una riforma per un fisco nuovamente progressivo e realmente redistributivo contro la crisi.