Ecco perché la Merkel è il problema in Europa


Perchè la linea tedesca è un problema per l'Europa
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 17 marzo 2013

E se dicessimo che è la Merkel il problema oggi in Europa? Se dicessimo che le politiche di intransigente austerità fanno sprofondare una parte dell’eurozona e danno fiato alla protesta, più o meno populistica e antieuropeista, moltiplicando le invocazioni all’abbandono dell’euro? D’altra parte, come afferma lo stesso Monti, il nostro Paese “ha rigorosamente rispettato tutti gli impegni presi” e nonostante questo “registra un drammatico crollo nell’attività economica”. E sempre Monti aggiunge, questa volta non abbastanza ascoltato, che la vicenda delle elezioni politiche italiane dovrebbe essere istruttiva per tutti in Europa.
Nel Consiglio Europeo di Bruxelles le esortazioni ad attenuare l’austerità si sono infrante contro il rigido blocco tedesco. Le uniche concessioni apprezzabili riguardano i tempi del rientro dai deficit eccessivi e un parziale scorporo degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit. Misure anche utili, ma nemmeno lontanamente sufficienti a compensare il profilo recessivo dell’austerità. Misure che sarebbe anche  ingenuo considerare alla stregua di “cavalli di Troia” per scardinare il fortilizio teutonico; e questo soprattutto perché, rubando l’espressione di Draghi, il “pilota automatico” dell’austerità è ormai inserito, e viaggia al ritmo accelerato previsto dal Six Pack, dal Fiscal Compact e dal Two Pact. Per l’Italia questo significa, con calcoli ottimistici, portare l’avanzo primario – ovvero la differenza tra entrate e spese pubbliche, interessi sul debito a parte – verso gli 80 miliardi di euro e poi anche oltre. Il che non può essere considerato praticabile sul piano economico, sociale e politico.
Il fatto è che Angela Merkel non è minimamente disposta a derogare rispetto alla sua visione di Europa come “economia sociale di mercato”, imperniata sul lasciar fare e sulla piena responsabilità dei singoli, in un contesto austero sul piano fiscale e monetario. Pazienza se tutte le ricerche dimostrano che i consolidamenti fiscali determinano recessione e sfociano nel circolo vizioso dell’austerità (la Grecia insegna). L’ultimissima conferma in questo senso viene da uno studio del FMI secondo il quale l’austerità non solo determina recessione ma peggiora anche la condizione delle finanze pubbliche, e segnatamente aumenta il rapporto tra debito e pil. E pazienza anche se i clamorosi saldi positivi della bilancia commerciale di Germania, Olanda e Paesi scandinavi – per un totale che sfiora un terzo del pil italiano – sono consentiti, e anzi alimentati, da un euro relativamente a buon mercato per le disgrazie dei paesi periferici.
Eppure è proprio la Germania con gli altri Paesi nordici – come conveniva venerdì anche il “Sole 24 Ore” – a non fare i compiti a casa, mettendo a repentaglio la tenuta dell’area euro. Quei Paesi, infatti, non dovrebbero continuare allegramente a fare crescere i loro saldi commerciali e la ramificazione delle loro multinazionali sulle spalle delle periferie d’Europa. Come osservava proprio uno dei padri dell’“economia sociale di mercato”, Alfred Müller-Armack, in un contesto fortemente squilibrato alcuni Paesi dovrebbero “ampliare il loro import, se in posizione di eccedenza” e perseguire “una politica espansiva per offrire così agli altri Paesi, spinti alla contrazione dell’economia, un aiuto di mercato”. Questo il blocco tedesco dovrebbe fare, lasciando crescere prezzi e salari, e quindi aumentano le sue importazioni, che poi sono le nostre esportazioni. Questo sarebbe effettivamente utile per l’Europa, unitamente a un nuova politica monetaria accomodante e a un nuovo quadro di impegni per i Paesi ad alto debito, che lasciasse a future stagioni la contrazione del debito pubblico per impegnarli oggi solo a controllare il debito, stabilizzando ai livelli attuali il rapporto debito/pil. Come ho già avuto modo di chiarire su queste colonne, questo potrebbe essere un impegno sostenibile per l’Italia e, unitamente alle altre misure, gravido di possibilità di rilancio dell’economia.
Ma la Merkel si guarda bene dall’attenuare l’austerità, più che mai prima delle elezioni di settembre che dovrebbero riconfermarla alla cancelleria. Ed ecco perché lei è un problema per l’Europa e per l’euro. E perché la Merkel sta a Grillo come la causa sta all’effetto.

"La Notte degli Alesina viventi" è l'horror preferito dai keynesiani. Firmato Realfonzo


"La Notte degli Alesina viventi" è l'horror preferito dai keynesiani. Firmato Realfonzo
di Marco Valerio Lo Prete
Il Foglio, 14 marzo 2013

“La notte degli Alesina viventi” è il film horror che fa più paura al Premio Nobel per l’economia Paul Krugman. Al posto dei “morti”, come da pellicola originale di George A. Romero del 1968 – ha scritto ieri Krugman sul suo blog sul New York Times – l’economista liberal ci metterebbe “Alberto Alesina”, appunto, economista italiano di Harvard, coppia fissa con il bocconiano Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, e alfiere dell’“austerity espansiva”. Quest’ultima è la teoria secondo cui dosi massicce di rigore fiscale tranquilizzano i mercati, fanno calare i tassi d’interesse e quindi consentono al credito di riaffluire verso l’economia reale. Una “religione” smentita da teoria e prassi, ha scritto Krugman puntando il dito sull’impatto recessivo che l’austerity sta avendo in Europa. Esattamente di “religione”, a proposito delle tesi di Alesina&co., aveva parlato in Italia nei mesi scorsi anche Riccardo Realfonzo, economista, docente (neokeynesiano) di Economia all’Università del Sannio. “La religione dell’austerità espansiva di cui scrive Krugman – dice in un colloquio con il Foglio – sta generando gravissime difficoltà in Europa. Gli studi più aggiornati e convincenti mostrano con chiarezza che i saldi fiscali positivi, cioè gli eccessi delle entrate sulle spese pubbliche, generano una contrazione del pil più che proporzionale. Questo spiega perché si sia creato il circolo vizioso dell’austerità recessiva, di cui il caso greco è il più esemplare”. Il meccanismo, per Realfonzo, è sempre lo stesso: “Vengono fissati obiettivi di risanamento delle finanze pubbliche da perseguire attraverso saldi fiscali positivi, e dunque avanzi primari consistenti. Ciò però abbatte la domanda aggregata, riduce il pil e aumenta la disoccupazione, peggiorando le condizioni della finanza pubblica. Seguono nuove manovre di austerità e così via”. La novità è che Krugman sarà pure eccentrico, secondo qualcuno, ma “i dubbi” ormai assalgono la stessa leadership europea: “Perciò credo che i tempi più lunghi di cui beneficeranno Spagna, Portogallo e Grecia per rientrare dai deficit eccessivi siano dovuti a una qualche consapevolezza che una ‘cura’ ancora più forte avrebbe ammazzato il malato”. Secondo l’economista italiano, “ormai anche nelle tecnocrazie occidentali c’è la consapevolezza che la tenuta dell’Unione monetaria è a rischio”. Per questo Mario Draghi, alla guida della Banca centrale europea, avrebbe aperto alla possibilità di acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi in crisi, per questo il Consiglio Ue di dicembre ha “ammesso che occorre un’azione di bilancio ‘differenziata e favorevole alla crescita’”. Al Consiglio Ue che si apre stasera a Bruxelles, infine, si discuterà – è scritto nelle bozze del comunicato finale – della necessaria flessibilità delle regole di disciplina di bilancio per creare margini di manovra sugli “investimenti pubblici produttivi”. E’ sufficiente tutto ciò per uscire dall’horror dell’austerity, come lo definiscono i keynesiani? “Se ora il Consiglio definisse una regola per scorporare gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit sarebbe un segnale nella giusta direzione. Ma un segnale insufficiente, anche per l’Italia”. Eppure, anche a voler escludere gli opposti estremismi, un consenso minimo pareva raggiunto: la “crescita a debito” non è la strada giusta per le economie sviluppate. “Guardi che ‘debito’ non è una brutta parola. E’ l’altra faccia del credito – replica Realfonzo – E senza credito, come ci ha insegnato Schumpeter, non c’è sviluppo. Il debito pubblico non va demonizzato, ed è anche discutibile che il rapporto tra debito pubblico e pil costituisca la corretta misura della capacità di uno stato di far fronte ai propri debiti. In realtà il debito pubblico rappresenta solo una quota dello stock complessivo di ricchezza nazionale e pertanto la sostenibilità del debito andrebbe commisurata a quest’ultima, notoriamente più cospicua dei soli flussi annui di reddito”. Poi però, in conclusione, anche il neokeynesiano Realfonzo ammette che possa esistere “una regola di finanza pubblica prudente e percorribile”, che per lui è “la stabilizzazione del rapporto debito/pil”. L’Italia, per esempio, dovrebbe impegnarsi non al pareggio di bilancio nell’anno in corso, ma al congelamento del rapporto debito/pil al 127 per cento del pil. Questo dovrebbe essere l’obiettivo diplomatico per Mario Monti o per il presidente del Consiglio che verrà: “Il nostro paese infatti non è in condizione di rispettare gli impegni assunti negli ultimi due anni, cioè portare il bilancio al pareggio strutturale e avviare l’abbattimento del debito ai ritmi previsti dal Fiscal compact. Per fare queste cose servono avanzi primari”, cioè eccessi del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, interessi sul debito esclusi, “superiori al 5 per cento l’anno. Gli effetti sull’economia e sulla società sarebbero estremamente gravi. Seguire questa strada rischia di essere poco responsabile, quanto chiedere uscire oggi l’uscita dall’euro. Stabilizzare il rapporto debito/pil, invece, richiede avanzi primari del 3 per cento, liberando risorse ingenti per sostenere l’economia”. Tutto ciò basterebbe soltanto se allo stesso tempo i paesi in surplus commerciale (in primis la Germania) “varassero politiche espansive, lasciando aumentare prezzi e salari, aumentando le loro importazioni che sono le nostre esportazioni”. A meno che il “blocco tedesco che difende la sua visione” non ci voglia precipitare, dal punto di vista di Realfonzo, in un nuovo film horror in cui andrà in scena “il fallimento dell’esperienza unitaria”.

Per arginare l'austerità

Per arginare l'austerità
La proposta di stabilizzazione del rapporto tra debito e Pil
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 6 marzo 2013


La priorità del futuro governo italiano non può che essere un dialogo nuovo con l’Europa, finalizzato ad arginare le politiche di austerità. Si discute molto in questi giorni sui margini di trattativa che potremmo avere, e spesso vengono avanzate proposte come allentare i vincoli del Patto di Stabilità per gli investimenti e allungare i tempi di rientro dai deficit “eccessivi”. Idee anche utili, che però rischiano di non essere all’altezza della gravità del quadro macroeconomico e dei margini effettivi di manovra della finanza pubblica di cui disponiamo.
C’è un punto che bisogna tenere ben fermo: il Paese non è grado di fare i “compiti” che gli sono stati assegnati negli ultimi due anni. Mi riferisco al pareggio di bilancio (in termini strutturali, al netto della componente ciclica) e al sentiero di abbattimento del debito pubblico previsto dal fiscal compact. Per rispettare pienamente tutti questi impegni dovremmo – nelle ipotesi più rosee – portare l’avanzo primario (cioè l’eccesso del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, interessi sul debito esclusi) al 5 per cento del Pil e mantenerlo su quel livello per due decenni. Insomma, il futuro governo del Paese dovrebbe prendersi la briga di spingere la spesa corrente al di sotto delle entrate fiscali per circa 80 miliardi di euro. È chiaro che una politica delle finanze di questo genere non consentirebbe alcuna riduzione della pressione fiscale né lascerebbe spazio per interventi espansivi, ad esempio nel campo delle politiche industriali. E in questo contesto, qualche limatura del Patto di Stabilità o qualche piccola concessione sui tempi equivarrebbe a una pacca sulla spalla data al soldato che va al massacro. Infatti, nelle condizioni attuali, proseguire lungo la linea del pareggio di bilancio e dell’abbattimento rapido del debito significherebbe esporre il Paese al rischio di un circolo vizioso fatto di tagli, riduzioni del Pil, peggioramento delle condizioni della finanza pubblica, nuovi tagli, che potrebbe drammaticamente concludersi con l’abbandono dell’euro.
È necessario dunque aprire una riflessione più profonda sulle regole e sugli obiettivi di finanza pubblica in Europa. In tale direzione sarebbe auspicabile che il Parlamento europeo avviasse una inchiesta sui reali effetti dell’austerity e si riuscisse a concordare, anche con l’avallo delle autorità monetarie, un freno a queste politiche recessive. E quale potrebbe essere allora, anche in una fase transitoria, la regola di finanza pubblica alla quale potremmo impegnarci? Una strada prudente e credibile riprende una proposta che avanzai già nel 2006, all’epoca del governo Prodi, e che sfociò in un appello sottoscritto da un’ampia parte dell’accademia italiana. Faccio riferimento alla stabilizzazione del rapporto tra il debito pubblico e il Pil sui valori correnti, nell’orizzonte temporale della legislatura. Secondo questa proposta, il governo potrebbe impegnarsi a controllare il debito pubblico, non nella sua grandezza assoluta ma come quota del Pil, in modo che il valore attuale pari al 127 per cento del Pil risulti confermato al termine teorico della legislatura.
Si tratta di una proposta che assicurerebbe la piena sostenibilità del debito e che libererebbe nell’immediato importanti risorse rispetto al percorso alternativo dell’austerità. Infatti, per stabilizzare il debito pubblico al livello corrente del Pil, il governo dovrebbe fissare conseguentemente il livello dell’avanzo primario, date le stime prudenziali sui livelli attesi della crescita nominale del Pil e del costo medio del debito pubblico. Prendendo per buone le stime di queste grandezze contenute nella “Nota di aggiornamento” redatta dal governo Monti nel settembre scorso, per stabilizzare il debito sarebbero necessari avanzi primari inferiori al 3 per cento del Pil, contro avanzi nell’ordine dei 5 punti percentuali necessari per rispettare le politiche di austerità. Rispetto alla tabella di marcia prevista dalla “Nota di aggiornamento” di Monti (dove si prevede un avanzo che dal 4 per cento del Pil nel 2013 raggiungerebbe il 4,8 nel 2015), già quest’anno la stabilizzazione del debito libererebbe risorse per oltre 20 miliardi di euro.
Nessuno si illude che sia semplice cambiare politica economica in Europa, non fosse altro perché non tutti i paesi subiscono gli effetti deleteri dell’austerità. Ma bisogna muoversi in questa direzione. Prima che sia tardi.