"Luigi, un clown. Così isola Napoli". Intervista a Riccardo Realfonzo

<<Luigi, un clown. Così isola Napoli>>.
Intervista a Riccardo Realfonzo
di Anna Paola Merone
Corriere del Mezzogiorno, 13 agosto 2015


Fondi agli atenei, il contesto conta

Fondi agli atenei, il contesto conta
Nella distribuzione si devono valutare i fattori socio-economici territoriali
di Riccardo Realfonzo
Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2015

Nell’ambito delle politiche di ridimensionamento della spesa pubblica, le riforme universitarie degli ultimi anni hanno assunto un ruolo tutt’altro che trascurabile. Gli interventi sul sistema universitario nazionale sono consistiti in azioni per l’aumento dell’efficienza delle strutture, in riduzioni generali dei finanziamenti e nell’adozione di meccanismi di concorrenza tra gli atenei nella ripartizione delle risorse. Il risultato è che dal 2008 al 2015 il Fondo di Finanziamento per le Università (FFO) è diminuito di circa il 14% a livello nazionale. Si tratta di una riduzione significativa, che oltretutto - come ha opportunamente segnalato il Sole 24 Ore - ha visto le università meridionali perdere il 19% delle risorse mentre quelle settentrionali hanno perso “solo” il 7%.
Nessuno discute che la distribuzione delle risorse debba premiare gli atenei migliori. Vi sono però diffuse perplessità sulla capacità del sistema attuale di valutare adeguatamente il merito degli atenei. Le preoccupazioni a riguardo risultano confermate da vari studi nazionali e anche a livello locale, come evidenziato da una ricerca che abbiamo condotto nell’ambito dell’Osservatorio regionale campano sul sistema universitario, di prossima pubblicazione. La ricerca mostra che il sistema di ripartizione delle risorse penalizza gli atenei del Sud soprattutto perché non tiene conto del difficile contesto socio-economico in cui sono immersi.
Le novità degli ultimi anni in materia di finanziamenti all’università sono essenzialmente due. In primo luogo, si è avviato il superamento del meccanismo di ripartizione delle risorse sulla base della spesa storica degli atenei, introducendo il principio del costo standard. In sostanza, si calcola il costo unitario di formazione per studente e lo si moltiplica per il numero degli studenti di ciascun ateneo. In secondo luogo, è cresciuta rapidamente la cosiddetta “quota premiale” che è ormai giunta a ripartire il 20% dell’FFO.
L’aspetto più significativo del costo standard è che la norma considera solo gli studenti iscritti entro la durata normale del corso di studi, e non anche i fuori corso. Tuttavia, le statistiche ufficiali mostrano che il fenomeno del ritardo negli studi è largamente diffuso al Sud. In qualche misura tali ritardi possono anche dipendere da carenze organizzative delle università, ma appare chiaro che essi sono influenzati in misura rilevante dal funzionamento del mercato locale del lavoro: dove c’è grande disoccupazione gli studenti tendono a rallentare il percorso universitario. Se il costo standard tenesse conto della quota di fuori corso non imputabile alle inefficienze delle strutture universitarie, il sistema eviterebbe di gravare gli atenei del Meridione di una diseconomia ambientale che non si può logicamente imputare ad essi.
Un effetto più dirompente è legato alla quota dell’FFO ripartita su basi premiali. Accanto alla valutazione della qualità dei prodotti scientifici, che continua a destare numerose perplessità nella comunità accademica nazionale e internazionale, le risorse premiali sono allocate in base a indicatori che riguardano anche la capacità degli atenei di attrarre risorse esterne, la quantità di tasse e contributi studenteschi, la mobilità degli studenti. Gli atenei che operano nei contesti meno sviluppati sono naturalmente svantaggiati da questi indicatori. La sperequazione a cui si è giunti è molto forte, in alcuni casi estrema, ed evidenzia più di una lacuna nella capacità del sistema di valutare l’effettiva qualità della formazione e della ricerca che si svolge nelle università. Si tratta di considerazioni che spingono a considerare l’introduzione di indicatori più neutrali, come ha rilevato anche un recente studio della Banca d’Italia.
Per tenere adeguatamente conto dei fattori socioeconomici territoriali, si può ad esempio contemplare un indice delle probabilità di trovare impiego dei laureati in rapporto al contesto (dunque rispetto alla occupabilità dei coetanei non laureati della medesima regione). La classifica che viene fuori è ben diversa da quelle a cui siamo abituati. Nei primissimi posti si trovano l’Università di Catania e la “Federico II” di Napoli. 
L’adozione di meccanismi che incentivino la qualità della ricerca e della formazione è essenziale. Tuttavia, anche alla luce del volume ridotto di risorse complessive dedicate all’università e alla ricerca, è altrettanto necessario adottare indicatori che non penalizzino gli atenei solo perché operano in contesti avversi. Ciò soprattutto nell’interesse dei giovani e del diritto costituzionale allo studio, perché una capacità effettiva di selezionare i migliori è una delle condizioni per dare un buon futuro all’intero Paese.



Un sigillo nuovo ma pochi impegni

Un sigillo nuovo ma pochi impegni
Le parole del leader democrat
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 8 agosto 2015

Meglio tardi che mai. Da oltre venti anni a questa parte, dalla chiusura della Cassa per il Mezzogiorno e dal varo della cosiddetta “nuova programmazione” con le sue politiche di incentivazione delle “vocazioni locali”, la “questione meridionale” era divenuta solo un terreno di confronto per studiosi. Insomma, eravamo rimasti soli, parte di noi meridionalisti, a spiegare che al di fuori di una logica di programmazione economico-territoriale, di risorse adeguate e di capacità amministrative di livello europeo il divario con il Nord del Paese si sarebbe accentuato sempre più. Ora, dando credito a questa segreteria agostana del Pd, sembrerebbe finalmente che la “questione” possa essere sdoganata sul piano della politica economica. Questa pare infatti essere la principale implicazione del discorso del segretario-premier al Pd. Naturalmente, come ha commentato su twitter Antonio Polito, “chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non prende in pegno”. Ma una retromarcia sarebbe ora politicamente molto difficile.
Certo, va chiarito che Renzi non ha assunto impegni precisi, e in apertura di discorso ha sottolineato che non avrebbe fatto annunci a effetto (per quanto abbia toccato anche una serie di aspetti concreti, come la nomina del commissario a Bagnoli e l’impegno a smaltire le ecoballe campane in tre anni). Eppure il senso politico del suo discorso è stato rilevante sotto almeno due aspetti. Il primo riguarda il lungo silenzio della politica economica sul Mezzogiorno. Un silenzio che Renzi, riconoscendo le responsabilità del Pd, ha attribuito essenzialmente al fatto che per molto tempo si è inseguita la Lega Nord nel dibattito intorno alla “questione settentrionale”. Una concausa, aggiungiamo noi, è stata la pessima qualità della classe politico-amministratrice meridionale di questi anni, che ha fornito la peggiore prova di sé, spesso coltivando il clientelismo e rappresentando un interlocutore non credibile. Il secondo passaggio significativo del segretario-premier si è incentrato nel chiarire che se il Sud non riparte è l’intero Paese che resta al palo: il tema della decrescita del Mezzogiorno come questione nazionale.
Possono essere considerati concetti scontati, ma che li abbia pronunciati il Presidente del Consiglio, unitamente a una agenda di lavoro che dovrebbe condurre a un masterplan entro la Legge di Stabilità, è una novità non da poco. Nel Mezzogiorno viviamo un dramma annunciato, che risponde a processi di divaricazione centro-periferia presenti sull’intera scena europea, le cui soluzioni sono note e passano in larga misura per nuove politiche industriali e infrastrutturali. Auguriamoci che la politica voglia effettivamente decidersi a prenderne atto.