"La sinistra si prepari all'uscita dall'euro e difenda occupazione e salario". Intervista a Riccardo Realfonzo



Riccardo Realfonzo: "La sinistra si prepari all'uscita dall'euro e difenda occupazione e salario"
EuroExit.
"In caso di uscita dall’euro bisognerebbe adottare politiche di forte protezione del potere di acquisto dei salari, tipo scala mobile, e investire massicciamente nello stato sociale"
di Roberto Ciccarelli
il manifesto, 21 febbraio 2015

L'Italia torna in deflazione e tocca i minimi da oltre mezzo secolo: dopo la variazione nulla di dicembre, l'indice è sceso dello 0,6% nel confronto annuo, come non accadeva dal settembre del 1959. Riccardo Realfonzo, ordinario di economia e membro del Cda del fondo pensioni Cometa dei metalmeccanici italiani, ha appena pubblicato uno studio sul futuro dell’euro pubblicato dal portale della FIOM. Gli chiediamo qual sia stato l'impatto delle politiche economiche del governo Renzi. “Le politiche di governo non hanno innescato la crescita perché si sono mosse nel solco dell'austerità. Anche la manovra 2015 ha previsto infatti un cospicuo avanzo primario, e quindi un eccesso della raccolta fiscale sulla spesa pubblica di scopo. Considerati i moltiplicatori fiscali, l’impatto della manovra non può che essere restrittivo. Sarebbe stato necessario andare ben oltre il vincolo del 3% sul deficit”.

Berlusconi, Monti, Letta, Renzi: governi diversi che hanno accentuato la crisi e raddoppiato la disoccupazione. Il contratto a tutele crescenti può aiutarci a crescere?
Ci sono innumerevoli studi internazionali, inclusi quelli dell'Fmi, che dimostrano che non esiste alcuna correlazione tra il grado di flessibilità del mercato del lavoro e l'occupazione. Sino ad oggi le deregolamentazioni del mercato del lavoro hanno cambiato la composizione dell'occupazione, riducendo il numero di lavoratori a tempo indeterminato e aumentando quelli a termine. E gli effetti più marcati sono stati quelli di riduzione dei salari. Temo che anche il Jobs Act favorirà la stagnazione salariale, non permettendoci di rilanciare la domanda e la crescita.

Che fare per proteggere i lavoratori da un possibile crollo dell'Eurozona?
Sia chiaro che la strada preferibile in Europa resta quella, politicamente sempre più improbabile, di una radicale mutazione delle politiche economiche, in senso espansivo e redistributivo. Ma se questa inversione di tendenza non si produce, resta valida la previsione che abbiamo elaborato con il “monito degli economisti” pubblicato dal Financial Times, cioè che uno o più paesi escano dall'euro. Questo potrebbe accadere presto alla Grecia e un domani all’Italia.

Lei ha pubblicato uno studio sugli abbandoni degli accordi di cambio del passato seguiti da ampie svalutazioni per comprendere cosa potrebbe accadere oggi a chi esce dall’euro. Ebbene, che insegna l'esperienza storica?
Che le ampie svalutazioni che seguono le crisi valutarie hanno generalmente avuto un impatto positivo sulla bilancia commerciale, favorendo le esportazioni e innescando talvolta processi di crescita significativi. Ma al il mondo del lavoro ha pagato spesso un prezzo molto salato. Infatti, le inflazioni che seguono le svalutazioni hanno ridotto frequentemente in maniera significativa il potere di acquisto dei salari e ancora di più la quota dei salari sul Pil. Anche l’occupazione spesso è restata al palo. Le organizzazioni dei lavoratori e le forze progressiste devono essere ben consapevoli di questi rischi. In caso di uscita dall’euro bisognerebbe adottare politiche di forte protezione del potere di acquisto dei salari, tipo scala mobile, e investire massicciamente nello stato sociale per garantire l'erogazione di beni e servizi in termini reali ai ceti medio abbienti.

Un esempio?
Proprio l'Italia, quando nel 1993 uscì dal sistema monetario europeo (Sme). Dopo due anni dalla crisi i salari  reali si ridussero del 4%, mentre la quota dei salari sul Pil si ridusse quasi del 9%. D’altra parte la svalutazione fu seguita dai famigerati accordi di politica dei redditi, firmati anche dalla Cgil di Trentin, che non tutelarono adeguatamente il potere di acquisto dei salari. Nel caso italiano, la disoccupazione crebbe dal 9,70% all'11,20%. Da non rifare.

L'Italia è pronta per questo scenario?

Il governo insiste sul rispetto di vincoli europei che ci sta portando ad una situazione insostenibile. Assistiamo oggi ad un continuo aumento della disoccupazione, alla caduta dei salari, all'impoverimento del tessuto produttivo. O si ottiene un cambiamento radicale delle politiche europee o bisognerà attrezzarsi ad una uscita dall'euro. Ma che sia all'insegna di nuove politiche industriali espansive e di politiche di salvaguardia dei salari, altrimenti cadremmo dalla padella nella brace.

L'austerità, la crisi dell'euro e la difesa del mondo del lavoro. Realfonzo per la FIOM-CGIL


L’austerità, la crisi dell’euro e la difesa del mondo del lavoro

di Riccardo Realfonzo
portale FIOM-CGIL, 17 febbraio 2015

Dall’inizio della crisi scoppiata sul finire del 2007 il numero dei senza lavoro nell’eurozona è cresciuto di circa sette milioni e la sola Italia ha oltre un milione e mezzo di disoccupati in più. La crisi, però, non ha colpito allo stesso modo le diverse economie del Continente. Si pensi che il numero dei senza lavoro in Germania si è ridotto di circa un milione di unità, mentre in Grecia e Spagna è triplicato. In questi anni, infatti, stiamo assistendo a un forte incremento degli squilibri tra aree centrali e aree periferiche d’Europa.
La rivista on line Economia e Politica, che raccoglie intorno a sé gli economisti italiani più critici verso l’impianto liberista dell’Unione monetaria europea e le sue politiche di austerità, ha approfondito ripetutamente questi temi, anche con un recente articolo su “Eurocrisi: il conto alla rovescia non si è fermato” (pubblicato il 2 dicembre 2014) nel quale si dimostra che l’assetto dell’Unione monetaria europea non ha fatto altro che aumentare la divergenza economica tra gli Stati membri.
Guardiamo ai tassi di disoccupazione, cioè alla quota di persone senza lavoro rispetto al totale della popolazione attiva. La Figura 1 illustra l’andamento dei tassi di disoccupazione di alcuni Paesi appartenenti all’eurozona. Nel 2007, alla vigilia dello scoppio della crisi mondiale, quei tassi erano molto vicini e si potevano osservare differenze di massimo 2, 3 punti percentuali. Successivamente, il divario si è allargato sempre di più. Alla fine del 2013 si è arrivati addirittura ad oltre 20 punti di differenza agli estremi, con alcuni Paesi che hanno ridotto la disoccupazione (si veda la Germania) ed altri che l’hanno raddoppiata (come l’Italia) o addirittura più che triplicata (Grecia e Spagna). E queste tendenze risultano confermate anche dagli ultimi dati ufficiali.

Figura 1
Tassi di disoccupazione nell’eurozona (anni 2007-2013)


Come se tutto ciò non bastasse, l’accentuarsi dei divari tra Paesi centrali e aree periferiche diviene socialmente ancora più insostenibile alla luce dei dati relativi alla distribuzione dei redditi. Prendiamo in considerazione la quota salari sul Pil, che misura la parte della ricchezza complessivamente prodotta nel Paese che va ai lavoratori salariati, che sono naturalmente la grande maggioranza dei soggetti attivi nell’economia (la parte restante va, naturalmente, ai percettori di profitti e rendite). Secondo la Commissione Europea, dal 1990 al 2013 si è assistito a una riduzione progressiva della parte della ricchezza che va ai lavoratori, calata mediamente del 3%. In Germania, ad esempio, la quota salari si è ridotta di tre punti percentuali tra il 1990 e il 2013, fermandosi al 56,7%. In altri Paesi l’impoverimento dei salari a favore dei profitti e delle rendite è anche più marcato. In Italia, ad esempio, la quota del prodotto interno lordo che è andata a remunerare i lavoratori salariati si è ridotta di ben 5 punti, attestandosi al 53,8% a fine 2013.
Queste gravi disparità tra aree centrali e aree periferiche di Europa (tra cui l’Italia) e la distribuzione del reddito che premia sempre più i ricchi e sempre meno i lavoratori non sono fatti casuali. Si tratta al contrario degli effetti delle politiche di austerità che si sostanziano in progressivi tagli della spesa pubblica e dello stato sociale, aggravati dalla presenza di una moneta unica che non consente nemmeno il ricorso alle svalutazioni competitive tanto praticate ad esempio in Italia negli anni ’80.
Ma è ormai chiaro che l’Unione monetaria europea non può reggere a lungo questi squilibri crescenti. Come previsto dal Monito degli economisti pubblicato nel 2013 dal Financial Times, continuando con le politiche di austerità previste dai Trattati europei, la crisi dell’eurozona è solo questione di tempo. I Paesi periferici più in difficoltà potrebbero trovarsi costretti ad abbandonare l’euro. Si pensi al duro braccio di ferro in corso tra il nuovo governo anti-austerity eletto in Grecia e le inflessibili istituzioni dell’Unione europea (Commissione Europea e Banca Centrale Europea). L’uscita dall’euro è una possibilità sempre sullo sfondo.
Attenzione però a considerare l’abbandono dell’euro come la soluzione per tutti i mali. Questa strategia, infatti, di per sé non garantisce affatto gli interessi del mondo del lavoro, a cominciare dalla difesa dei posti di lavoro e dal livello dei salari.
Per comprendere la questione è sufficiente leggere lo studio “Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari”, che ho pubblicato con Angelantonio Viscione sempre su Economia e Politica (il 22 gennaio scorso). In questo lavoro abbiamo provato a effettuare una analisi delle possibili conseguenze di una uscita dall’euro prendendo in esame le esperienze del passato che più si avvicinano alla eventuale euroexit. In particolare, abbiamo studiato le 28 crisi valutarie successive al 1980 che hanno comportato l’abbandono dei precedenti accordi di cambio tra le valute e al tempo stesso ampie svalutazioni (superiori al 25% rispetto al corso del dollaro). Tra questi 28 casi ce ne sono 7 che hanno riguardato economie ad alto reddito come, ad esempio, la maxi-svalutazione italiana del 1993.
La Tabella 1 è tratta da quello studio e mostra gli andamenti del tasso di disoccupazione nell’anno dello scoppio della crisi valutaria, nell’anno successivo e nei due anni successivi. Come si può osservare, vengono indicati gli effetti sul tasso di disoccupazione per tutti i 28 casi considerati, per i soli paesi ad alto reddito (indicati anche uno per uno) e infine per l’insieme dei paesi a basso reddito. Ebbene, come si osserva nella tabella, nonostante l’abbandono degli accordi di cambio e alle successive svalutazioni, nelle esperienze dei Paesi ad alto reddito il tasso di disoccupazione è restato stazionario (intorno al 9,5%). Addirittura, in alcuni casi, come quello italiano, la disoccupazione è sensibilmente aumentata. Mentre risultati un po’ più incoraggianti sotto questo aspetto si sono avuti nelle esperienze dei paesi a basso reddito.
Tabella 1
La disoccupazione dopo la crisi valutaria – Tasso di disoccupazione negli anni successivi alla crisi (anni 1980-2013) Fonte: Ameco – Commissione Europea, Banca Mondiale, Eclac CepalStat


Anche se spostiamo la nostra attenzione alle dinamiche salariali i risultati non sono molto confortanti. Le svalutazioni che seguono l’abbandono degli accordi di cambio rendono infatti la moneta del paese in questione meno costosa in termini delle monete estere. Ciò fornisce normalmente un impulso positivo alle esportazioni e può anche innescare un processo di crescita rilevante, che il nostro studio espone ampiamente.
Tuttavia, al tempo stesso, la svalutazione fa sì che i beni che il paese in questione deve importare dall’estero (ad esempio, materie prime) diventano più costosi. Ciò tende a generare una spinta inflazionistica nei paesi che abbandonano l’accordo di cambio e ovviamente il risultato è che i percettori di salari e pensioni accusano il colpo. L’inflazione infatti riduce il potere di acquisto dei salari e delle pensioni. Come si può osservare nella Tabella 2, infatti, le crisi di cambio storicamente comportano mediamente un iniziale calo dei salari reali (cioè dei salari al netto dell’inflazione e, dunque, il potere d’acquisto dei lavoratori). Soprattutto si riduce gravemente la quota salari sul prodotto nazionale; il che significa che anche una uscita dall’euro potrebbe generare un poco auspicabile spostamento di ricchezza dai lavoratori ai percettori di profitti e rendite.

Tabella 2
Salari reali e quota salari sul pil – Valori cumulati nei tre anni successivi alla crisi valutaria (anni 1984-2013)


Naturalmente, l’esperienza dell’euro è per molti aspetti inedita e per questo ciò che è accaduto nel passato non può gettare luce con certezza sugli esiti di un’uscita dall’euro. Al tempo stesso, però, lo studio delle esperienze storiche rappresenta il modo più serio che abbiamo per valutare in anticipo gli effetti delle scelte che potremmo dovere compiere. E l’esperienza storica ci dice che l’abbandono della moneta unica da parte di un Paese periferico potrebbe costituire una occasione per tornare a crescere, ma che non è un toccasana. È vero che la svalutazione può favorire le esportazioni del paese in questione e ciò tende a favorire la crescita. Tuttavia, i rischi maggiori riguardano proprio il mondo del lavoro, in particolare l’occupazione e i livelli salariali.
Alla luce di tutto ciò, è chiaro che cambiare il segno delle politiche europee sarebbe senz’altro l’opzione migliore. Abbandonare l’austerità in favore di politiche economiche espansive, coordinate sul piano europeo, con investimenti pubblici nelle infrastrutture, in politiche industriali e nello stato sociale costituirebbero la risposta più adeguata alla crisi. Anche per disegnare una Europa più giusta e solidale. Si tratta, però, di una soluzione sempre meno probabile, dal momento che i Trattati europei impongono l’austerità e la Germania, con i suoi paesi-satellite, continua a insistere per le politiche liberiste. Se dunque un Paese periferico, come l’Italia, si trovasse costretto ad abbandonare l’euro è indispensabile che i lavoratori e le loro organizzazioni conoscano a fondo i rischi che corrono in assenza di adeguate politiche di sostegno dei salari e della domanda. In effetti, la lezione più importante che possiamo trarre dall’esperienza del passato è che la tutela degli interessi del mondo del lavoro oggi dipende da come si resta nell’euro e da come, eventualmente, se ne esce. L’assetto attuale dell’Unione europea si sta dimostrando molto ostile al mondo del lavoro, ma una uscita dall’euro senza meccanismi di difesa dei salari e senza politiche espansive per l’occupazione potrebbe non schiudere la strada a un futuro migliore.

“L'insalata populista di Salvini e il vuoto a sinistra”. Intervista a Riccardo Realfonzo


“L'insalata populista della destra di Salvini e il vuoto a sinistra”. Parla Riccardo Realfonzo
L’economista keynesiano boccia il programma economico prefigurato dal leader della Lega. “Una sconfitta regalare alla destra xenofoba e anti-Ue la bandiera del lavoro”.
di Edoardo Petti
Formiche, 15 febbraio 2015

“Meno tasse, meno debito, meno disoccupazione”. È lo slogan con cui il leader della Lega Nord Matteo Salvini ha illustrato sul Foglio il “decalogo” del suo progetto economico. Un programma che copre un ampio spettro di posizioni politiche mescolate grazie a una marcata impronta populista. 
Ma che potrebbe costituire la piattaforma di un’alleanza elettorale con Forza Italia, conferendo al futuro centro-destra un volto protezionista, radicalmente ostile all’euro, anti-liberista, interventista nel mercato, avversario della globalizzazione. 
Formiche.net ha voluto approfondire il tema con l’economista keynesiano Riccardo Realfonzo, professore di Fondamenti di Economia Politica all’Università del Sannio e promotore del “monito degli economisti” pubblicato dal Financial Times. Realfonzo è anche tra quelli che hanno provato a dare una spallata referendaria al Fiscal Compact in Italia.
Come valuta i 10 punti delineati da Matteo Salvini sul Foglio?
Li ritengo una sorta di “pericoloso bestiario”,  ricco di contraddizioni e banalità. Vengono ripresi temi keynesiani come la critica al palinsesto macroeconomico dell’Unione monetaria e alle politiche di austerità, che accentuano la divergenza tra le aree centrali eurozona e le sue periferie, come l’Italia. Ma quei temi sono immersi in considerazioni contraddittorie e fuorvianti, oltre che socialmente inaccettabili.
Il leader del Carroccio propone l’abbandono concordato della valuta unica per recuperare sovranità e flessibilità monetaria favorevole al tessuto produttivo nazionale.
Salvini chiede meno Europa, ma la soluzione preferibile sarebbe esattamente l’opposta. Cioè avere finalmente più Europa, più coesione tra i popoli e quindi più politiche espansive e redistributive anche sul piano territoriale. Solo una svolta radicale delle politiche economiche, con un nuovo massiccio piani di investimenti pubblici, potrebbe rimettere in moto una crescita equilibrata tale da far compiere un salto economico e di civiltà all’Europa. In assenza di una svolta di questo tipo, come abbiamo chiarito con il “monito degli economisti”, l’eurozona non potrà reggere. E in questo caso il rischio per una ulteriore contrazione dei salari sarà elevato. E certamente, proprio nell’interesse dei lavoratori che Salvini chiama in causa, una eurouscita non dovrebbe essere gestita dalle destre. 
Per quale ragione?
Come ho mostrato in uno studio recente, l’uscita dall’euro determinerebbe un forte deprezzamento della nuova moneta e conseguente inflazione, con i redditi da lavoro fortemente penalizzati. In queste condizioni i salari andrebbero difesi tra l’altro con meccanismi tipo scala mobile e con investimenti massicci nel sistema di welfare. Bisognerebbe cioè dare ai lavoratori beni e servizi in termini reali. La Lega Nord propone l’opposto. L’idea di una riduzione complessiva della pressione fiscale e della introduzione della Flat Tax, che è una imposta fortemente regressiva, che cioè pesa meno sui più ricchi, porterebbe al totale smantellamento del welfare e verrebbero del tutto meno le risorse per politiche anticicliche e di coesione territoriale. Insomma, una eurouscita gestita dalla destra di Salvini corrisponderebbe all’inferno del mondo del lavoro e a un ulteriore imbarbarimento delle relazioni sociali nel nostro Paese.
Matteo Salvini prospetta una crescita del gettito fiscale grazie agli effetti virtuosi della tassa sull’economia reale.
Si tratta di ipotesi del tutto prive di fondamenta scientifiche. Salvini sembra riprendere a riguardo, probabilmente senza averne alcuna consapevolezza, le vecchie idee della supply side economics, secondo cui la riduzione delle tasse potrebbe innescare la crescita al punto da aumentare le entrate fiscali. Ma si tratta di tesi abbondantemente smentite dai fatti. Direi che queste posizioni sono molto pericolose sia sul piano sociale sia su quello della tenuta dei conti pubblici.
Peraltro la “tassa piatta” proposta dal leader delle “camicie verdi” non è accompagnata da una visione liberista di tagli radicali della spesa pubblica e riduzione del perimetro dello Stato. E Salvini propugna la nazionalizzazione di industrie strategiche in crisi.
Non vi è neanche un filo di coerenza nel ragionamento di Salvini. Si tratta di un’insalata demagogica e populista che vuole mettere insieme il rancore verso “l’Europa matrigna”, l’esaltazione del “piccolo è bello” – quando noi sappiamo bene che la ridotta dimensione delle nostre imprese è una delle tare del tessuto produttivo italiano – la difesa dell’occupazione e dei salari con strumenti che in realtà li penalizzerebbero, la fede negli effetti “salvifici” del cambio flessibile, l’ostilità verso trattati di libero scambio come il Ttip. La Lega prende e mescola tutto con scaltrezza e spregiudicatezza. Ma sono elementi che non si tengono tra loro. Ma sa cosa mi inquieta di più? 
Cosa?
La pochezza della proposta politica progressista del nostro paese. Penso naturalmente soprattutto al Partito Democratico, che sta lasciando interamente grandi temi come la lotta all’austerità, la critica al quadro macroeconomico europeo, la ridefinizione delle forme dell’intervento pubblico ad appannaggio delle più becere destre populiste, e di personaggi come Salvini. 
La “nuova” Lega Nord può saldare i consensi di un mondo trasversale ostile alla globalizzazione liberista?
Il numero uno del Carroccio coltiva posizioni di chiusura e difesa del locale che sfociano nelle tesi di una destra xenofoba, autarchica, protezionista. Lo fa in forma rozza nei confronti del fenomeno migratorio. E lo argomenta per esempio con furbizia nell’opposizione alla trasformazione delle banche popolari in società per azioni, evocando il pericolo che “esse divengano preda di gruppi finanziari stranieri”. La mia più grande preoccupazione è che le sue tesi, per quanto fragili e contraddittorie, complici l’insipienza della politica progressista e la crisi profonda dei cosiddetti “corpi intermedi”, possano avere un qualche appeal persino nella parte dell’elettorato di sinistra culturalmente meno attrezzato e più arrabbiato. Direi che siamo messi proprio male.

Le sette Università Campane e il CNR creano la Scuola di Governo del Territorio - Tg3 Campania

Le sette Università Campane, il CNR, la Camera di Commercio di Napoli e il Consorzio Promos creano la Scuola di Governo del Territorio
Tg3 Campania, 9 febbraio 2015


Nasce la Scuola di Governo del Territorio

Nasce a Napoli la Scuola di Governo del Territorio
Tutte le Università campane in rete con aziende e centri di ricerca per un progetto di formazione, ricerca e sviluppo occupazionale - La direzione scientifica e didattica affidata a Riccardo Realfonzo
Comunicato stampa (Ansa), 3 febbraio 2015

Le università, le aziende e l’eccellenza della ricerca. Sarà una rete ampia e variegata quella che, su iniziativa del Consorzio Promos Ricerche, per la prima volta mette insieme tutte e sette le Università della Campania, il CNR e la Camera di Commercio di Napoli, per dare vita alla Scuola di Governo del Territorio.
La Scuola, che avrà sede a Napoli proprio presso il Consorzio Promos Ricerche, nasce con l’obiettivo di coinvolgere tutte le eccellenze scientifiche, accademiche ed imprenditoriali presenti sul territorio campano per stimolare sul piano nazionale progetti di ricerca, alta formazione  e sviluppo occupazionale nell’ambito dei piani territoriali e urbanistici e dei programmi di sviluppo economico-territoriale.
Un progetto a tutto tondo, con la direzione scientifica e didattica affidata all’economista Riccardo Realfonzo, presidente del Corso di Laurea in Economia aziendale dell’Università degli Studi del Sannio, che partendo dagli aspetti concettuali, metodologico-sociali, economico-finanziari, ambientali, giuridici e valutativi, rifletterà in particolare sulle nuove esigenze di governance del Paese, anche in relazione alla “rivoluzione” politico-amministrativa delle città metropolitane e ad una serie di emergenze come quelle connesse al rischio idrogeologico. 
Ricerca dunque, ma anche alta formazione per la Scuola di Governo del Territorio, che avrà tra i suoi obiettivi anche l’organizzazione (già in rampa di lancio) di nuovi percorsi di alta formazione (master, corsi di perfezionamento, ecc) sui temi urbanistici, ambientali, economico-amministrativi del governo del territorio, ma anche sulle dinamiche sociali o sugli aspetti produttivi di assoluta eccellenza. Il tutto con il coinvolgimento dei massimi esperti italiani ed internazionali, con l’obiettivo che Napoli diventi un centro nevralgico del dibattito nazionale su questi temi oltre che una meta privilegiata per studenti eccellenti e non più un porto di partenza.
Ma soprattutto, come spiega Lucio d’Alessandro, presidente del Consorzio Promos Ricerche e Rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, “ci sarà una grande attenzione alla creazione di nuove opportunità occupazionali per i tanti laureati eccellenti delle Università campane, perché la creazione di una rete virtuosa che mette finalmente in collegamento il mondo accademico con i migliori centri di ricerca e con le più importanti aziende del territorio, può essere il miglior viatico ad una nuova progettualità, anche con vocazione europea, che sia in grado di attivare uno sviluppo economico del territorio che determini anche una importante crescita occupazionale”.
“L’Alta formazione e l’inserimento dei giovani laureati all’interno delle imprese rappresentano due driver fondamentali dell’attività dell’ente camerale partenopeo - sottolinea il presidente della Camera di Commercio di Napoli, Maurizio Maddaloni. Grazie all’attività della nostra struttura camerale, Promos Ricerche, e alla forte collaborazione in atto con il panorama universitario locale e regionale, possiamo aggiungere un importante tassello alla rete che lega la ricerca e il sistema imprenditoriale napoletano pronto a trasformare il valore aggiunto derivante dall’eccellenza dei giovani laureati in occasioni di sviluppo duraturo del nostro tessuto economico e sociale”. 
Di grande prestigio il Consiglio Scientifico della Scuola composto dai rappresentanti dei diversi Atenei campani e degli enti coinvolti nel progetto: Stefano Aversa, professore ordinario di Geotecnica all’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”, Leonardo Cascini, professore ordinario di Geotecnica all’Università di Salerno, Sergio Marotta, professore associato di Istituzioni e mutamento sociale all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Amedeo Di Maio, professore ordinario di Scienze delle finanze all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, Francesco Domenico Moccia, professore ordinario di Urbanistica all’Università Federico II di Napoli, oltre ai due rappresentanti del Consorzio Promos, Antonio de Santis, già Direttore centrale dell’Agenzia del territorio, e Almerico Realfonzo, professore ordinario di Estimo ambientale all’Università Federico II di Napoli, e ai rappresenti della Camera di Commercio di Napoli, della Seconda Università di Napoli e del CNR. 

Consorzio Promos Ricerche
Camera di Commercio
Consiglio Nazionale delle Ricerche
Le Università della Campania