Tutti i costi del disastro ambientale in Campania

Tutti i costi del disastro ambientale in Campania

Il giro d'affari legato al traffico dei rifiuti dell'ecomafia, gli sprechi enormi dei quindici anni di gestione commissariale, le tasse salate sui rifiuti che strozzano lo sviluppo economico, le sanzioni europee, i costi sanitari e quelli per le bonifiche: il disastro ambientale e quello della politica napoletana, regionale e nazionale in Campania. 

Il mio intervento al Convegno Il disastro ambientale della Campania Felix, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 22 e 23 novembre 2013. L'evento è stato ripreso da Radio Radicale.

Bassolino e Realfonzo cortesemente nemici

In occasione della presentazione del libro di Antonio Bassolino "Le Dolomiti di Napoli"
Scambio di tweet: Bassolino e Realfonzo cortesemente nemici
Il Corriere del Mezzogiorno, 21 novembre 2013



Una sfida per il Pd

Napoli, una sfida per il Pd
di Riccardo Realfonzo
Il Corriere del Mezzogiorno, 19 novembre 2013

C’è una timida speranza che il voto dei giorni scorsi sulla mozione di sfiducia contro l’amministrazione de Magistris, con particolare riferimento ai temi dell’ambiente, possa aprire una nuova pagina politica a Napoli.
Sappiamo che l’esperienza politico-amministrativa di de Magistris è fallita e che il sindaco ha smarrito da tempo quasi tutto il suo consenso. La sua maggioranza, inizialmente solidissima, è ormai risicata, e resiste in un Consiglio Comunale dal clima troppo spesso torbido, grazie al sostegno di qualche transfugo del centro-destra. Molti si interrogano se l’esperienza de Magistris possa effettivamente durare sino al termine naturale dei cinque anni. Difficile a dirsi. Certo, per molti aspetti, sembra di assistere al decadimento della parte finale del decennio iervoliniano – con un Consiglio politicamente delegittimato a rappresentare i cittadini – che in ogni caso non impedì alla Iervolino di portare a termine il mandato.
Sino a ieri, l’unica nota positiva in Consiglio Comunale era rappresentata dalla pattuglia dei tre di Ricostruzione Democratica: Gennaro Esposito, Carlo Iannello e Simona Molisso. Eletti nelle liste che sostenevano il Sindaco e rappresentanti di una parte di quella società civile che aveva scommesso sull’ex magistrato, i tre hanno dovuto prenderne le distanze e passare all’opposizione oltre un anno fa, non appena apparve evidente che de Magistris rinnegava il suo stesso programma elettorale e voltava le spalle ai tanti che avevano creduto in una “rivoluzione” della buona amministrazione.
Sino a ieri, il Pd aveva tenuto un atteggiamento ambiguo su de Magistris e la sua giunta. I consiglieri del Pd avevano sostenuto provvedimenti discutibili e soccorso ripetutamente il sindaco. Il Pd aveva anche avviato le procedure per un referendum sull’operato dell’amministrazione dai contorni poco chiari, poi naufragato. Ebbene, con la mozione di sfiducia presentata dal gruppo di Ricostruzione Democratica c’è stata finalmente una svolta. Di fronte al bivio se votare o meno la sfiducia, il neoeletto segretario cittadino del Pd, Venanzio Carpentieri, ha trovato la forza per fare passare una linea di chiara opposizione al Sindaco. E, tra qualche mugugno, il Pd ha votato compatto la sfiducia. La mozione naturalmente non è passata, ma ha raggiunto il suo reale obiettivo: portare una ventata di trasparenza e di responsabilità politica che fa bene al Consiglio Comunale e fa bene al Pd.
Certo, bisognerà vedere se il Pd sarà capace di mantenere questa linea netta, se i consiglieri la porteranno avanti con trasparenza, se le mille correnti del Pd non la ostacoleranno, se anche dopo l’8 dicembre non interverranno da Roma indicazioni per un qualche mutamento di rotta. Chi non dimentica le gravi responsabilità del Pd partenopeo – dalla cattiva amministrazione del recente passato ai pasticci delle primarie per il Comune – non può che avere perplessità a riguardo. Ma, al tempo stesso, non può non sperare che il passaggio sia gravido di conseguenze positive.
Dal canto suo, quella fetta di società civile che si era schierata con de Magistris – ancora vigile e impegnata, benché attonita e disarticolata per la delusione – dovrebbe fare attenzione a non ripetere gli errori del passato. Mi riferisco naturalmente ad ampi settori del mondo del lavoro e dell’associazionismo, alla residua parte di borghesia cittadina illuminata, alle ampie forze intellettuali come – ma certo non solo – le Assise di Palazzo Marigliano, alla cittadinanza attiva e consapevole. Ebbene, questo nucleo avanzato di società civile che nel passato si è affidato a un solo uomo, de Magistris, nel futuro non dovrà più firmare cambiali in bianco. Bisognerà costruire – anche se ciò costerà grande fatica – un percorso politico-organizzativo per selezionare una nuova classe amministrativa che possa garantire l'attuazione del programma elettorale; un percorso che non potrà restare indifferente alla vicenda del Pd.

Il voto sulla mozione lascia intravedere per la prima volta uno spazio possibile di confronto programmatico nello schieramento progressista tra esponenti della società civile, cominciando da Ricostruzione Democratica, e lo stesso Pd, che dovrà necessariamente coinvolgere le altre forze di sinistra che dentro e fuori il Consiglio Comunale intendono senza ambiguità lavorare seriamente alla costruzione di una prospettiva democratica per la Napoli del dopo-de Magistris. Una pagina nuova si aprirebbe davvero se anche il Pd, in un rigoroso slancio di rinnovamento, facesse tesoro dell’esperienza del recente passato e si aprisse davvero alla nuova soggettività sociale cresciuta in questi ultimi anni. Qualcuno scommette sul fatto che il Pd sarà in grado di raccogliere questa sfida?

La battaglia in Europa per dare una scossa all'economia

La battaglia in Europa per dare una scossa all'economia
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 12 novembre 2013

Le dichiarazioni del presidente Letta, in visita a Malta, fanno sperare che il governo stia aprendo gli occhi sulla necessità di cambiare indirizzo di politica economica. Letta ha affermato che in Europa bisognerebbe fermare le politiche di austerità e che vorrebbe dedicare il semestre di presidenza italiana alla elaborazione di una strategia per la crescita. L’auspicio è che anche nelle stanze del governo ci sia chiarezza sul fatto che, al di là delle fantasiose previsioni governative di crescita per il 2014, i vincoli europei impediscono di costruire una Legge di Stabilità che rilanci l’economia. Questo è ciò che pensa quella parte del mondo scientifico che non ha mai subito il fascino della “teoria dell’austerità espansiva”; e questo è ciò che emerge dalle posizioni espresse dalle parti sociali. A riguardo, è sufficiente leggere le dichiarazioni del presidente di Confindustria Squinzi, per il quale non può esserci crescita dentro il vincolo del deficit al 3%.
Un qualche effetto lo avrà avuto anche il dibattito di questi giorni sulla paradossale violazione dei vincoli europei sul commercio con l’estero da parte di alcuni tra i paesi più prosperi, Germania in testa, di cui pare essersi accorta (buon’ultima) la Commissione Europea. È ben noto che la Germania sta praticando una politica mercantilista, votata alla continua espansione del proprio surplus commerciale. Questo obiettivo è stato tenacemente perseguito con politiche di austerità che hanno collocato il deficit pubblico molto al di sotto del limite del 3%, ed anche con politiche di contenimento salariale che hanno determinato una crescita dei salari tedeschi di venti punti inferiore alla media europea (dati Commissione Europea). Il risultato è che la Germania ha contratto la sua domanda di prodotti europei e ha accresciuto molto le sue esportazioni, facendo l’esatto contrario di ciò che il paese più ricco dovrebbe fare, cioè agire da locomotiva della domanda europea. Così ha accumulato avanzi commerciali intorno al 7% del pil violando ampiamente il limite, già tanto elevato da essere quasi inesistente, del 6% stabilito dai trattati. L’economia tedesca ha potuto così mettere in moto un forte sviluppo trainato dalle esportazioni, che però scarica il suo prezzo sul resto d’Europa, specie quella periferica, Italia inclusa. È così che, da quando è scoppiata la crisi, la Germania si è ripresa efficacemente, al punto che il valore della produzione nazionale è cresciuto in termini reali di circa 5 punti percentuali e la disoccupazione è scesa di circa un terzo. Mentre noi abbiamo perso il 9% del pil, raddoppiato la disoccupazione e vediamo crescere le insolvenze delle imprese a un ritmo di quasi il 20% (dati Creditreform).
È chiaro dunque che la politica economica tedesca approfondisce gli squilibri dell’area euro e viola gli impegni assunti con il Six Pack. Così come è chiaro che il sistema di vincoli europei e le cosiddette “riforme strutturali” non stanno modernizzando l’Italia né le altre periferie europee. Stando così le cose, anche gli emendamenti alla Legge di Stabilità, pur necessari, non riusciranno ad alterare la sua natura. Per ridare fiato all’economia bisognerebbe trovare la forza di guidare il Paese oltre i limiti europei, superando il vincolo del 3%. La proposta è quella che avanzai già su queste colonne nel maggio scorso. Occorrerebbe impiegare un volume di risorse pari all’avanzo primario – l’eccesso delle entrate sulle spese pubbliche, esclusi gli interessi sul debito – per finanziare politiche industriali e abbattere significativamente il cuneo fiscale, rilanciando domanda interna ed esportazioni. La manovra ammonterebbe a circa 2,5 punti di pil, cioè oltre 35 miliardi di euro, porterebbe il nostro rapporto deficit/pil intorno al 5,5% e avrebbe un effetto di rilievo sulla crescita, aumentando rapidamente l’occupazione. Per comprendere l’impatto della manovra occorre stimare il valore del moltiplicatore della politica fiscale, che secondo alcuni studi relativi all’Italia in condizioni recessive sarebbe intorno a 2. Assumendo più prudentemente il valore medio (pari a 1,3) dell’intervallo calcolato dal capo economista del FMI, Olivier Blanchard, si stima che questa manovra spingerebbe in alto il pil italiano di tre punti percentuali, rilanciando davvero la crescita. Inoltre, gli incrementi di deficit e debito sarebbero in buona misura riassorbiti dall’aumento stesso del pil, che abbatte i rapporti di finanza pubblica, e dal conseguente incremento della raccolta fiscale (almeno un punto di pil).
Per rendere politicamente praticabile questa ricetta non si può attendere il semestre di presidenza italiana. La crisi morde da troppo tempo e la fiducia verso l’Europa unita è ai minimi storici. Occorre agire adesso.

Per salvare il Mezzogiorno

Per salvare il Mezzogiorno
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 6 novembre 2013


Per quanto occorra riconoscere al ministro Trigilia grande impegno ed anche qualche primo risultato, le politiche di coesione sono lontane dal produrre le condizioni per una inversione di rotta del nostro Mezzogiorno, che continua ad allontanarsi dal resto del Paese.
Come dicevo, alcuni risultati non mancano. Mi riferisco ai dati recenti sulla spesa dei fondi europei, stando ai quali – pure in un quadro di smaccate lentezze burocratiche – le regioni del Mezzogiorno starebbero rispettando i target di spesa e c’è la possibilità che a fine anno riescano ad evitare la perdita di risorse. Inoltre, è importante l’approvazione in via definitiva della legge che istituisce L’Agenzia per la Coesione Territoriale, voluta prima da Barca e poi da Trigilia. Ciò significa che la programmazione dei fondi europei per il 2014-2020 si avvarrà di uno strumento che dovrebbe velocizzare la spesa e migliorarne la qualità, e anche sostituirsi agli enti di gestione ritardatari o inadempienti.
A ben vedere, l’Agenzia si colloca al centro dell’azione strategica di Trigilia, il quale è concentrato sui fondi europei e sul modo in cui essi vengono spesi. Il ministro non fa mistero che la sua impostazione prende le mosse da un giudizio grave sul modo in cui nel Mezzogiorno vengono generalmente spese le risorse pubbliche. Nella sua visione, come ha ribadito nella recente conferenza ai Lincei, il Mezzogiorno si presenta come un’area a basso capitale sociale, a ridotto senso civico, nella quale le risorse pubbliche sono utilizzate troppo spesso a fini clientelari, il che rappresenta un ostacolo allo sviluppo economico e fa prosperare i sistemi criminali. Che la spesa pubblica nel Mezzogiorno sia di pessima qualità e che i sistemi clientelari siano estremamente pervasivi è ben difficile negarlo, come ho avuto modo di denunciare pubblicamente a più riprese io stesso, a seguito della mia breve stagione di assessore tecnico al bilancio a Napoli. Ben vengano, quindi, tutti i controlli e i poteri sostitutivi invocati da Trigilia.
Se però il discorso si limitasse alla sequenza clientele-scarsa qualità della spesa-controlli, ci perderemmo una bella fetta di verità. Sarebbe illusorio pensare che il migliore utilizzo possibile dei fondi europei potrebbe da solo tirare il Mezzogiorno fuori dal sottosviluppo. E questo soprattutto perché le risorse a disposizione sono terribilmente scarse. I dati ufficiali, infatti, ci mostrano inequivocabilmente che: la spesa pubblica per cittadino del Mezzogiorno è ben inferiore alla media italiana; gli obiettivi relativi alla spesa per investimenti non sono stati raggiunti; i tagli alla spesa pubblica operati negli ultimi anni hanno colpito soprattutto il Mezzogiorno; l’utilizzo dei fondi europei ha sempre più una natura sostitutiva rispetto all’intervento nazionale. Per avere una chiara idea di quanto affermo può essere utile ricordare il caso della politica di coesione di successo registrato in Germania. In quel Paese, infatti, dopo la riunificazione avvenuta nel 1990, è stato possibile dimezzare la differenza tra i redditi pro capite degli abitanti dell’est e quelli dell’ovest, a costo però di uno stanziamento colossale di risorse che, tra investimenti in infrastrutture e spesa sociale, viene quantificato in oltre 1600 miliardi di euro. A confronto, le risorse per il Mezzogiorno sono briciole. E questo forse può aiutarci anche a capire perché, senza che ciò scalfisca minimamente la nostra condanna etico-morale, tanta parte della politica meridionale insegua le clientele per mantenere il consenso.
Né si può pensare che dove le risorse mancano possano sopperire le cosiddette riforme strutturali. Basti solo osservare che i salari nel Mezzogiorno sono già su livelli greci e la bilancia commerciale meridionale continua a essere in profondo rosso. Né si può davvero ritenere che, dopo le derive clientelari sui cui pure opportunamente si sofferma Trigilia, si possano rilanciare le logiche di incentivazione dal basso, i partenariati locali e gli strumenti della programmazione negoziata.
Insomma, il Mezzogiorno ha un disperato bisogno di spesa pubblica di qualità, come sostiene il ministro, ma avrebbe un altrettanto disperato bisogno di maggiori risorse, anche per praticare tagli non irrisori del cuneo fiscale. Il tutto da inserire in un rinnovato quadro di politiche industriali che provasse finalmente a fare compiere al tessuto produttivo un salto tecnologico e dimensionale. Inutile dire che tutto ciò appare solo una chimera nel quadro attuale dei vincoli europei. E qui casca l’asino: perché il primo ineludibile punto di una agenda politica per i Mezzogiorni d’Europa non può che essere la ridefinizione in chiave espansiva delle politiche economiche dell’Unione Monetaria.