Appesi allo Sblocca Italia

Appesi allo Sblocca Italia
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 24 agosto 2014

Le cronache estive hanno confermato che l’Italia resta nel tunnel della crisi, facendo anche peggio del resto dell’eurozona, e il governo prova a correre ai ripari. Stando agli annunci di Renzi,  in settimana dovrebbe arrivare il decreto Sblocca Italia, cui sono affidate alcune misure per rilanciare gli investimenti pubblici e privati; poi il primo ottobre avremo la nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza 2014, cui il governo non intende accompagnare alcun intervento correttivo; e sempre a ottobre arriverà l’impianto della manovra per il 2015, che invece nelle intenzioni del governo dovrebbe prevedere una correzione dei conti pubblici di oltre 20 miliardi di euro, di cui ben 17 (oltre un punto di pil) mediante tagli alla spesa. Nello scenario che si va delineando, per il Mezzogiorno potrebbero esserci diverse novità: qualcuna positiva, qualcuna di effetto dubbio e altre molto preoccupanti.
Tra le notizie positive vi è la possibilità che lo Sblocca Italia possa rimettere in moto, attraverso commissariamenti e semplificazioni, alcune rilevanti opere pubbliche, annunciate e ferme da tempo, come l’atteso asse ferroviario Napoli-Bari. E dovrebbe finalmente prendere il via anche l’Agenzia per la Coesione Territoriale (cui però si è attribuita una natura troppo burocratico-amministrativa) che avrà il compito cruciale di migliorare la capacità di spesa dei fondi europei. Si tratta di un tema del massimo rilievo, se si pensa che dall’intera programmazione 2007-2013 dovrebbero essere teoricamente ancora disponibili per la spesa 13 miliardi per il 2014 e 17 per il 2015 (dati Svimez).
Molto più discutibile sarebbe invece l’effetto di un intervento, su cui il governo pare essere al lavoro, finalizzato a ridurre drasticamente il numero delle società partecipate dagli enti locali. Tutti sanno che queste società erogano talvolta servizi scadenti e possono essere il canale privilegiato per oscure reti clientelari. Ma, come l’esperienza insegna, è anche vero che il ricorso generalizzato alle privatizzazioni ha spesso effetti controproducenti, spogliando le comunità locali del controllo su servizi pubblici importanti (specie quando realizzate nel Mezzogiorno), generando aumenti delle tariffe, non garantendo i livelli occupazionali e salariali, con il risultato di acuire la crisi.
Tra le notizie certamente preoccupanti c’è il fatto che la manovra 2015 sembra delinearsi, sul piano della finanza pubblica, in continuità con il recente passato. Vi è insomma il rischio concreto che, nonostante la crisi e gli appelli per manovre espansive, il governo proceda con ulteriori politiche di austerità. Dal 2010 ad oggi, i governi italiani hanno effettuato manovre correttive (i cosiddetti “consolidamenti fiscali”) per poco più di 100 miliardi di euro, tra tagli della spesa pubblica e aumenti della pressione fiscale. E la crisi si è aggravata. Inoltre - questo è un dato che viene spesso trascurato - quei tagli della spesa pubblica (che deprimono l’economia anche più degli aumenti delle tasse) hanno colpito proporzionalmente più il Mezzogiorno che il Centro-Nord: hanno infatti pesato per il 5,5% sul pil meridionale e solo per il 2,8% su quello centro-settentrionale. Se il governo intendesse procedere ancora lungo questa direzione, non potranno esserci commissariamenti, semplificazioni ed eventuali privatizzazioni “azzeccate” che faranno uscire l’Italia e ancor più il Mezzogiorno dal tunnel.

"Non si cresce tagliando la spesa". Intervista a Riccardo Realfonzo

"Non si cresce tagliando la spesa". Intervista a Riccardo Realfonzo
di Roberto Ciccarelli
il manifesto, 7 agosto 2014

Siamo in recessione. Nel primo semestre del 2014 il pil si è ridotto dello 0,3% e a fine anno il governo rischia di far lievitare il rapporto deficit/pil oltre il 3%. 
Professore Riccardo Realfonzo, ordinario di economia all'Università di Benevento, dopo appena 200 giorni, siamo alla caporetto economica di Renzi?
Il punto è che l’impianto complessivo del Documento di Economia e Finanza del ministro Padoan si è posto in continuità con il passato. E oggi risulta ancora più evidente che io e altri avevamo ragione nel chiedere una discontinuità, una azione espansiva che rilanciasse l’intervento pubblico in chiave anti-crisi, andando oltre i vincoli europei sul deficit. E dire che lo stesso Renzi aveva attaccato i vincoli europei a inizio anno, definendoli “superati” e sottolineando la necessità di proporre una svolta keynesiana. Poi però Padoan ci ha presentato la solita vecchia ricetta: rispetto dei vincoli europei e tagli alla spesa pubblica come strumento per risanare i conti. E così ci troviamo sempre di fronte agli stessi risultati cui assistiamo dallo scoppio della crisi del 2007. Le politiche che puntano a generare avanzi primari, cioè eccessi del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, accentuano la recessione e la disoccupazione, finendo per peggiorare anche i conti dello Stato. È sempre più urgente cambiare le politiche economiche.
L'Ue nicchia sul rinvio del pareggio di bilancio al 2016, il governo nega la manovra correttiva in autunno. L'unica soluzione è una sassata da 30 miliardi in autunno. Chi sarà colpito?
Una manovra con nuovi tagli alla spesa sarebbe una iattura, approfondirebbe ancora la crisi. La spesa pubblica italiana, pur avendo al suo interno intollerabili privilegi e gravi sacche di spreco, è già inferiore ai valori medi europei. In particolare, la spesa sanitaria, per l'istruzione, per il sostegno ai redditi dei cittadini meno abbienti. Ulteriori tagli cancellerebbero diritti sociali e ridurrebbero ancora la domanda. E ciò metterebbe in ulteriore difficoltà le imprese, che già soffrono per l’assenza di politiche industriali. Non si torna a crescere continuando a tagliare.
Le «riforme» chieste dall'Europa servono a curare la recessione?
Le riforme utili riguardano la riorganizzazione della macchina statale e la conseguente riqualificazione della spesa pubblica. Se, invece, il riferimento fosse a ulteriori liberalizzazioni del mercato del lavoro, allora cadremmo in nuovi errori. Molti studi che esaminano gli effetti della riduzione del grado di protezione del lavoro sull’occupazione dimostrano che queste liberalizzazioni non riducono la disoccupazione e non aumentano la competitività delle imprese.
La Bce chiede all'Italia «aggiustamenti strutturali»…
Piuttosto che dare indicazioni ai governi, le autorità monetarie dovrebbero disporsi a operare come la FED statunitense: soprattutto in recessione, sarebbe necessario che finanziassero direttamente la spesa pubblica. Purtroppo, in Europa prevale un modello di banca centrale di tipo tedesco e la BCE si guarda bene dal sostenere le politiche anticicliche dei governi.
Queste politiche accomodanti non creano bolle finanziarie che esplodono con effetti devastanti?
È un rischio che può essere evitato con politiche monetarie coordinate con le politiche fiscali. Ma restiamo ai fatti: oggi gli Usa hanno un Pil che è circa 9 punti più alto rispetto allo scoppio della crisi del 2007, mentre nell'Eurozona siamo ancora due punti sotto.
Si può uscire dal paradigma dell'«austerità espansiva» per cui servono ancora misure fiscali restrittive per ottenere la crescita? 
Certo, come stanno facendo gli USA e il Giappone. La difficoltà consiste nel fatto che i dogmi dell’austerità sono radicati nelle tecnocrazie europee e in particolare tra i banchieri centrali. E i popoli di Europa sino a oggi hanno finito col subire la volontà di soggetti e istituzioni in deficit di legittimazione democratica.