Il Mezzogiorno nella crisi, viene da dire "fujtevenne"

Viene da dire "fujtevenne"
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 31 luglio 2014

Scappatevene dal Mezzogiorno, “fujtevenne”, avrebbe ripetuto Eduardo De Filippo. E nessuno potrebbe restare immune da questa tentazione leggendo il Rapporto Svimez. Il Mezzogiorno è ormai un deserto sociale ed economico, in cui lo Stato investe sempre meno e taglia sempre più, le imprese falliscono, le famiglie cadono in miseria, le donne risultano estranee al mercato del lavoro, i giovani sono disoccupati e nel migliore dei casi precari, la popolazione sempre più anziana. Una realtà dalla quale, non c’è da meravigliarsi, negli ultimi dieci anni oltre un milione e mezzo di persone sono scappate via.
I numeri sono da brivido e non ammettono contraddittorio. Basti pensare che ormai il reddito medio di un meridionale vale poco più del 55 per cento di quello di un abitante del resto d’Italia: come accadeva nella metà degli anni ’50, come se l’intervento per il Mezzogiorno fosse stato del tutto assente o inutile. Oppure, basti pensare che nel solo 2013 si sono persi 280 mila posti di lavoro al Sud e le famiglie in condizione di povertà assoluta hanno così largamente superato il milione.
Una condizione a dir poco drammatica che, come correttamente rileva la Svimez, trova una parte della spiegazione nelle politiche economiche all’insegna dell’austerità con le quali i governi nazionali hanno reagito alla crisi scoppiata sul finire del 2007. In altri termini, la condizione del Mezzogiorno è risultata ampiamente aggravata dal fatto che, anziché sostenere l’economia, complici i famigerati vincoli europei, i governi hanno sottratto risorse, tagliando la spesa pubblica e aumentando il prelievo fiscale. Al Sud ancora più che al Nord. Si pensi che nel quadro di queste politiche i soli cittadini della Campania, ad esempio, hanno ceduto tra il 2010 e il 2014 poco meno di 9 miliardi di euro, tra meno spesa pubblica e più tasse. Con un effetto particolarmente doloroso per ciò che riguarda il taglio della spesa pubblica per le infrastrutture a sostegno dei cittadini e delle imprese, che addirittura misura oggi solo la quinta parte dei valori registrati mediamente negli anni ’70.
Le politiche economiche nazionali hanno quindi finito per alimentare il crollo della spesa delle famiglie per beni di consumo e ciò ha ulteriormente accentuato la spirale recessiva. Se mettiamo nel conto anche le difficoltà nell’accesso al credito, si comprende come mai le imprese abbiano bloccato totalmente gli investimenti produttivi, che infatti si sono più che dimezzati rispetto al periodo pre-crisi.
L’analisi chiarisce due cose su tutte che non vanno dimenticate. La prima è che non potrà esserci una ripresa stabile e duratura dell’economia italiana nel suo insieme senza un rilancio del Mezzogiorno; e questo non potrà avvenire senza un disegno lucido di politica industriale, adeguatamente finanziato, a sostegno della competitività delle imprese del Sud. La seconda è che la crisi economica si alimenta moltissimo nelle colpe del ceto politico meridionale: basti pensare all’imperdonabile ritardo con cui vengono spesi i fondi europei e al modo in cui essi vengono dispersi in mille rivoli, spesso al servizio delle clientele e non del tessuto produttivo. Insomma, senza maggiori risorse e una classe dirigente capace di spenderle per la crescita economica, la desertificazione meridionale risulterà un processo inarrestabile.

Un referendum contro l'austerità. Intervista a Riccardo Realfonzo

Un referendum contro l'austerità. Intervista a Riccardo Realfonzo
di Alessio Viscardi
Fanpage, 29 luglio 2014

Quattro "sì" per dire "no" all'austerità. Il proposito del movimento raccoltosi attorno all'economista ed ex-assessore al Bilancio del Comune di Napoli, Riccardo Realfonzo, è quello di chiamare alle urne gli italiani per chiedere l'abolizione del pareggio di bilancio costituzionale e la fine dei vincoli dettati dalle direttive europee del fiscal compact.


Di austerità si muore

Di austerità si muore
di Riccardo Realfonzo
Rassegna Sindacale, 17-23 luglio 2014

Il settimanale della Cgil dedica il numero al referendum stop austerità ed apre con l'editoriale di Riccardo Realfonzo.

Gli economisti sempre più frequentemente denunciano gli effetti recessivi delle politiche di austerità, cioè di quelle manovre di politica economica finalizzate a determinare un volume delle entrate fiscali complessivamente maggiore della spesa pubblica. La “teoria dell’austerità espansiva”, che negli anni passati era stata sostenuta da molti, per quanto immediatamente respinta da noi economisti keynesiani, è ormai sempre più accantonata. Secondo quella teoria, i consolidamenti fiscali (appunto gli eccessi del prelievo fiscale sulla spesa pubblica) determinavano nei consumatori e nelle imprese aspettative positive di riduzione dei tassi di interessi e della pressione fiscale per il futuro; e ciò avrebbe alimentato la domanda attuale di merci e servizi, favorendo la crescita economica e l’aumento dell’occupazione. Quella teoria naturalmente ben si conciliava con il sistema di vincoli europei, e in particolare con il Patto di Stabilità, secondo il quale il deficit pubblico deve necessariamente rimanere contenuto entro il 3% del Pil; ed anche con il cosiddetto “fiscal compact”, stando al quale il bilancio pubblico deve essere mantenuto strutturalmente in equilibrio (cioè in pareggio tra entrate e uscite, al netto delle variazioni dovute al ciclo economico) e il debito pubblico deve essere abbattuto in venti anni al valore considerato “ottimale”, pari al 60% del pil.
Oggi, dopo essere stata sommersa dalle critiche degli economisti di formazione keynesiana, da sempre sostenitori di una regolazione pubblica del ciclo economico, anche gli istituti di ricerca più vicini all’“ortodossia economica” chiariscono che l’“austerità espansiva” non funziona. Come ad esempio il FMI, che è giunto, in uno studio del 2012, a sostenere che i tagli della spesa pubblica riducono drammaticamente il Pil. Con specifico riferimento al caso italiano, gli studiosi del FMI hanno calcolato che un taglio della spesa di 10 miliardi di euro abbatte il Pil in modo più che proporzionale, in media di ben 18 miliardi di euro.
Ma, al di là del dibattito tra gli economisti, è la realtà dell’economia che si preoccupa di smentire categoricamente l’idea che l’austerità possa alimentare la crescita. A riguardo è sufficiente porre a confronto quanto accaduto in questi anni nell’eurozona e negli USA. Come è ben noto, queste due economie hanno reagito in modo diverso alla crisi scoppiata nella seconda metà del 2007. Nell’eurozona i governi si sono mossi nella cornice restrittiva delle regole europee, arginando fortemente la tendenza automatica alla crescita della spesa pubblica che sempre si determina in condizioni di crisi (perché, soprattutto, tende ad aumentare complessivamente la spesa per gli ammortizzatori sociali). Negli USA invece, si è attuata una politica aggressiva. Il presidente Obama ha varato il famoso Recovery Act, impiegando – grazie al pieno sostegno della Federal Reserve Bank, che non ha esitato a finanziare la spesa pubblica – oltre 800 miliardi di dollari per politiche industriali, interventi infrastrutturali, sostegno dei redditi. I risultati delle politiche economiche alternative praticate nelle due realtà non potevano essere più diversi. L’eurozona di oggi realizza un Pil che è ancora inferiore rispetto al dato del 2007 di circa un punto e mezzo, con la disoccupazione che è aumentata del 65% (da 11,6 milioni del 2007 a oltre 19 milioni a fine 2013). Negli USA, invece, il Pil supera di 8 punti percentuali il dato di fine 2007.
La verità quindi è che le politiche di austerità hanno tagliato le gambe alla crescita, impedendoci di uscire dalla crisi, ed hanno anche contributo ad incrementare la divergenza tra i paesi dell’eurozona.
Quel che è peggio è che i trattati europei ci impegnerebbero in questa direzione anche per il futuro. Allo stato delle cose, infatti, il governo ha costruito una manovra economica (con il Documento di Economia e Finanza – DEF – varato nell’aprile scorso), che punta a tenere il deficit pubblico sotto il 3% del Pil, a raggiungere l’equilibrio strutturale del bilancio nel 2016 e ad abbattere progressivamente il debito pubblico portandolo al 60% del Pil in venti anni. Quest’ultimo risultato lo si ottiene accumulando avanzi primari – cioè eccessi delle entrate fiscali sulla spesa pubblica di scopo (interessi esclusi) – sempre più ampi: dal 2,6% previsto per il 2014 al 5% del 2018, e così continuando per venti anni. Si tratta di un quadro di politica economica disastroso. Come ho infatti mostrato in uno studio pubblicato da www.economiaepolitica.it, ci sono molte ragioni per ritenere che una manovra di questo tipo non sia economicamente e socialmente sostenibile. Qui basti sottolineare che la differenza tra prelievo fiscale e spesa pubblica di scopo dovrebbe essere portata nel 2018 alla cifra astronomica di 90 miliardi di euro e che – a meno di non credere nel dogma dell’austerità espansiva – ben difficilmente una manovra di questo tipo potrà essere compatibile con la crescita reale piuttosto sostenuta prevista nel DEF per quell’anno, pari all’1,9%. Viceversa, adottando stime dei moltiplicatori come quelle contenute nello studio prima citato del FMI, si arriverebbe alla conclusione che la manovra di abbattimento del debito pubblico prevista dal fiscal compact generebbe effetti sociali ed economici insostenibili.
A queste osservazioni sulla inefficacia delle politiche di austerità, e sui rischi ad esse connesse, si aggiungono le perplessità sull’effetto espansivo delle tanto attese riforme, che dovrebbero affiancare le politiche fiscali, con riferimento particolare al mercato del lavoro. Gli studi più recenti (e qui nuovamente rinvio a un contributo di Tortorella Esposito e mio apparso su www.economiaepolitica.it) permettono di sottolineare che dal 1990 ad oggi le politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro non hanno sortito effetti occupazionali positivi. A questa conclusione si giunge esaminando l’andamento dell’indice di protezione del lavoro (EPL) elaborato dall’OCSE, per i diversi paesi dell’eurozona, ed  incrociando con metodologie consuete i dati con i tassi di disoccupazione. La conclusione è che la ricerca di una crescente flessibilità del mercato del lavoro non ha generato gli esiti sperati. In sostanza, non vi è alcuna correlazione apprezzabile tra flessibilità del lavoro e occupazione. E questa è, si badi bene, una conclusione che risulta confermata anche se ci si concentra sull’indicatore di protezione del lavoro a termine (EPT).
Ne scaturisce un quadro molto preoccupante, i cui rischi economici e sociali sono evidenti. E ciò resta confermato anche se si considera l’eventualità che – sotto la pressione del governo italiano e di altri governi europei – le autorità dell’Unione si accordino per uno scambio tra riforme e una sorta di “austerità flessibile”, cioè la concessione di qualche margine temporale e di spesa in più impiegando al massimo i risicati gradi di libertà presenti nei trattati. Una “austerità flessibile”, che non altererebbe le linee di fondo e gli obiettivi austeri previsti nei trattati, non sarebbe certo sufficiente a rilanciare l’economia italiana e quella europea verso un sentiero di crescita sostenuta ed equilibrata.
Ed è per tutte queste ragioni che occorre sostenere il referendum “stop austerità”. Naturalmente, il referendum si muove entro i limiti costituzionali e quindi non può abrogare trattati internazionali né può cancellare il principio di pareggio del bilancio introdotto in Costituzione. Però può annullare quel sovrappiù di rigore che assurdamente abbiamo inserito nella legge 243 del 2012, attuativa del principio costituzionale. E soprattutto, attraverso la discesa in campo del popolo sovrano, può porre uno stop alle tecnocrazie europee e chiedere che finalmente si prenda atto del fallimento delle politiche di austerità e della necessità di cambiare strada in Europa. Sarebbe un risultato politico di enorme rilievo. Da conseguire prima che le emergenze sociali mettano seriamente a rischio la tenuta dell’eurozona e con essa lo straordinario progetto di unità tra i popoli d’Europa. 

L'austerity nuoce gravemente alla salute


L'austerity nuoce gravemente alla salute. Una conversazione tra amici alla radio, per prendere le opportune precauzioni.

Conversazione con Federico Libertino (segretario generale Cgil Napoli) e Riccardo Realfonzo (comitato  promotore del referendum stop austerità). Moderano Norberto Gallo e Mario Colella.

Come pecore in mezzo ai lupi, 18 luglio 2014

Napoli contro l'austerità. Realfonzo al Tg3 Campania

Napoli contro l'austerità
Napoli sceglie di crescere. Parte la raccolta di firme per il referendum stop austerità. Ai microfoni Federico Libertino (segretario Cgil Napoli) e Riccardo Realfonzo (comitato promotore nazionale).
Tg3 Campania, 13 luglio 2014


Napoli, la tarantella del bilancio

La tarantella del bilancio
I conti di Napoli che non tornano nel rendiconto 2013
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 19 luglio 2014

La situazione dei conti del Comune di Napoli è grave, ma non è seria. Da anni ormai sappiamo tutti, inclusi i muri di Palazzo San Giacomo e i bimbi che giocano in strada, che i conti non tengono, ma non c’è chi si decida ad affrontare la cosa con responsabilità.
Sul finire del suo mandato, quattro anni or sono, la sindaca Iervolino ricordava che lei aveva formalmente chiusa la procedura di dissesto del Comune, scattata nel lontano 1993, e che ormai i conti erano in ordine. Siccome qualche scettico pure c’era, lei ventilò la possibilità di sottoporre i conti a una società specializzata, che ne asseverasse la qualità. Curiosamente, quell’asseverazione non arrivò. Arrivammo invece noi, col sindaco arancione, e in cassa non trovammo praticamente il becco di un quattrino. Al punto che, appena un mese dopo il nostro insediamento, gli stipendi dei comunali furono pagati con alcuni giorni di ritardo: il tempo che ci volle per raggranellare i soldi. Il Comune era sull’orlo del fallimento. Ciononostante, l’attuale sindaco credette più al suo predecessore che a me, né consulto i muri del Palazzo né si rivolse ai bimbi in strada, e le grida d’allarme si persero nel vento. Quando poi io ebbi l’ardire, col sostegno del rigoroso Narducci, di imporre una delibera che obbligava a una verifica radicale dei conti, si decise che era meglio mettere in squadra qualcuno più ottimista. E chi più adatto di colui che negli ultimi due anni aveva certificato che i conti erano ok?
Intanto, però la quella delibera  faceva il suo corso e portò alla quantificazione di un buco di bilancio da 850 milioni. Ovviamente, nessuno si stupì. Tranne, forse, il sindaco.
Venne allora il tempo degli appelli disperati, dei consigli comunali a Montecitorio, e le richieste di aiuto al governo furono riprese dal cassetto. Il pianto partenopeo colpì persino le corde dell’austero presidente Monti, che varò prima il decreto salva-Napoli e poi quello per pagare i debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese. E ciò aprì le porte a un flusso di denaro a favore del Comune di Napoli di quasi un miliardo di euro, una cifra che i sindaci Bassolino e Iervolino non avevano mai nemmeno sognato. Beninteso, si tratta di prestiti che i cittadini di Napoli dovranno rimborsare negli anni a venire, in parte anche con gli interessi. Ma questo è solo un dettaglio.
L’ottimismo ritrovato però fu galeotto, e nel piano di riequilibrio che avrebbe dovuto dimostrare che i conti si sarebbero risanati in dieci anni, spuntarono un po’ troppe corbellerie, come l’idea che il Comune venderà, per mezzo di una società che fa tutt’altro, ben 750 milioni di immobili, non si sa come e non si sa quando. Ovvio che la Corte dei Conti della Campania, che ben conosce la realtà del Comune, bocciò quel piano, senza se e senza ma. Ma si sa, l’Italia non è la Germania, e due più due non fa sempre quattro. E così, le sezioni riunite della Corte, in aperto dissenso con la magistratura regionale, hanno ritenuto di dare il via libera al piano di riequilibrio e ai quattrini.
Ma non è finita qui. Il bilancio del 2013, quello grazie al quale il Comune ha potuto illustrare alla Corte i mirabolanti progressi realizzati nel risanare i conti, è stato bloccato dal Tribunale amministrativo regionale. Paradossalmente, per un problema apparentemente formale - i consiglieri comunali hanno avuto solo 4 giorni per studiare il bilancio, contro i 20 previsti dalla legge - mentre ben più sostanziose sono le magagne di quel bilancio pure denunciate in consiglio comunale (si pensi che il collegio dei revisori del Comune, che pure ha dato il placet al consuntivo, ha ammesso candidamente di non avere avuto uno straccio di carta dalla giunta su questioni di grande rilievo, come i bilanci delle società partecipate). Grande confusione e grandi imbarazzi. Il bilancio 2013 è come se non ci fosse, ma intanto è stato indispensabile per avere il via libera al piano di riequilibrio. Al tempo stesso, senza quel bilancio non si potrà approvare la manovra del Comune per il 2014 e si rischia addirittura il commissariamento. Almeno fino al prossimo rattoppo.
Beninteso, la questione dei conti degli enti locali è grave lungo tutta la penisola, anche a causa di una crisi che le politiche di austerity non fanno che accentuare. Ma quella dei conti del Comune di Napoli, oltre ad essere grave, è anche una questione poco seria. Una tarantella partenopea, verrebbe da dire: tanti si agitano, come morsi dalla tarantola, non ultimi i leader di partito e i politicanti vari, senza produrre alcunché di positivo. Una tarantella inutile e, soprattutto, estremamente costosa per il pubblico pagante, fatto di cittadini e imprese.

Una nuova agenda per la crescita. Il referendum stop austerità

Eccesso di austerità, un errore da correggere con il referendum
Una nuova agenda per la crescita.
di Riccardo Realfonzo
Corriere della Sera, 16 luglio 2014

È un momento difficile per i paladini dell'austerità. Negli USA e in Giappone si è reagito alla crisi con aumenti della spesa pubblica assecondati dalla banca centrale, con il risultato che gli americani realizzano oggi un Pil reale superiore di ben otto punti rispetto al 2007 e il gigante nipponico si è destato dal lungo torpore. Dal canto suo, la scienza economica conferma sempre più compatta la necessità di affrontare le crisi con politiche fiscali e monetarie espansive. E molti studiosi che in passato avevano sostenuto la dottrina dell'”austerità espansiva”, secondo cui i tagli di bilancio avrebbero favorito la crescita, sono giunti a ricredersi. Ben noto è il caso del capo economista del FMI, Olivier Blanchard, che nel World Economic Outlook di due anni fa candidamente ammise che i vistosi errori previsionali del FMI scaturivano da una sottostima degli effetti recessivi dell’austerità. Rifacendo i conti, occorreva precisare che i tagli della spesa pubblica riducono il Pil, invece di accrescerlo, e anche in modo più che proporzionale.
Queste evidenze e questi ripensamenti non hanno fatto breccia in Europa negli ultimi anni e l’austerity ha imperato. Eppure, i risultati sono ben diversi da quelli americani o giapponesi: il Pil dell’eurozona resta inferiore ai livelli pre-crisi, la disoccupazione è incrementata del 65 per cento (da 11,6 milioni del 2007 a oltre 19 milioni a fine 2013), gli obiettivi di risanamento della finanza pubblica non sono stati raggiunti. Con questi dati era inevitabile che anche da noi si prendesse atto  dell’impossibilità di una crescita sostenuta e diffusa in presenza di vincoli asfissianti sulle politiche economiche. Proprio su queste colonne, nella primavera scorsa, due influenti studiosi come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, a lungo sostenitori delle austere regole europee, hanno condiviso l’idea che fosse necessario lasciare lievitare il deficit al di sopra del limite del 3 per cento previsto dal Patto di Stabilità, per fornire una spinta adeguata all’economia italiana. “Una politica di piccoli passi per non sforare il 3 per cento sarebbe miope perché così la crescita non riparte”, scrivevano i due, teorizzando la necessità di andare oltre i trattati europei.
Oggi il presidente Renzi – che ha varato una manovra interna ai vincoli europei e che è alle prese con una economia che in questo primo semestre non ha voluto saperne di tornare a crescere – chiede ai partners europei una “austerità flessibile”. Chiede cioè qualche margine temporale e finanziario in più, sfruttando quel po’ di flessibilità già previsto nei trattati, per provare a uscire dal tunnel. Il forte timore, tuttavia, è che questa opportunità non venga concessa e, soprattutto, che questa “politica di piccoli passi” comunque non sia sufficiente, considerate le condizioni in cui versa la nostra economia. Anche perché – diciamolo con franchezza – la capacità espansiva delle attese riforme è tutta da verificare. Ecco allora che assume un preciso senso politico il referendum “stop austerità”, che sta raccogliendo consensi trasversali tra le forze politiche e sociali. Nel rispetto dei vincoli costituzionali, l'iniziativa mira ad abrogare il deleterio surplus di austerity rispetto ai trattati, che in un eccesso di zelo rigorista ci siamo inflitti in Italia; e a lanciare alle istituzioni europee un segnale, che le induca a prendere atto degli insuccessi delle politiche restrittive di questi anni. Il referendum “stop austerità” darebbe man forte a quelle forze politiche e a quei governi che intendessero realmente impegnarsi per cambiare l'agenda di politica economica dell'Unione, per un'Europa all'insegna della crescita e della occupazione.

Come cambierebbe la nostra vita senza il fiscal compact

Bonus fiscale da 200 euro (non 80). Ecco come
Così cambierebbe la nostra vita senza il fiscal compact
di Manuele Bonaccorsi
Left, 12 luglio 2014

Un referendum mette in discussione il fiscal compact. Per liberare 77 miliardi bloccati dall'Europa dell'austerity. E investirli nel nostro futuro.

L'Unione europea ha deciso di porre termine alla crisi che dura da sei anni: «Con 19 milioni di disoccupati e 124 milioni di poveri non c'era altra possibilità che cambiare verso», ha dichiarato il neopresidente della Commissione, il lussemburghese Claude Junker. «Abbiamo sbagliato: l'austerity è stata un clamoroso errore», ha ammesso la Cancelliera Angela Merkel. Ieri, nella riunione dei capi di Stato e di governo dell'Unione, è stata proprio l'inflessibile Cancelliera tedesca a prendersi il compito dell'annuncio shock. Il fiscal compact, il trattato che obbligava gli Stati membri dell'Ue al pareggio di bilancio e a ridurre il debito pubblico, viene unilateralmente cancellato da tutti i 25 Paesi che l'avevano sottoscritto. La sostenibilità delle finanze pubbliche, finora custodita dai parametri di Maastricht, sarà garantita da una sola nuova regola: il debito pubblico non deve aumentare. Ai Paesi della sponda sud dell'Europa basterà fotografare lo status quo, con l'impegno solenne di non far crescere ancora il rapporto tra debito e Pii. Sarà la Bce a garantire che la decisione non generi ondate speculative sui mercati internazionali. Per l'Italia il cambio di direzione dell'Unione significa molto: il nostro Paese potrà investire, quest'anno, ben 34 miliardi di euro prima destinati alla riduzione del debito pubblico. La quota di risorse da iniettare nell'economia salirà ogni anno, fino ai 77 miliardi del 2018. Il governo Renzi sta preparando un piano triennale per l'occupazione, diviso in tre parti: un terzo sarà investito nella riduzione delle tasse, (il bonus di 80 euro diventerà subito di 120 euro e salirà a 200 nel 2016); un terzo sarà impegnato in investimenti per infrastrutture, scuola e ricerca, cura del territorio, mobilità sostenibile; un terzo sarà impegnato sul welfare (in particolare è previsto un aumento del 40 per cento delle pensioni minime e il reddito minimo garantito per giovani e precari di lunga durata). Si stima che nuovi consumi e investimenti produrranno da qui alla fine del 2018 una crescita cumulata del Pii di 8 punti maggiore rispetto a quella stimata e una riduzione della disoccupazione da tre a due milioni di cittadini.
Bene, buongiorno, ben svegliati. Era solo un sogno. Come uno di quegli spot - "dell'Europa si deve parlare" - che ci raccontano senza sosta quale densità di valori e speranze contenesse l'ambizioso e visionario progetto di unire Paesi tanto diversi sotto un'unica bandiera, con una moneta e istituzioni comuni. La realtà, purtroppo, è molto diversa. Ma le cifre sono quasi tutte vere. Provengono da uno studio di Riccardo Realfonzo, ordinario di Economia all'università del Sannio, uno tra i promotori di un referendum contro il fiscal compact su cui è da poco iniziata la raccolta di firme (ne parliamo approfonditamente nelle pagine seguenti). L'economista, uno dei più attivi tra gli studiosi che da anni si battono contro l'austerità europea, ha realizzato sul sito www.economiaepolitica.it una stima delle risorse che si libererebbero se l'Italia potesse abbandonare la fatica di Sisifo della riduzione del debito pubblico imposta dai trattati europei: 26 miliardi nel 2015, 52 miliardi nel 2016, per poi salire fino a 64 miliardi nel 2017 e 77 nel 2018. Risorse con cui l'Italia potrebbe cambiare completamente il suo volto: ridurre la disoccupazione, dare finalmente slancio alla riconversione verde dell'economia, colpire drasticamente povertà ed esclusione sociale. Fare, cioè, tutto ciò che, negli ultimi otto anni, è stato impossibile, per ognuno dei governi che si sono avvicendati. Risorse che l'Italia potrebbe spendere senza far crescere il suo debito, salito dal 105 al 134 per cento del Pii proprio durante gli anni dell'austerity. La conseguenza di investimenti così ampi, secondo Realfonzo, potrebbe paradossalmente essere una riduzione del debito stesso. Poiché ogni euro impiegato in minori tasse o in maggiore spesa pubblica produce una crescita del Pii superiore a un euro, come ha ammesso lo stesso capo economista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard. L'unico ad avere fatto davvero mea culpa per i propri errori di calcolo, affermando con colpevole ritardo ciò che a chiunque cittadino ignorante di economia parrebbe un'ovvietà: l'austerità rende il Paese più povero, non più ricco. In sintesi: provare a ridurre il debito fa ridurre il Pil, e quindi fa crescere l'incidenza del debito pubblico (oltre a provocare disoccupazione e povertà). Al contrario, spendere risorse a debito fa crescere il Pii e dunque riduce l'incidenza del debito stesso.
Quello di Realfonzo non è un esercizio di stile per economisti, né una controproposta rivoluzionaria e irrealizzabile. Perché l'analisi dello studioso parte da dati reali. In particolare da un presupposto molto preoccupante. Per garantire il rispetto dei parametri del fiscal compact, cioè la riduzione del debito pubblico al ritmo di circa 3 punti di Pil ogni anno, il governo sarà costretto a collezionare avanzi primari (al netto degli interessi sul debito) sempre crescenti. Cioè a incamerare dalle tasse più di quanto viene poi speso. Secondo il Def varato ad aprile dal governo Renzi, già nel 2013 gli italiani hanno pagato 34 miliardi in più di quanto lo Stato ha speso. Una quota destinata a salire ancora, fino al 5 per cento del Pil, oltre 90 miliardi, nel 2018. E questo, solo se le previsioni del governo sulla crescita economica dell'esecutivo si riveleranno vere. Ma tutto lascia credere, purtroppo, che anche l'espertissimo ministro Padoan abbia peccato, come tutti i suoi predecessori, di ottimismo immaginando una crescita reale del Pil superiore a un punto e mezzo a partire dal 2015. Anche la crescita dello 0,8 per cento del Pil, stimata ad aprile per il 2014, è già stata rivista a ribasso nelle stime della commissione Uè (+0,6). E i risultati veri, incontrovertibili, certificati all'Istat fanno temere che il risultato finale sarà ancor più basso: il -0,1 per cento del primo trimestre dell'anno ha sentito subito i furori di riscossa del governo dei quarantenni. Molti economisti ammettono a denti stretti che l'anno potrebbe chiudersi, nella migliore delle ipotesi, con una crescita dimezzata rispetto alle stime dell'esecutivo.
Ad aggravare la situazione c'è l'andamento dell'inflazione. Com'è ovvio, chi ha un debito - come lo ha, e molto grande, l'Italia - ha tutto da guadagnare da un aumento dei prezzi. L'inflazione, infatti, riduce i tassi di interesse reali, e rende più facile pagare i creditori. Purtroppo in Europa i prezzi sono fermi, si rischia quella che gli economisti chiamano deflazione. L'Istat ha certificato questo scenario: a giugno ha calcolato un aumento dei prezzi dello 0,3 per cento sull'anno precedente e dello 0,1 su base mensile. La Bce di Marco Draghi ha annunciato misure per far salire l'inflazione, ma il sabotaggio dei falchi della Bundesbank frena anche il più importante rappresentante italiano nelle istituzioni europee.
Il risultato? Se le cose continueranno così, il governo Renzi sarà costretto ad ammettere il fallimento dei suoi obiettivi di finanza pubblica e, volendo rispettare i trattati, dovrà annunciare una nuova manovra. Inutile sperare che le cosiddette riforme strutturali possano far cambiare in tempi brevi segno al Pil. La spending review, le privatizzazioni, la riforma della pubblica amministrazione e la liberalizzazione dei contratti a termine difficilmente avranno effetti positivi sulla crescita. Lo studio di Realfonzo, che riprende dati dell'Ocse, dimostra che non esiste alcuna relazione tra il grado di flessibilità del mercato del lavoro e l'andamento della disoccupazione. Ed è impossibile, spiega l'economista, immaginare una crescita reale del Pii che arrivi al 2 per cento nel quadro della spending review (50 miliardi di tagli alla spesa pubblica in 3 anni). D'altronde, la spesa dello Stato si è ridotta come quota del Pil del 6 per cento dal 1990 a oggi.
La via, insomma, è stretta e piena di insidie. La bassa crescita potrebbe costringere il governo, già a ottobre, a una mini manovra per restare sotto il parametro del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil. Poi, nel 2015, si aprirà la partita del fiscal compact: per ridurre il debito senza ulteriori manovre la somma tra crescita economica e inflazione dovrebbe essere superiore al 3 per cento, un obiettivo che ora sembra irraggiungibile. Per rispettare i trattati servirebbe un'ulteriore manovra da oltre 10 miliardi. «Con questi livelli di crescita e inflazione non c'è alcuna possibilità di rispettare il fiscal compact», afferma Stefano Fantacone, del Centro Europa ricerche. «Ma la vera soluzione, cioè una modifica dei trattati, per ora non è politicamente raggiungibile. Ï governo oggi non può far altro che sfruttare tutti i margini di flessibilità possibili».
Insomma, se questo scenario, come tutto lascia credere, dovesse realizzarsi, il giovane rottamatore sarebbe costretto suo malgrado a diventare la copia sbiadita del tecnocrate Mario Monti. Ancora tagli e nuove tasse per inseguire la chimera dell'Europa.
Un finale che il premier vuole evitare a tutti i costi. E per farlo l'unica speranza è vincere la partita diplomatica che ha aperto a Bruxelles. Le condizioni ambientali sono tutte a suo favore. Renzi è diventato presidente di turno dell 'Unione sull'onda di una vittoria elettorale senza precedenti. E vuole far pesare ognuno dei suoi 11 milioni di voti, in una congiuntura in cui tutti i partiti di governo hanno raccolto dalle urne solo dolori. Il primo tempo di questa partita, quella giocata a Bruxelles, non ha riservato sorprese: come sempre ha vinto la Germania. Renzi s'è dovuto accontentare di un documento che afferma, a parole, l'introduzione di "elementi di flessibilità" nella gestione dei conti pubblici, specificando però: «Insita nelle norme esistenti del Patto di stabilità e di crescita». Renzi, infatti, aveva due obiettivi: scorporare dal calcolo del deficit la quota di cofinanziamento nazionale ai fondi strutturali europei (circa 5 miliardi) e una parte delle spese in investimenti, a partire dalle infrastrutture. Ma i trattati non prevedono nulla di tutto ciò. Al massimo, ricorda un documento tecnico del Partito socialista europeo, l'Italia potrebbe chiedere di rimandare di un anno il cosiddetto obiettivo di medio termine, cioè il pareggio di bilancio strutturale, ma solo in caso di un «large negative output gap», di un ampio divario negativo. Non a caso, ammette il Pse, parlare di flessibilità "all'interno" dei trattati, non basterà a far cambiare segno all'Europa - Bisognerebbe ampliare la «flessibilità» anche ai casi di «bassa crescita» e «lasciare la porta aperta a una revisione delle regole fiscali», prevedendo l'introduzione anche degli eurobond, cioè titoli di debito garantiti dall'Unione. La Merkel, invece, esce vincitrice dal vertice. In un documento quasi ignorato dai giornali italiani, il Consiglio europeo, «alla luce dell'emergere di uno scarto rispetto ai requisiti del patto di stabilità e crescita», chiede di anticipare di un anno il pareggio di bilancio, che il Def di aprile aveva rimandato dal 2014 al 2015. La linea del dialogo con Angela Merkel, insomma, finora non ha pagato. Le sfuriate riservate all'Italia dai falchi della Bundesbank, a cui la Cancelliera ha risposto dando fiducia al governo italiano, sembrano un vecchio film americano: i tedeschi giocano al poliziotto cattivo e a quello buono. Il nostro titolare dell'economia Padoan è giunto fino al punto di firmare, insieme al potente ministro delle finanze tedesco Scheuble, un articolo sul Watt Street Journal, per ripetere lo stesso ritornello: i trattati non si cambiano. La strategia, per ora, è cercare soluzioni all'enigma dei conti nei meandri delle regole europee. Sperando anche m una modifica dei criteri di calcolo del debito da parte della Commissione. Ma se Renzi e Padoan dovessero trovare la strada sbarrata, non resterebbe altro che tentare il tutto per tutto, chiedendo a voce alta una modifica dei trattati. E in questo caso, l'ipotesi di un referendum sul recepimento nelle leggi italiane del fiscal compact, potrebbe spiazzare la massiccia diplomazia di Bruxelles e Berlino.

Stop austerità, perché il referendum? Parla Riccardo Realfonzo

Stop austerità, perché il referendum? Parla Riccardo Realfonzo
registrazione dell'intervista di Roberta Lisi
Radio Articolo 1, la radio della Cgil, 11 luglio 2014

Stop austerità, sosteniamo il referendum. Realfonzo a Tg3 Linea Notte

Stop austerità, sosteniamo il referendum
Tg3 Linea Notte, 7 luglio 2014

Serve una spinta popolare e democratica per fermare l'austerità e ottenere una svolta nelle politiche economiche europee, per la crescita e la piena occupazione.



Il referendum contro il Fiscal Compact sfida l'Eurogruppo e l'austerità

Il referendum contro il Fiscal Compact sfida l'Eurogruppo e l'austerità ottusa
di Raffaele Ricciardi
Repubblica, 7 luglio 2014

Un gruppo di economisti bipartisan ha avviato la raccolta di firme per abrogare quattro articoli della legge che fissa il pareggio di bilancio. Per i proponenti l'Italia non può tecnicamente mantenere gli impegni presi in sede europea, cioè coniugare avanzi primari e crescita. Si cerca la sponda politica.

Uno è stato viceministro dell'Economia con Silvio Berlusconi. Un altro è un ex membro della segreteria del Partito Comunista, poi Pds. Poi c'è l'economista della giunta di De Magistris a Napoli, dal quale si è separato in polemica, il sindacalista della Cgil e il professore di Scelta Europea. La compagine è piuttosto composita, ma il fine è uno solo: rompere il vincolo della "austerità ottusa" dell'Europa e mandare gambe all'aria il suo più potente strumento, il Fiscal Compact. Quest'ultimo consiste nella lista di impegni che ha raffinato il Patto di stabilità e crescita e i successivi "Six" e "Two pack" e prescrive - pur non avendo il rango di trattato - una rigida tabella di marcia per gli Stati che hanno i conti in disordine: su tutto, prevede il pareggio di bilancio costituzionale, l'obbligo di non superare la soglia di deficit strutturale oltre lo 0,5% del Pil e la riduzione del rapporto tra debito e Pil di un ventesimo l'anno (per la parte eccedente il 60% del Pil, caso in cui rientra l'Italia).
Da inizio luglio è partita la caccia alle firme per chiamare in consultazione gli italiani con un referendum che depotenzi in maniera significativa il Fiscal Compact stesso. Lo propone un comitato - appunto - variegato, a testimonianza di quanto il tema susciti interesse trasversale, anche dopo aver deposte le armi della campagna elettorale per le europee: tra i firmatari, riprendendo l'ordine di presentazione di cui sopra, vi sono gli economisti
Mario Baldassarri, Cesare Salvi, Riccardo Realfonzo, Danilo Barbi della Cgil e Gustavo Piga di Scelta Europea, che già aveva proposto un referendum con il movimento dei "Viaggiatori in Movimento". 
La proposta del comitato propone di abrogare quattro articoli del testo di legge 243 del 2012, la norma attraverso la quale si attua il principio costituzionale del pareggio di bilancio. Una sottile escamotage per disarcionare il Fiscal Compact, che sarebbe intoccabile sul lato (costituzionale) del pareggio di bilancio stesso. Le ragioni della richiesta di abrogazione di fatto sono spiegate dall'economista Realfonzo sulla rivista economiaepolitica.it, dove si ricorda che "la risposta del tutto inadeguata alla crisi ha portato nell'Eurozona a una crescita del numero dei disoccupati da 11,6 ad oltre 19 milioni di fine 2013 (con un incremento che sfiora il 65%) e il Pil ancora oggi risulta di 1,5 punti inferiore al livello raggiunto nel 2007 (dati Commissione Europea, a prezzi costanti)".
A fronte di questa situazione, al di là dei tecnicismi, Realfonzo spiega che l'Italia - per le disposizioni del Fiscal Compact - è chiamata a mettere in fila avanzi primari che non sono pensabili, soprattutto se affiancati a un obiettivo di crescita. Per questo si propongono quattro punti: "Abrogare le norme che consentono di stabilire obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea (quando la norma dice di assicurare "almeno" gli obiettivi di medio e lungo termine europei, ndr); Abrogare la norma che limita ai soli casi straordinari il ricorso all'indebitamento pubblico per operazioni finanziarie; Abrogare la norma che impone manovre correttive di bilancio quando ricorrono alcune condizioni previste da trattati internazionali; Abrogare la norma che identifica rigidamente e tassativamente il principio costituzionale di equilibrio dei bilanci pubblici con un obiettivo di bilancio stabilito in sede europea".
La sfida di raccogliere 500mila firme entro la fine di settembre, per poter poi tenere la consultazione nel 2015, si inserisce perfettamente nelle discussioni di questi giorni sulla flessibilità, focus dell'Eurogruppo e dell'Ecofin. "Per definire la nuova politica europea in discussione in queste ore si potrebbe parlare di 'austerità flessibile'", spiega Realfonzo: "Gli obiettivi di lungo termine non cambiano, ma si lascia solo qualche piccolo margine di gestione per i più virtuosi". Il problema è che "così le cose non possono comunque funzionare".
L'economista di stampo keynesiano sottolinea che la presentazione dell'iniziativa ha attirato l'interesse del sindacato, ma anche "di esponenti di peso del Pd come Cuperlo e Fassina, insieme a Sel e altre forze politiche". Proprio sul terreno politico alcuni hanno letto la proposta referendaria come un giudizio su Renzi, ma Realfonzo precisa: "Non è un referendum contro il governo, ma una spinta dal basso che può anzi essere utile agli esecutivi che vogliono impostare una politica economica diversa". Si cerca quindi la sponda del Pd, che d'altra parte "ospita i nostri banchetti alla festa dell'Unità"...

Referendum stop austerità: apertura campagna raccolta firme

Apertura campagna raccolta firme

Comitato Promotore dei 4 Referendum

STOP ALL’AUSTERITA', SÌ ALLA CRESCITA, SÌ ALL'EUROPA DEL LAVORO E DI UN NUOVO SVILUPPO"

Roma – Apertura campagna raccolta firme per il Referendum Stop Austerità.

Il giorno 3 luglio alle ore 9.30 a Largo di Torre Argentina – nello spazio antistante la libreria Feltrinelli – avrà inizio la campagna nazionale di raccolta firme per il Referendum Stop Austerità che – con quatto quesiti proposti – avrà lo scopo di modificare alcune parti della Legge 243 del 2012 sul pareggio di bilancio. Il tavolo per la raccolta firme sarà presente in Largo Argentina fino alle ore 16.00.
A partire dalle 10.30 in piazza Vittorio, si aprirà invece la campagna territoriale.

In concomitanza con l'inizio del semestre europeo, il nostro Paese ha l’occasione di dire chiaro e forte che vuole ricominciare a crescere e a produrre. Per questo tutti sono chiamati a firmare contro l'ottusa austerità. Solo un’azione congiunta di lavoratori, imprenditori, società civile, intellettuali e politici potrà far arrivare in Europa un messaggio forte di voglia di cambiamento:  per l’Unione Europea e per l’euro, senza più politiche di austerità in recessione, a favore di una crescita reale basata su solidarietà e sviluppo, per ripristinare opportunità e possibilità soprattutto per i nostri giovani.
Tutte le notizie relative alla raccolta firme e tutti gli eventi organizzati dal Comitato Promotore saranno disponibili sul sito www.referendumstopausterita.it.

Tavoli di raccolta firme per il Referendum Stop Austerità
dalle 9.30 alle 16.00 - Largo di Torre Argentina – Roma (Apertura Campagna Nazionale)
dalle 10.30 alle 12.30 - Piazza Vittorio – Roma (Apertura Campagna Territoriale)

Membri del Comitato Promotore:
1) Mario Baldassarri, prof. univ. di economia politica
2) Danilo Barbi, impegnato nel Sindacato CGIL
3) Leonardo Becchetti, prof. univ. di economia politica
4) MarioBertolissi, prof. univ. di diritto costituzionale
5) Melania Boni, dirigente pubblico
6) Flaviano Bruno, consulente
7) Rosella Castellano, prof. univ. di finanza matematica
8) Massimo D’Antoni, prof. univ. di scienza delle finanze
9) Paolo De Ioanna, consigliere di Stato 
10) Antonio Pedone, prof. univ. di scienza delle finanze
11) Laura Pennacchi, responsabile Forum Economia CGIL
12) Nicola Piepoli, presidente Istituto Piepoli
13) Gustavo Piga, Responsabile Comitato Referendario, prof. univ. di economia politica
14) Riccardo Realfonzo, prof. univ. di economia politica
15) Giulio M. Salerno, prof. univ. di diritto pubblico
16) Cesare Salvi, prof. univ. di diritto civile.