Per non finire nel baratro

Per non finire nel baratro
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 31 maggio 2013

L’uscita dell’Italia dalla procedura europea di infrazione per deficit pubblico eccessivo non deve indurre in errore: le politiche economiche che hanno portato a questo risultato non vanno reiterate. È ormai chiaro, infatti, che le manovre di contenimento della spesa pubblica e incremento della pressione fiscale hanno avuto una ripercussione grave sul Paese, al punto da portarci a perdere quasi 2,5 punti di Pil nel 2012 e - a politiche invariate – non molto meno quest’anno. Il fatto è che le politiche di austerità, retroagiscono negativamente sulla crescita. Quelle politiche fissano obiettivi di finanza pubblica da conseguire mediante avanzi primari (cioè eccessi delle entrate fiscali sulla spesa pubblica, interessi sul debito esclusi), non tenendo in adeguato conto il loro effetto moltiplicatore negativo sull’economia. Infatti, gli aumenti della pressione fiscale hanno ridotto i consumi e quindi i ricavi delle imprese, spingendo queste ultime a contrarre la produzione e a tagliare occupazione e investimenti produttivi. Ciò ha generato ulteriori contrazioni della domanda a cui hanno fatto seguito nuovi cali dei livelli di attività dell’economia. L’effetto depressivo generato dagli avanzi primari ha spiazzato - come è pacifico in buona parte della letteratura specialistica - gli stessi governi che hanno adottato le politiche di austerità. Basti pensare alle previsioni per il 2013 del governo Monti, che sono state continuamente riviste al ribasso sino all’ultima previsione che prevede un calo del Pil dell’1,3% e appare comunque meno attendibile di quella più pessimistica formulata dall’Ocse (-1,8%).
Il Paese ha bisogno di altro, di risorse per riprendere la crescita. Per questa ragione, il primo punto da chiarire – riprendendo quanto già sostenuto su queste colonne – è che non siamo in condizione di rispettare i vincoli europei in tema di pareggio strutturale del bilancio e abbattimento del debito, come invece si propone ancora di fare l’ultimo Documento di Economia e Finanza. Non a caso, quel Documento assume coerentemente di non utilizzare i margini concessi in Europa sul deficit pubblico, dal momento che questo viene ridotto dal 2,9% nel 2013 verso lo zero, entro la legislatura. Il che significherebbe ancora austerità.
Al tempo stesso, qualunque ipotesi “minimalista”, finalizzata a grattare qualche piccolo spazio in un intorno del vincolo europeo del deficit del 3%, sarebbe miope e non all’altezza dei nostri problemi. D’altronde, persino Alesina e Giavazzi, protagonisti di tante battaglie a favore dell’austerità, sono stati costretti ad ammettere sul “Corriere della Sera” che è indispensabile adottare un approccio più keynesiano e meno dogmatico ai vincoli europei.
E allora l’unica vera mossa all’altezza della crisi italiana consiste nel portare verso lo zero l’avanzo primario, già nel 2013. In tal modo, si lascerebbe crescere il deficit pubblico progressivamente al di sopra del 5,5% del Pil, liberando così non meno di 35 miliardi di euro. Una manovra a cui fare seguire, ottenuta la ripresa economica, un forte e chiaro impegno in direzione della stabilizzazione del debito pubblico rispetto al Pil. È solo con una svolta di questo tipo che possono liberarsi le risorse per le politiche di domanda e di offerta di cui ha bisogno l’economia italiana. Dal lato della domanda, non semplicemente occorrerebbe scongiurare l’aumento dell’Iva, ma sarebbe indispensabile intervenire massicciamente, per almeno un punto di Pil, sul taglio del cuneo tra il costo del lavoro e i salari netti in busta paga. Questa manovra, coerente con una più complessiva rivisitazione del fisco in chiave redistributiva, darebbe una forte spinta alla domanda interna senza accrescere i costi di produzione, con tutto vantaggio delle imprese. Contemporaneamente, bisognerebbe intervenire sull’offerta, con politiche finalizzate a rilanciare la competitività del nostro sistema produttivo, anche per evitare che la ripresa della domanda peggiori il saldo della bilancia commerciale. A questo scopo, sarebbero necessarie politiche industriali per superare il gap infrastrutturale con i Paesi più avanzati d’Europa e fare compiere alle nostre imprese un salto tecnologico e dimensionale.
Si tratta di una strada coraggiosa, certo ardua da portare avanti in Europa, ma l’alternativa è scivolare sempre più nel declino.

Dibattito sulla disuguaglianza. Realfonzo contro Martone




Dibattito sulla disuguaglianza. Realfonzo contro Martone
Unomattina in famiglia, Rai 1, sabato 25 maggio 2013

Le trattative di de Magistris





Le trattative di de Magistris. Intervista a Riccardo Realfonzo
di Roberto Fuccillo
Repubblica Napoli, 24 maggio 2013


“È COMINCIATA una nuova fase dell’era de Magistris, la trattativa per la sopravvivenza politica". Un anno dopo la sostituzione, Riccardo Realfonzo vede altri ex colleghi uscire da Palazzo San Giacomo e l’amministrazione sprofondare.
Il sindaco parla di rilancio.
"E invece tenta solo di resistere sulla poltrona. La sua credibilità è crollata per l’incapacità amministrativa e con il tonfo elettorale. Le clamorose contestazioni di piazza hanno fatto il resto. Rischiava di essere cacciato a furor di popolo e di perdere la maggioranza in Consiglio. È corso ai ripari".
Aprendosi alla città, dice lui.
"Archiviando definitivamente i propositi rivoluzionari e affidandosi alla vecchissima politica, dico io”.
Ce l’ha con Moxedano e Fucito?
"I consiglieri dovrebbero sancire la fine di questa esperienza, nell’interesse della Città. Invece qui li si tiene buoni con le poltrone…"
Insieme a Tommasielli e Palmieri, Sodano è uno dei tre sopravvissuti della prima giunta, in cui era anche lei.
"Conta Sodano, che è maestro in fatto di vecchia politica, il vero ispiratore del Sindaco e di tanti errori, dalle assunzioni in Asìa alla transazione con Romeo".
Forse in questa fase è venuto meno il Pd.
"La possibilità di resistere del sindaco è figlia della debolezza post-elettorale del centrosinistra. Ma se Bersani avesse vinto, oggi de Magistris contribuirebbe alla crescita del tasso di disoccupazione del Paese".
Invece abbiamo questo rimpasto.
"Che è peggio di quanto avevamo visto in passato. La Iervolino almeno seppe resistere a certe pressioni del Consiglio. E nei suoi rimpasti riuscì a chiamare ex ministri come Scotti e studiosi come Amaturo, Belfiore, D’Aponte. Qui, con buona pace di Daniele e del prof Calabrese, il livello è diverso”.
Cosa dobbiamo attenderci per il futuro?
“Il tentativo di riagganciare il Pd e Sel facendo leva sullo spazio aperto dai 600 milioni previsti dal recente decreto sui debiti della pubblica amministrazione. E forse una resistenza stentata. Ovviamente, il prezzo di tutto questo lo pagheremo noi napoletani che vedremo le tasse e le tariffe ai massimi, e sempre meno servizi pubblici”.

Gli ottant'anni di Augusto Graziani

Gli ottant'anni di Augusto Graziani
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 4 maggio 2013







Graziani, il meridionalista keynesiano che sostenne l'intervento straordinario
di Riccardo Realfonzo e Carmen Vita
Il Corriere del Mezzogiorno, 4 maggio 2013


Oggi gli economisti italiani festeggiano Augusto Graziani, nato a Napoli ottanta anni fa. Già Presidente della Società Italiana degli Economisti, membro dell’Accademia dei Lincei, per un breve periodo Senatore, da cinquanta anni Graziani è punto di riferimento culturale e morale per schiere di studiosi formatisi alle sue lezioni e sui suoi libri. Graziani ha assunto una posizione di rilievo nella comunità scientifica internazionale soprattutto per i suoi contributi di impronta keynesiana sulla “teoria monetaria della produzione”, un approccio teorico di cui è indiscusso caposcuola, che descrive il funzionamento del sistema economico attraverso l’analisi dei flussi monetari e che giunge a conclusioni alternative a quelle del mainstream liberista. Grazie ai lavori di Graziani, questi studi hanno conosciuto significativi sviluppi non solo in Italia, ma anche in Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Canada.
Accanto al versante più squisitamente teorico del suo lavoro, Graziani è autore di studi illuminanti sullo sviluppo dell’economia italiana ed è uno dei principali esponenti del meridionalismo. I suoi primi importanti scritti su questo tema risalgono agli anni ’60, quando il dibattito ruotava intorno alle tesi di Vera Lutz, secondo la quale gli squilibri dell’economia italiana dipendevano principalmente dall’azione sindacale e dalla dinamica del costo del lavoro. La Lutz era contrastata da studiosi del calibro di Claudio Napoleoni e Paolo Sylos Labini che in vario modo preferivano sottolineare l’inadeguatezza del controllo pubblico sul processo di sviluppo. L’intervento nel dibattito di Graziani fu dirompente. Egli elaborò un modello interpretativo di sviluppo trainato dalle esportazioni, che mostrava come l’Italia si era trovata nella necessità di ottenere un vantaggio comparativo nei settori in cui la domanda estera era in espansione. Le imprese che producevano per le esportazioni dovettero attrezzarsi per sfruttare la domanda in crescita, mentre quelle che producevano per il mercato interno, con domanda stagnante, non compirono alcun riassetto significativo. Si veniva così ad approfondire un dualismo industriale tra un settore progredito e dinamico, costituito da grandi imprese collocate per lo più al Nord, che producevano per la domanda estera, e che adottarono tecniche produttive a elevata intensità di capitale, e un settore meno progredito e stagnante, costituito da imprese di piccole dimensioni situate generalmente al Sud, che producevano per il mercato interno, con tecniche produttive ad elevata intensità di lavoro.
Graziani è tornato numerose volte sul suo modello interpretativo, sino al classico Lo sviluppo dell’economia italiana del 1998, chiarendo che “il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno può aver costituito all’inizio un vantaggio immediato per le regioni settentrionali in quanto ha messo a disposizione dell’industria del Nord una riserva di manodopera apparentemente inesauribile; ma a lungo andare questo si è rivelato un elemento di grave debolezza nella struttura del Paese”.
Come troppo spesso capita, alla buona teoria economica non ha corrisposto una buona politica economica. L’intervento straordinario per il Mezzogiorno - di cui Graziani fu un teorizzatore - riuscì effettivamente a ridurre il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord al minimo storico. Infatti, mentre nel 1951 il prodotto interno lordo per abitante del Mezzogiorno arrivava appena al 53% del resto del Paese, il valore si portò nel 1972 al 65%. Ma poi, gli sprechi e gli errori nel periodo dell’intervento straordinario portarono ad archiviare quell’esperienza nei primi anni ‘90. Qualcuno teorizzò che la questione meridionale era sparita, che le politiche di intervento straordinario erano solo dannose per il tessuto produttivo meridionale, che occorreva passare a politiche che valorizzassero le vocazioni e i partenariati locali. Graziani ha sempre creduto ben poco a tutto questo e in effetti i risultati della “nuova programmazione per il Mezzogiorno” non si sono fatti attendere, dal momento che in pochi anni il valore pro capite della produzione meridionale è crollato al di sotto del 60% del resto d’Italia.
Oggi alcuni, tra cui lo stesso neoministro per la Coesione territoriale, Carlo Trigilia (Non c’è Nord senza Sud, 2012), ripropongono la tesi socioculturale del sottosviluppo, evidenziando la necessità di uno “Stato centrale più forte e autorevole, capace di controllare che l’allocazione delle risorse pubbliche, determinata ormai largamente da regioni e governi locali, rispetti obiettivi di efficienza e di equità”; una visione secondo la quale “si può promuovere lo sviluppo senza aggravio per le finanze pubbliche, anzi risparmiando”. Anche questo tipo di argomentazione non ha mai convinto Graziani, che piuttosto ha esaminato le derive clientelari e le inefficienze della amministrazione pubblica locale tentando di comprenderne le cause di fondo. Ad esempio, quando chiarì che “il settore pubblico non è inefficiente in sé: lo diventa quando sono deboli i destinatari dei suoi servizi”. Il riferimento è ai lavoratori ma anche alle imprese, “invischiate nel sistema della clientela e dei trasferimenti pubblici” (I Conti senza l’oste, 1997). Il punto è che nella visione di Graziani non si esce dalla questione meridionale senza un disegno ambizioso e coerente di politica industriale, che preveda ulteriori risorse e un’azione finalizzata a spingere le imprese verso un salto tecnologico e dimensionale.
La lezione magistrale di Graziani è oggi tanto più attuale, considerato che i processi di divaricazione tra “centri” e “periferie” in Europa sono molteplici, e certo non riguardano più solo l’Italia. Per capire come affrontare questi inediti, giganteschi problemi non ci resta che tornare a leggere Graziani.