Realfonzo (Cometa): "Il Recovery non basta per una ripresa duratura. Bisogna reclutare il risparmio nazionale"
di Raffaele Ricciardi, La Repubblica, 8 giugno 2021
Riccardo Realfonzo, da pochi giorni è salito alla presidenza di Cometa. Il fondo pensione dei metalmeccanici è il maggiore per patrimonio tra i negoziali italiani: costituito nel 1997, conta oggi oltre 13 miliardi in gestione e circa 440 mila aderenti iscritti. Economista keynesiano, docente all’Università del Sannio, in un intervento sul Financial Times all’alba del governo Draghi aveva parlato del rischio di un parlamento svuotato di responsabilità nel gestire i soldi del Recovery Plan, peraltro a suo avviso insufficienti.
Come giudica questi mesi del governo dell'ex presidente Bce?
Nella definizione del Pnrr sono stati compiuti importanti passi avanti. Sia nel determinare gli obiettivi che in alcune scelte fondamentali relative agli investimenti, in particolare con la riduzione della quota destinata ai progetti già in essere. Restano perplessità sulle risorse destinate al Mezzogiorno, una insufficiente programmazione di politica industriale e dubbi sulla capacità di fuoco.
Vuol dire che i 248 miliardi che fanno dell’Italia il maggior beneficiario del programma Ue, al quale il governo ha contribuito col fondo nazionale da 30 miliardi, non basteranno?
Per quanto apprezzi gli sforzi fatti, a dire il vero già dal governo precedente, per soccorrere imprese e cittadini travolti dalla crisi, resta un tonfo del Pil 2020 da 160 miliardi. Le risorse Ue sono tardive. E non bisogna dimenticare che per due terzi i finanziamenti europei sono prestiti, che – per quanto a condizioni vantaggiose – vanno restituiti e dunque incrementano il debito pubblico. E poi l’Italia dovrà contribuire per la sua quota anche alla parte di sovvenzioni, con oltre 40 miliardi a fronte dei 78 che riceve. Il Recovery è rilevante politicamente perché per la prima volta lancia strumenti di condivisione del rischio, ma a conti fatti non è sufficiente: come mostrato con alcuni colleghi in un recente studio, nemmeno nel 2025 il Pil tornerà al livello del 2019, a sua volta inferiore a quello del 2007, prima della crisi finanziaria.
Eppure negli ultimi giorni si sono moltiplicate le previsioni di una accelerazione della ripresa…
Si tratta di un rimbalzo molto forte perché misurato rispetto a un anno di crisi senza precedenti. Il 2021 e anche il 2022 dovrebbero essere anni di importante ripresa. Da qui a recuperare il 9% perso l’anno scorso, ce ne passa. D'altronde veniamo da un periodo di sotto-investimento pubblico rispetto ai Paesi a noi vicini: tra il 2007 e il 2019 sono venuti a mancare 120 miliardi di investimenti sulla media europea. Significa meno soldi in sanità, infrastrutture, scuola, università: la conseguenza delle politiche di austerità che oggi tutti sembrano aver disconosciuto. Recuperare da una stagnazione durata per oltre dieci anni è complicato: se nel breve periodo avremo un forte rimbalzo, il problema sarà confermarlo nel medio periodo, assicurando le condizioni di sostenibilità del debito pubblico. Il tutto poi si complicherebbe enormemente se davvero si facesse la follia di reintrodurre nel 2023 le regole di finanza pubblica oggi sospese. Ed è per questo che credo che la previdenza complementare debba esser coinvolta per dare una spinta ulteriore, sostenibile e duratura all’economia reale.
Veniamo allora al suo ruolo in Cometa. In una recente intervista ha lanciato una proposta per convogliare il risparmio previdenziale verso le imprese italiane. In cosa consiste?
Partiamo dai numeri del presente. I dati Covip dicono che a fine 2020 la previdenza complementare ha raccolto 196 miliardi di euro, 60 dei quali gestiti dai fondi negoziali. Negli altri Paesi avanzati, in media, questo settore investe il 13-14% del raccolto in economia reale: se fossimo a questi livelli, significherebbe 30 miliardi all’anno. Invece arriviamo solo a 4 miliardi. Non abbiamo la capacità di mantenere in Italia il risparmio previdenziale, perché gli strumenti per questa tipologia di investimenti – private equity e private debt – sono poco sviluppati. E gli investitori, nell’interesse degli aderenti, puntano sui prodotti esteri.
Cosa propone, allora?
Bisogna creare uno strumento diretto per gli investimenti nell’economia reale italiana. La soluzione tecnica preferibile vedrebbe il coinvolgimento della Cdp che - attraverso un fondo di fondi - potrebbe raccogliere il risparmio previdenziale, garantendo ai consigli di amministrazione un rendimento almeno pari a quello del Tfr, che è il nostro benchmark. Gli stessi fondi pensione insieme alla Cassa, dovrebbero partecipare alla governance.
Una garanzia di rendimento non sarebbe un privilegio per chi può aderire ai fondi negoziali? E i lavoratori esclusi? E i costi per lo Stato?
Certo il consiglio di un fondo pensione non può scaricare sulle spalle degli aderenti il principio patriottico dell'investire in Italia. Non si può giocare con le risorse dei lavoratori. Quindi, in assenza di una garanzia i risparmi in massima parte vanno fuori. Quanto all’esclusione di alcuni, credo che l’intero mondo della previdenza complementare debba poter accedere a un simile strumento. E sui costi sarebbe un falso problema: i fondi riescono quasi sistematicamente a battere il Tfr e, per quel che vediamo negli altri Paesi, gli investimenti diretti rendono mediamente di più nel lungo andare. Se si garantisse qualità allo strumento messo in campo, con il coinvolgimento di professionalità tecniche di grande profilo, potrebbero non essere necessarie integrazioni.
La previdenza dopo quota 100. Repubblica ha dato conto del rischio di impoverimento dei lavoratori, tra scalone e soluzioni alternative. Cosa ne pensa?
Temo che il superamento di quota 100 si traduca in una penalizzazione dei lavoratori. Giovani e donne, le parti deboli, sono candidati ad avere pensioni da fame. L’attuale disegno del sistema pensionistico e della previdenza complementare esclude gli intermittenti, chi versa pochissimi contributi perché per molti anni è alle prese con un precariato devastante. Una riforma deve guardare principalmente a loro. Ma non deve essere solo una ridistribuzione tra generazioni di risorse interne, che già appartengono al mondo previdenziale. Bisogna apportare fondi nuovi, che devono venire da una tassazione non più sbilanciata sul lavoro e dal recupero dell’evasione. Ho apprezzato la tesi del segretario del Pd Letta sulla tassazione delle successioni rilevanti. Capisco la risposta del premier Draghi e che non sia il momento di gravare sui cittadini, ma questi aspetti bisogna metterli in cantiere.
Il governo ha definito la partita del blocco dei licenziamenti nel Sostegni bis, il sindacato chiede di riaprire il tavolo e alcune parti politiche lo appoggiano. E’ una soluzione che la soddisfa o si poteva fare diversamente?
Si deve fare diversamente. La fragilità della ripresa è ancora evidente: sarebbe stato più opportuno attendere ancora qualche mese per avere una dinamica economica più robusta e quindi scongiurare una parte rilevante dei licenziamenti. Maggiore cautela per i lavoratori e sostegno alle imprese, fino alla fine dell’anno. Rispetto alle posizioni di Confindustria, però, concordo sul fatto che si sarebbe dovuto impiegare questo tempo per parlare soprattutto di riforma degli ammortizzatori sociali e formazione dei lavoratori.