Napoli va avanti sull'acqua pubblica

Oggi (30 luglio) il Consiglio Comunale di Napoli ha approvato insieme al bilancio consuntivo 2008 una importante mozione sull'acqua pubblica. Questo è il comunicato stampa (Ansa) che è uscito:

Comunicato StampaAssessore alle Risorse Strategiche del Comune di Napoli
Realfonzo: "L'approvazione della mozione sull'acqua pubblica è un risultato straordinario per Napoli. Ora nessuno più ostacoli questo percorso"
A seguito della approvazione in Consiglio Comunale della mozione a favore dell'acqua pubblica, avvenuta nel corso della discussione del Bilancio Consuntivo, l'Assessore alle Risorse Strategiche, prof. Riccardo Realfonzo, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Sono entusiasta per l'approvazione della mozione sull'acqua pubblica avvenuta oggi in Consiglio Comunale, anche perché con questo importante passaggio il Consiglio ha fatto suo uno dei principali punti politico-programmatici sui quali mi sono costantemente battuto sin dai primi giorni del mio incarico in Giunta”. L'Assessore Realfonzo ha proseguito: “Con questa mozione il Consiglio Comunale si esprime a favore del mantenimento in mano pubblica del servizio idrico e si predispone ad introdurre nello Statuto del Comune di Napoli una precisa definizione dell'acqua come bene comune, privo di rilevanza economica, la cui fruizione rappresenta un diritto fondamentale dei cittadini. Con ciò il Consiglio Comunale ha chiarito che il servizio idrico per essere davvero equo ed efficiente non può che essere gestito da un soggetto totalmente pubblico, in linea con quanto chiesto in questi anni da tanta parte della società civile ed anche dall'appello degli intellettuali apparso in questi giorni sulla stampa a sostegno della Giunta partenopea. La mozione si spinge meritoriamente anche ad introdurre il concetto di “minimo vitale giornaliero” di acqua potabile da garantire a tutti, a cominciare dalle fasce meno abbienti della popolazione”.
“L'approvazione di questa mozione - ha continuato l'Assessore Realfonzo - non segna tanto il successo di una specifica parte politica bensì un grande momento di affermazione di civiltà e progresso per la città di Napoli che in tal modo si pone alla testa del movimento nazionale e internazionale degli enti locali a favore dell'acqua pubblica”.“A questo punto, mi aspetto che si proceda velocemente ad attribuire la gestione del servizio idrico ad un soggetto interamente pubblico. Dopo poche settimane dal mio insediamento alla carica di Assessore alle Risorse Strategiche del Comune di Napoli, avvenuta nel gennaio scorso, ho fatto una serie di passi in questa direzione, pervenendo alla formulazione di uno schema di delibera che ho provveduto a sottoporre alla attenzione del Consiglio di Amministrazione dell'Ambito Territoriale Ottimale, l'ATO 2, di cui fa parte il territorio del napoletano. Ora, dopo questo impegnativo e stringente pronunciamento del Consiglio Comunale di Napoli, e considerato anche un recente ordine del giorno approvato dal Comune di Caserta, auspico che anche la Provincia di Napoli possa sostenere quella proposta e nulla più ostacoli la realizzazione nel nostro territorio di una esperienza straordinaria nel segno dell'acqua pubblica, della solidarietà e della difesa dei diritti universali. Per quanto mi riguarda - ha concluso l'Assessore Realfonzo – continuerò a battermi per questo risultato”.

Confronto tra economisti sul Mezzogiorno

"Il Foglio" ha organizzato un confronto tra economisti sui temi del Mezzogiorno, sentendo anche me. Qui in basso l'articolo di sintesi:
Economisti nei panni (scomodi) di un ministro per il Sud (ipotetico)
di Marco Valerio Lo Prete
Il Foglio, 29 luglio 2009
L’idea del "ministro del Sud" è balenata, come ha scritto il Foglio qualche giorno fa, nel corso di una riunione tra il premier Silvio Berlusconi e i vertici del Pdl. La proposta, rilanciata nel dibattito su un ipotetico "partito del sud", fa ancora parte a pieno titolo del mondo delle idee non realizzate. Mentre resta in piedi, solida come mai, la cosiddetta "questione meridionale", oggi associata per immediatezza polemica a temi come i fondi (regionali ed europei), il federalismo fiscale e la sanità. Sarebbero questi gli argomenti clou dell’agenda economica di un dicastero del Sud che si insediasse domani. "Di inversione di rotta si è sentito parlare anche troppo - dice al Foglio Carlo Stagnaro, dell’Istituto Bruno Leoni - piuttosto un ministro del Sud dovrebbe fare professione di umiltà e prendere atto che il divario tra nord e sud in termini di reddito pro-capite, qualità del sistema sanitario e dell’istruzione non è diminuito con le politiche attuate fino ad ora". L’alternativa proposta da Stagnaro è quella della "disintossicazione del sud dagli aiuti": "Si tratta di sostituire i finanziamenti diretti dello stato a soggetti specifici con l’impostazione di un ambiente favorevole alla libera intrapresa”. In termini concreti, secondo il think tank liberista, si potrebbe ad esempio abolire I’Irap e ridurre l’Ires per le imprese che operano nel Meridione. "In questo modo tutta l’area diverrebbe più attraente anche per soggetti esteri". Una pietra sul passato la metterebbe anche Gianfranco Polillo, consigliere economico di Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl alla Camera, che giudica "fallimentare" la "nuova politica economica" venuta subito dopo la fine dell’ “intervento straordinario” nei primi anni 90.
"In ossequio a criteri puramente quantitativi, si sono tirati fuori dal cassetto progetti collaterali, figli di interessi particolari, soltanto per tentare di dimostrare che si stava utilizzando la quantità maggiore possibile di denaro". Ma oltre al "quanto" si dovrebbe d’ora in poi tenere presente il "come". Secondo Polillo il problema non è al momento il reperimento dei fondi - visto che "quelli comunitari non sono ancora stati toccati e poi ci sono circa 60 miliardi di euro da gestire per opere in co-finanziamento Ue-Italia" - ma quello di attuare "politiche keynesiane all`interno di un progetto industriale" e di una "coerenza sistemica". Quest’ultima vedrebbe il Meridione essenzialmente come "piattaforma logistica naturale" del nostro paese verso il bacino Mediterraneo e i Balcani: "Un po’ come fu il nord-est verso l’Europa orientale post 1989, soltanto che allora non ci fu bisogno dell’intervento dell’autorità centrale".
Sul fatto che un eventuale ministro del Sud debba seguire una "strategia selettiva degli investimenti" concorda anche Riccardo Realfonzo, professore ordinario di Economia politica all’Università del Sannio e assessore al bilancio del comune di Napoli, che però, pur riconoscendo l’importanza delle reti infrastrutturali, si oppone all’idea di "trasformare il sud in un grande crocevia logistico. Perché in questo modo il valore aggiunto che produrremmo sarebbe ai minimi termini".
L’obiettivo dovrebbe essere piuttosto quello di creare un "modello autopropulsivo", attraverso il rafforzamento innanzitutto dell’apparato produttivo. "L’intervento pubblico può essere il volano di questa operazione", spiega Realfonzo, che sottolinea come in queste ore, sulla rivista telematica da lui diretta (economiaepolitica.it), si parli di “una nuova Gepi per risanare l`industria". Non una "seconda Gepi", visto che con alcuni accorgimenti si può evitare che una struttura di salvataggio e di riorganizzazione di aziende risanabili torni a essere associata automaticamente a sperpero di denaro pubblico e assistenzialismo. Risorse aggiuntive andrebbero reperite "attraverso un fisco maggiormente progressivo e un intervento sulle rendite finanziarie". A proposito del sistema tributario, l’economista ritiene il federalismo fiscale "una mannaia che rischia di abbattersi sul sud", incrinando così la "solidarietà nazionale". E i continui trasferimenti fiscali dal nord verso il sud? "Non ci sono sola questi flussi, ma anche quelli inversi di capitale umano che arricchiscono il nord".
Di avviso diverso è Marcello Crivellini, professore di Analisi e organizzazione dei sistemi sanitari al Politecnico di Milano e consigliere dell’Associazione Luca Coscioni: "Il federalismo fiscale, opportunamente implementato, può essere l’occasione per un’operazione verità sui sistemi sanitari - spiega al Foglio - perché è giusto parlare di due sistemi sanitari in Italia, quello delle regioni di centro-nord e quello del sud. Quest’ultimo con standard di servizio da terzo mondo". Lo dimostra una vera e propria migrazione di pazienti: "Nel 2005 l’indice di fuga raggiunge il 14,7 per cento in Calabria, contro il 3,9 della Lombardia". Possibile invertire la rotta? "Chiunque diventasse ministro del Sud dovrebbe innanzitutto andare a dormire in una caserma dei carabinieri e da lì impegnarsi pubblicamente a non spendere nemmeno un euro in più per la sanità". Quest’ultima già oggi "costituisce il 70 per cento dei bilanci regionali" e, secondo il professore, "i suoi interessi non coincidono con quelli della salute dei cittadini". "La vera proposta riformatrice - conclude - è l’introduzione di un sistema valutazione-informazione-scelta a tutti i livelli del sistema sanitario".

Il Sud affonda nella crisi perenne

Quelli de "il manifesto" mi hanno chiesto un editoriale sul Rapporto Svimez. Lo ripropongo qui in basso.


Il Sud affonda nella crisi perenne

il manifesto, 17 luglio 2009
pagina 1

di Riccardo Realfonzo

Le previsioni più pessimistiche sul Mezzogiorno risultano confermate. Questa amara conclusione si ricava dalla lettura del Rapporto Svimez 2009 il quale mostra inequivocabilmente che il reddito di un cittadino del Sud rappresenta una parte sempre più risicata del reddito di un italiano del Nord. Si tratta, quel che è peggio, di un dato non strettamente congiunturale, dal momento che negli ultimi dieci anni il Sud è cresciuto la metà rispetto al resto del Paese. Ma il grado di sviluppo e di benessere non si misura certo solo in base al reddito. Se guardiamo alla qualità dei servizi pubblici o dell’ambiente, il Mezzogiorno perde ancor più terreno rispetto al resto del Paese. Con il risultato che, in Italia, la povertà, la disoccupazione, il lavoro precario e quello nero si concentrano quasi esclusivamente nel Sud.
Queste considerazioni impietose sullo stato dell’economia meridionale ci spingono a interrogarci sull'efficacia delle politiche per il Mezzogiorno di questi anni. Il riferimento purtroppo non è solo alle scellerate politiche leghiste del Governo in carica (per inciso lo Svimez stima in 18 miliardi la quota di risorse sottratta negli ultimi due anni al Mezzogiorno) ma anche agli interventi sostenuti dalle stesse coalizioni progressiste al livello nazionale e locale. Assolutamente vane si sono infatti dimostrate le speranze di quanti, tra le fila progressiste, credevano nei virtuosi meccanismi spontanei del mercato che avrebbero dovuto attivarsi con la moneta unica, con l'apertura dei mercati, con la precarizzazione del lavoro. Così come del tutto illusori si sono mostrati gli effetti delle privatizzazioni. E qui bisognerebbe interrogarsi sugli esiti delle politiche che hanno sostituito l’intervento straordinario, teorizzate da economisti di moda anche nel centrosinistra benché irretiti dal fascino della concorrenza e dalle teorie neoliberiste. Politiche che hanno visto la sterile stagione degli incentivi automatici e l'erogazione a pioggia dei fondi europei, degenerando troppo spesso in mere strategie del consenso.
Ed ora la gravissima crisi che stiamo attraversando assume nel Mezzogiorno i caratteri cupi dell'emergenza sociale e si abbatte sull'economia come una sorta di gigantesco moltiplicatore dei divari regionali. Come viene sottolineato dalla Svimez: “la diffusa percezione di una crisi che avrebbe riguardato soprattutto le aree più industrializzaste del Paese è purtroppo smentita dai fatti”.
Per tutte queste ragioni, occorrerebbe una svolta nel quadro delle proposte progressiste capace di mettere a valore gli sviluppi recenti del meridionalismo e di recuperare la migliore cultura della programmazione economica e della pianificazione territoriale. Al centro di questa azione – come lo stesso Rapporto Svimez suggerisce – non possono che essere poste le politiche industriali specificamente indirizzate a spingere il tessuto produttivo meridionale verso un “salto” tecnologico e dimensionale. Forse è troppo sperarlo, ma sarebbe davvero il caso che il congresso del Partito Democratico si scuotesse dal torpore, stigmatizzasse qualsiasi ipotesi di aggregazione politica meridionale sul modello leghista, e riprendesse le fila di un dibattito vero intorno alle condizioni per un riscatto del Sud.

I materiali del Convegno "Mezzogiorno Questione Nazionale"

Quello del 9 luglio all’Istituto di Studi Filosofici è stato un appuntamento importante per la città. Se in un afoso pomeriggio di luglio tante persone hanno affollato il salone principale di Palazzo Serra di Cassano (con oltre 200 presenze e 15 interventi), vuol dire che i temi affrontati nel dibattito sono molto sentiti dai napoletani e che l’idea di promuovere un manifesto politico-programmatico per dare impulso a una nuova fase nelle politiche economiche e sociali per il Mezzogiorno coglie un’esigenza reale. Ma di questo avrò occasione di parlare ancora. Per il momento raccolgo qui i materiali del convegno.

La registrazione audio del Convegno fatta da Radio Radicale.

Il testo della mia relazione introduttiva.

Il commento di Aldo Masullo.

Un articolo di Carlo Iannello.

Un servizio televisivo.

Da un blog il video dell'intero dibattito.

Una intervista al Corriere del Mezzogiorno.

Il programma del Convegno.

Masullo sulla proposta di un manifesto politico

MEZZOGIORNO: MASULLO, IDEA MANIFESTO E' SASSO NELLO STAGNO
(ANSA) - NAPOLI, 9 LUGLIO

Un sasso nello stagno che turba e sconvolge lo stato di inerzia e il sopore che avvolge Napoli e tutta l'Italia, anche se non risana la situazione dalle fondamenta: è il commento del filosofo Aldo Masullo alla proposta di un 'manifesto' progressista per una nuova politica di sviluppo in Campania e nel Mezzogiorno, lanciata dall'assessore al Bilancio del Comune di Napoli, Riccardo Realfonzo nel corso di un dibattito pubblico a Palazzo Serra di Cassano. "La proposta di un 'manifesto' - ha sottolineato il filosofo - mi sembra più che altro un parola d'ordine, per mettere insieme idee, pensieri, proposte e provocazioni per cominciare a smuovere le acque. Non deve essere preso alla lettera ma inteso come base da cui cominciare". Per Masullo "l'iniziativa potrà essere importante se gli apparati di potere non lasceranno cadere la proposta nel vuoto, come già successo in passato". (ANSA).

Relazione al dibattito "Mezzogiorno Questione Nazionale"

Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
Mezzogiorno Questione Nazionale


Napoli 9 luglio 2009
Relazione di Riccardo Realfonzo

Negli ultimi venti anni si è fatto di tutto per esorcizzare la “questione meridionale”. Tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, con la fine dell’intervento straordinario, una pessima letteratura spingeva ad abolire il Mezzogiorno, a depennare cioè il problema dal novero delle emergenze dell’economia e della politica italiana. Successivamente, la riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001 eliminava dalla Carta Costituzionale ogni riferimento al Mezzogiorno. E negli ultimi anni l’attenzione dei media è venuta concentrandosi sempre più sulla presunta “questione settentrionale”. Le logiche di intervento regionali si sono orientate verso un preteso federalismo fiscale, che va chiaramente strutturandosi in base agli esclusivi interessi dei gruppi di pressione del Nord.
Siamo stati insomma sotto lo scacco di una logica politica miope e particolaristica, una logica che danneggia il Sud, e con il Sud danneggia la nazione intera. Perché bisogna rimarcare che i destini della nazione e quelli del Mezzogiorno in larga parte coincidono.
Questo significa che “Mezzogiorno questione nazionale” non è semplicemente uno slogan. E’ in primo luogo una evidenza con la quale è tempo di tornare a fare i conti.

E sono conti amari, bisogna dirlo con chiarezza.
Il sistema produttivo del Mezzogiorno ha in questi anni perso progressivamente contatto dai ritmi di crescita della capacità produttiva registrati nel Centro-Nord e nelle aree più sviluppate d’Europa. Con il risultato che in Italia, la povertà, la disoccupazione, il lavoro precario e quello nero sono sempre più esclusivo appannaggio del Mezzogiorno. Le statistiche parlano molto chiaro. Il divario con il Centro-Nord non solo non cala ma ormai da numerosi anni ha ripreso a crescere. L’andamento del reddito pro capite registra un progressivo allontanamento del Mezzogiorno dal Centro-Nord al punto che dal 2000 al 2008 il Mezzogiorno è cresciuto in media la metà del Centro-Nord: +0,6% contro +1%. Ma il divario non si misura solo in base al reddito. Se guardiamo alla erogazione dei servizi pubblici essenziali, o agli indici di salvaguardia ambientale del territorio, il Sud perde sempre più terreno rispetto al resto del paese.
Rispetto a questi pesanti dati di fondo la grande crisi che si sta abbattendo sul sistema economico internazionale agisce come una sorta di moltiplicatore dei divari tra le macroregioni. Le aree e i comparti più forti sembrano in grado di porre un qualche argine alla crisi, mentre quelle più deboli franano. Si badi bene che alcuni dei risultati più allarmanti si registrano proprio dalle nostre parti.
Penso all’esplosione della cassa integrazione che nella provincia di Napoli ha visto nei primi tre mesi del 2009 una crescita tendenziale del 168%, con una punta nel comparto meccanico pari al 254%. E penso al fatto che la Campania si situa ha chiuso il 2008 all’ultimo posto tra le regioni italiane per quanto riguarda il reddito pro-capite, e con il più pesante crollo dei ritmi di produzione di beni e servizi (nel 2008 in Campania il Pil si è contratto del 2,8%).
Purtroppo queste osservazioni vanno ulteriormente qualificate in senso negativo, ricordando che nel Mezzogiorno la congiuntura economica si manifesta sempre con qualche ritardo rispetto al Centro-Nord. E ciò a causa della ridotta integrazione dell’economia meridionale nel sistema degli scambi internazionali. Insomma, teniamo bene a mente che il peggio dalle nostre parti deve ancora venire.

Queste considerazioni sullo stato dell’economia meridionale e campana possono sembrare impietose. Ma io credo che sia indispensabile dirci come stanno davvero le cose, senza infingimenti. Credo infatti che sia necessario stendere un primo bilancio sui risultati della stagione di politiche economiche e sociali cominciata all’indomani della fine dell’intervento straordinario, con la cosiddetta “nuova politica per il Mezzogiorno” che ha accompagnato la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica e la stipula del Trattato di Maastricht, nei primi anni Novanta.
Una “nuova politica per il Mezzogiorno” che è stata teorizzata da economisti e studiosi di orientamento più o meno progressista, irretiti dal fascino della concorrenza e dalle teorie neoclassiche che hanno esaltato negli anni scorsi la perfezione dei meccanismi spontanei di riequilibrio del mercato. Una “nuova politica per il Mezzogiorno” che è stata sostenuta ed attuata soprattutto dai governi nazionali e locali di centrosinistra e che ha avuto ben noti leader nazionali ed altrettanto noti leader locali, sindaci e presidenti di regioni.
Purtroppo, lo dico subito, il bilancio della “nuova politica per il Mezzogiorno” è da ritenersi complessivamente negativo. E ciò perché tutti i vincoli, tutte le “strozzature” allo sviluppo del Sud che erano presenti alla fine degli anni ’80 non sono scomparsi, ma anzi si sono persino aggravati. Penso alle principali caratteristiche negative dell’economia meridionale: la ridottissima dimensione media delle imprese; il prevalere di un modello di specializzazione produttiva fondato sull’impiego di tecnologie tradizionali e, in molti casi, superate; la scarsa quantità e qualità delle infrastrutture; le difficoltà nell’accesso al credito bancario; la diffusione dell’economia irregolare e criminale.
Siamo dunque al cospetto di una stagione di politiche per il Mezzogiorno che ha segnato un insuccesso. E credo che questo serva a spiegare non poco anche il deficit di consensi registrato dalle coalizioni di centrosinistra nel Mezzogiorno; qui evidentemente il pensiero va alle sconfitte elettorali recenti, rispetto alle quali non ci si può certo nascondere dietro un dito o dietro qualche parziale affermazione di bandiera.
Permettetemi di sottolineare la necessità di assumere piena consapevolezza dell’insuccesso delle politiche economiche e sociali per il Mezzogiorno portate avanti in questi anni. Per ripartire con una nuova strategia di sviluppo per il Mezzogiorno e rilanciare le forze progressiste sul piano nazionale, e prima ancora su quello locale, qui a Napoli e in Campania, è indispensabile ammettere che si è sbagliato e comprendere dove si è sbagliato. E’ necessaria una critica del tempo presente per costruire una reale, credibile chance per il futuro.

Proviamo ad andare più a fondo nel ragionamento. Chiediamoci quali siano stati gli assi portanti delle politiche per il Mezzogiorno sostenute in questi anni dalle coalizioni progressiste.
Una prima riflessione credo che dovremmo svolgerla in merito agli effetti dell’apertura dei mercati conseguente alla unificazione monetaria. Negli anni passati su questo aspetto ha prevalso nettamente una posizione “ottimistica”, di ispirazione neo-liberista, eppure ampiamente sostenuta da alcune forze del quadro progressista. Una posizione secondo la quale il Mezzogiorno avrebbe dovuto trarre automaticamente vantaggio dall’integrazione con le aree più sviluppate. E ciò per effetto della specializzazione nella produzione e nell’esportazione di beni in cui il Mezzogiorno gode di un vantaggio comparato, essenzialmente rappresentato da un minore costo del lavoro. Secondo questo approccio, l’unificazione monetaria avrebbe offerto al Mezzogiorno una importante occasione di rilancio proprio perché sarebbe scattata a nostro favore la famosa “legge dei vantaggi comparati”.
Naturalmente, affinché ciò accadesse, occorreva favorire non solo la libera circolazione dei capitali ma anche la mobilità del lavoro e la flessibilità salariale. Occorrevano dunque politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro. Queste avrebbero infatti assicurato il contenimento dei salari, come effetto di una contrazione dei sistemi di protezione dei lavoratori in un contesto caratterizzato da ampia disponibilità di manodopera e disoccupazione.
In sostanza, secondo questo schema logico complessivo, la mobilità dei capitali e la flessibilità del lavoro avrebbero dovuto assicurare ampie delocalizzazioni in entrata nel Mezzogiorno e un rilancio della capacità d’esportazione del Sud. Insomma un vero e proprio volano dello sviluppo meridionale.
Purtroppo, alla prova dei fatti questi schemi di ragionamento ottimistici e basati sui meccanismi spontanei di aggiustamento del mercato sono risultati illusori. Gli unici effetti concreti si sono registrati nel mercato del lavoro, dove la deflazione salariale e la “trappola della precarietà” – per cui a un lavoro precario segue un altro lavoro precario e il contratto a tempo indeterminato resta per tanti un miraggio – hanno spinto ad una ripresa in grande scala dei flussi migratori verso il Centro-Nord.
Le responsabilità delle forze politiche progressiste sono purtroppo grandi. Penso al varo del Pacchetto Treu, che ha aperto la strada all’involuzione della legge 30 del 2003. E penso al sostegno alla decentralizzazione della contrattazione salariale. Lasciatemi a riguardo sottolineare quanto sia stata dogmatica e irresponsabile da parte di economisti ed esponenti politici la fiducia verso quei meccanismi di mercato. Al punto che non era a destra ma tra le fila del centrosinistra che fino a poco tempo fa si trovavano i più strenui sostenitori del taglio all’intervento pubblico e dei vincoli del Trattato di Maastricht.
Io credo che oggi si possa serenamente affermare che il Mezzogiorno ha pagato un prezzo caro per le politiche questi anni di apertura del mercato dei capitali, precarizzazione del mercato del lavoro e contrazione dell’intervento pubblico. E di tutto ciò oggi il centrosinistra paga un caro prezzo in termini di consenso, soprattutto nel mondo del lavoro.

Una ulteriore riflessione dovrebbe poi concernere le politiche di privatizzazione, cui pure le forze progressiste hanno spesso finito per indulgere, e gli effetti che queste politiche hanno avuto sul Mezzogiorno.
A questo proposito, oltretutto, bisogna tenere altissima la guardia, in questa fase, perché la voglia di preparare una nuova ondata di privatizzazioni al dine di concludere nuovi affari con la giustificazione di fare cassa in tempi di crisi è molto alta, e vedrete che tentativi in questa direzione ve ne saranno fin dal prossimo futuro.
Eppure sarebbe utile domandarsi quale sia stato l’impatto delle privatizzazioni degli anni scorsi, in Europa, in Italia e soprattutto nel Mezzogiorno.
Anche qui siamo al cospetto di un tema complesso, ma sul quale vi è ormai un’ampia letteratura. Penso ad esempio agli studi sulle privatizzazioni bancarie, che mostrano come ormai il Mezzogiorno sia l’unica grande area d’Europa priva di un suo sistema bancario. Le ricadute di questi fenomeni sono spesso sottaciute, ma sono in realtà gravissime.
Io vorrei qui limitarmi a sottolineare che il controllo sui flussi di risparmio e investimento privato nel Mezzogiorno è ormai esterno al Mezzogiorno stesso. E vorrei sottolineare quanto si impoverisca un’area quando i flussi di profitti sistematicamente fuoriescono da essa, specie se vengono meno i guadagni in termini di efficienza ed abbattimento dei costi del credito che pure erano stati pronosticati dai soliti economisti neo-liberisti.

Sul piano delle politiche industriali e territoriali, questi anni si sono caratterizzati dall’impegno delle Regioni nell’implementazione delle politiche di spesa che hanno sostituito l’intervento straordinario. Il riferimento è, in particolare, alla gestione dei fondi europei. Una gestione nella quale si è consumato un evidente fallimento.
Questa nuova stagione di intervento per il Mezzogiorno si è aperta, è bene ricordarlo, con la retorica che esaltava le piccole imprese e le tecnologie tradizionali, che lodava i distretti del made in Italy e le tradizioni locali, che chiedeva sostegno per le vocazioni dei territori e l’imprenditorialità diffusa. Elementi questi a cui si accompagnava non solo la critica a tutte le forme di intervento diretto dello Stato nell’economia, ma anche la condanna di qualsiasi strategia di sviluppo unitaria o centralizzata. Una filosofia che comprendeva anche la diffidenza verso la grande industria ritenuta sempre inevitabilmente inquinante e le cui scelte localizzative risultavano generalmente imposte ai territori.
Per queste ragioni il modello di intervento che si è progressivamente imposto in Campania e nel Mezzogiorno ha puntato sui sistemi di incentivazione “dal basso”, sul finanziamento dei progetti imprenditoriali elaborati da partenariati locali.
Purtroppo gli esiti della stagione degli strumenti della programmazione negoziata e delle politiche “bottom-up” è stata rovinosa dal punto di vista dei risultati. Essenzialmente queste politiche hanno finito per dare vita a un gigantesco sistema di intermediazione politica che generato poco sviluppo, che ha tenuto in vita un sistema di piccole imprese ormai fuori mercato, e che sostanzialmente ha erogato finanziamenti a pioggia. Insomma, l’impiego dei fondi europei non ha innescato nessun meccanismo di sviluppo endogeno, autopropulsivo, ma ha finito per fare della nostra regione un’area sussidiata ed assistita quanto mai in passato. È stato così che quella che avrebbe dovuto essere una strategia di politica economica ha finito per degenerare in una mera strategia del consenso. Se in Campania e nel Mezzogiorno vi è una vera “questione morale” che riguarda la politica è proprio questa: il fatto che i fondi pubblici, in particolare i fondi europei, non siano serviti a innescare lo sviluppo ma di fatto abbiano finito solo per alimentare un consenso miope e talvolta persino da accatto.

Insomma, le politiche per il Mezzogiorno caldeggiate dal centrosinistra in questi anni – pur con distinguo ed eccezioni – hanno registrato significativi insuccessi. E oggi il Mezzogiorno si trova in una posizione più arretrata rispetto al Centro-Nord rispetto agli anni dell’intervento straordinario. Ed inoltre corre oggi il rischio di essere preso e lungamente dominato dalle destre, cioè da forze politiche e sociali la cui testa pensante si situa chiaramente e indiscutibilmente al Nord, e le cui diramazioni meridionali colludono sistematicamente con l’economia ultra-sommersa e talvolta criminale.
Insomma, la verità è che il fallimentare liberismo di sinistra di questi anni apre oggi la strada a soggetti politici che puntano a fare del Sud una terra bruciata e ancor più servile, utile solo a caricare voti a basso costo.
In questo quadro risulta particolarmente negativa la realtà della nostra regione che, accanto all’involuzione dell’apparato produttivo, ha scontato numerose altre emergenze, tra cui quella dei rifiuti.
Per tutte queste ragioni credo si debba dire con chiarezza che un ciclo politico e di politica economica si è concluso e che sarebbe auspicabile che le forze intellettuali, sociali e politiche del mondo progressista riescano a far partire un ciclo nuovo.
Ogni sterile riproposizione delle vecchie politiche e delle vecchie logiche di questi anni non farebbe infatti che aggravare la realtà del sottosviluppo per poi consegnare inevitabilmente le redini della politica economica e sociale nelle mani delle forze più retrograde. Serve insomma una profonda discontinuità, non solo o non tanto un cambiamento di nomenclature bensì una vera discontinuità nell’analisi e nel quadro delle strategie di politica economica e sociale. Ripeto: se non ce ne rendiamo conto e se continuiamo a discutere di rilancio solo in termini di coalizioni e intese tra apparati e non sul merito delle cose, semplicemente allungheremo l’agonia attuale. Occorre cogliere una sfida “alta”, per una politica economica alternativa.

Per comprendere allora quale sia la direzione lungo la quale muoversi è opportuno rivolgersi alle accurate analisi del cosiddetto “nuovo meridionalismo”. Mi riferisco ai recenti studi che in ambito scientifico hanno aggiornato i modelli dualistici di sviluppo degli anni ’70 alla luce degli effetti della unificazione monetaria e più in generale dei meccanismi di mercato attivati dal quadro macroeconomico definito a Maastricht. Ebbene, questa letteratura ha ormai mostrato – per dirla con il premio Nobel 2008, Paul Krugman – che il Mezzogiorno non è più un caso isolato e che su scala europea sono attivi processi di mezzogiornificazione imponenti. Cioè processi spontanei di crescita del divario tra centri e periferie.
È chiaro che per contrastare la crescita dei divari regionali occorre contrastare le forze spontanee del mercato che vanno proprio verso l’accentramento dei capitali e dello sviluppo. Serve un quindi un imponente intervento pubblico. E ciò conduce a ritornare a discutere criticamente i vincoli posti alla spesa pubblica dal Trattato di Maastricht e a una necessaria riattribuzione di ruoli e risorse alla spesa pubblica per il Mezzogiorno. E ciò significa che occorrerà spingere per un superamento della logica attuale del Patto di Stabilità Interno.
Accanto alla questione della quantità della spesa occorrerà anche tornare a discutere di qualità della spesa. Ed è su questo terreno che una forte discontinuità a livello locale si presenta indispensabile. Ciò significa essenzialmente dismettere la logica delle politiche bottom-up e dei finanziamenti a pioggia per indirizzare i finanziamenti secondo strategie di sviluppo che possano innescare processi di crescita veri. Insomma, significa ragionare in termini di programmazione economica e pianificazione territoriale.
Al centro di questa azione occorrerebbe collocare le politiche industriali, nella consapevolezza che per promuovere uno sviluppo che non sia subalterno e che possa essere autopropulsivo occorre una capacità di produrre beni e servizi all’altezza della concorrenza internazionale. Ciò significa che le politiche industriali non possono essere indirizzate che a far compiere al tessuto produttivo meridionale un “salto tecnologico”. In altri termini spingere le imprese a crescere nella loro dimensione media, ad utilizzare tecnologie avanzate e lavoro di qualità.
Al tempo stesso occorre difendere le risorse pubbliche e i servizi pubblici fondamentali che, nell’interesse generale, devono restare in mano pubblica. Il punto di partenza qui credo che dovrebbe essere costituito dal servizio idrico integrato che dovrebbe essere sottratto dal rischio di una gestione privatistica ed essere affidato ad un soggetto interamente pubblico, ad una azienda speciale.
Questa azione non può che svolgersi in un quadro di difesa dei ceti più deboli minacciati dalla crisi e di rispetto per il territorio, nel quadro delle regole territoriali ed urbanistiche, che già troppe volte è stato sottoposto a saccheggi.

A questo riguardo, vorrei parlare chiaro, con assoluta franchezza. Da quando sei mesi fa ho assunto l’incarico di assessore al Bilancio e alle Risorse strategiche del Comune di Napoli, ho intrapreso con convinzione persino un po’ caparbia una linea di indirizzo politico esattamente fondata sui principi appena enunciati.
Ho sostenuto in questo senso una strategia basata sulla massima trasparenza dei bilanci, sulla individuazione degli sprechi, sulla difesa e sul rilancio del servizio pubblico, e sulla tutela delle fasce più deboli della popolazione. Una strategia, insomma, di “rigore nel pubblico per la difesa del pubblico”.
E in effetti, qualche passo in avanti in questa giusta direzione lo abbiamo fatto. E di qualche successo possiamo addirittura andar fieri.
Tuttavia una vera e soprattutto vincente discontinuità richiede più massa critica.
In questi mesi abbiamo infatti anche compreso una cosa: un pieno rinnovamento richiede più forza politica e quindi, a mio modesto avviso, richiede più partecipazione sociale, richiede più democrazia, richiede un contatto continuo e più diretto tra i responsabili dell’amministrazione e le forze sane e vive della società.
In questo senso, io credo che per il prossimo futuro occorrerà prepararsi adeguatamente affinché le forze progressiste possano presentarsi alla opinione pubblica in modo convincente, sappiano cioè suscitare speranze fondate e chiamare a raccolta nuove energie, sulla scorta di un programma nuovo, di un nuovo e più trasparente, più partecipato rapporto con i cittadini, di un rapporto che sappia fare tesoro delle difficoltà, degli errori, delle nefandezze, e delle enormi disillusioni di questi anni.
Ecco perché io credo sarebbe molto utile se le forze progressiste, le forze vitali e sane di questa città intraprendessero un percorso nuovo, un percorso comune e partecipato, che conduca a breve termine alla costituzione di un manifesto politico.
Un manifesto che invochi e indichi una chiara, precisa linea di discontinuità e di innovazione programmatica per il futuro della nostra città, della regione, e del Mezzogiorno.
Un manifesto è un po’ come il primo, decisivo mattone di un edificio politico. Un manifesto cattivo e autoreferenziale crea le premesse per un edificio brutto e fragile.
Ma noi vorremmo un edificio bello, solido, e soprattutto lo vorremmo costruire assieme. Per questo credo che questo possa essere il tempo di chiamare a raccolta le energie sane di questa città per lavorare assieme all’apertura di una nuova stagione di partecipazione civile e politica. Partecipare alla costruzione di un manifesto, per definire obiettivi condivisi e ben delineati, può essere una operazione di maniera, oppure al contrario può essere una opera serissima, e tutt’altro che semplice. Personalmente lo concepisco come un modo diverso per concepire l’azione politica in una città e in una regione afflitte dall’autoreferenzialità del potere. E soprattutto può costituire un primo modo per stabilire un reale contatto, per costruire canali duraturi di comunicazione, un modo per iniziare a misurarsi da vicino, per valutarsi e per giudicarsi sempre reciprocamente e sempre a viso aperto.
Per questo abbiamo bisogno di tante forze, di tante competenze, abbiamo bisogno di mettere a valore ogni singola esperienza quotidiana.
Spero quindi che in tanti ci aiuterete alla elaborazione di questo nuovo manifesto, nella consapevolezza che solo da una chiara critica del presente possa scaturire una concreta speranza per il futuro, vale a dire una credibile, precisa alternativa di politica economica e sociale, costruita non astrattamente e dall’alto, ma su basi democratiche, sulla base della esperienza e della partecipazione di tutti coloro i quali credono che una politica onesta e rigorosa in questa città e nel Mezzogiorno non sia affatto una chimera da anime belle, ma sia una possibilità concreta sulla quale si può e si deve scommettere. Grazie.

Qualunquismo meridionale trasformismo italiano

di Carlo Iannello
Repubblica Napoli, 9 luglio 2009
Oggi nella sede dell´Istituto italiano per gli studi filosofici, in via Monte di Dio 14, alle 16, si svolge il dibattito "Mezzogiorno questione nazionale. Una critica del tempo presente per una nuova politica di sviluppo". Questo incontro si propone di chiarire dove è inciampato il centrosinistra in questi anni e quale può essere una nuova strategia progressista di politica economica e sociale per la Campania e il Mezzogiorno.
La relazione principale è affidata a Riccardo Realfonzo, economista e da qualche mese assessore alle Risorse strategiche del Comune di Napoli. Seguiranno gli interventi di Luca Bianchi (Svimez), Massimo Brancato (Fiom-Cgil), Sergio Marotta (Suor Orsola Benincasa), Rosario Patalano (Federico II); parteciperanno al dibattito numerosi ed autorevoli intellettuali, politici e sindacalisti. Il convegno parte dalla presa d´atto che la fine dell´intervento straordinario, sancita ad inizio degli anni ´90, ha finito per trasformare la questione meridionale da priorità nazionale ad un problema di carattere esclusivamente locale.
Mentre lo Stato centrale si disinteressava del Mezzogiorno, faceva il suo ingresso nel dibattito politico italiano una mistificante questione settentrionale: nell´immaginario collettivo, il Sud diveniva un parassita che sfrutta le risorse del Nord attivo e produttivo.
Occorreva dunque liberare il Nord dal peso insostenibile del meridione. Si è così capovolto il presupposto di ogni politica meridionalista, ossia che esiste una sola questione, quella dello Stato unitario che deve condurre sulla via dello sviluppo sociale ed economico l´intero Paese, attraverso una rigorosa programmazione economica e territoriale. In netta controtendenza rispetto al pensiero meridionalista classico, la politica italiana degli ultimi 20 anni ha invece cancellato il Mezzogiorno. Addirittura, con la modifica del titolo V della Costituzione del 2001, approvata dal centrosinistra, è stato eliminato dal testo costituzionale ogni riferimento ad esso.
Ma quali esiti per il sistema Paese hanno prodotto queste politiche, dalla legge Bassanini alla riforma federalista della Costituzione? E quale è stata l´efficacia delle politiche locali per lo sviluppo, a cominciare dalla Campania? Le politiche degli ultimi due decenni non solo non sono riuscite ad impedire il declino del Paese, ma hanno addirittura contribuito ad aggravare lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. La fine della programmazione ha enormemente limitato il ruolo dello Stato. La crescita dei poteri locali e regionali, accompagnata dalla abolizione dei controlli, ha compromesso anche l´azione di questi enti, sempre più spesso preda di interessi particolari. Il potere locale è così divenuto sempre più autoreferenziale, scollegandosi dalla società e finendo col radicare delle forme di intermediazione politica, all´interno delle quali hanno avuto la meglio gli interessi parassitari. Si sono così ulteriormente aggravate le condizioni di vita delle popolazioni meridionali, come mostrano i recenti allarmanti dati che vedono la Campania in fondo alle classifiche dello sviluppo. Non pochi segnali indicano il pericoloso epilogo di queste politiche: il rischio è quello di trasformare il dualismo economico in un pericoloso dualismo politico.
È per queste ragioni che mi pare quantomai opportuno un dibattito che si proponga di ribaltare la prospettiva con cui negli ultimi 20 anni è stata affrontata la questione meridionale: come avevano chiaramente compreso i classici del meridionalismo, da Fortunato a Nitti a sino Saraceno, il Mezzogiorno rappresenta una questione cruciale dell´intero Paese. Occorre evitare di seguire le astratte sirene di un qualunquismo meridionale che ha tutti i tratti del trasformismo italiano, puntare sul ruolo della programmazione, sull´intervento pubblico nell´economia, sulla salvaguardia degli asset strategici, come i servizi pubblici locali: solo all´interno di un quadro siffatto si può immaginare un mercato sano portatore di sviluppo. Al di fuori di questa cornice, come spesso accaduto in questi ultimi anni, vincerà la spoliazione sistematica dei beni pubblici a danno dei cittadini e soprattutto delle popolazioni meridionali

"Ora serve discontinuità". Intervista a Realfonzo

di Patrizio Mannu

Corriere del Mezzogiorno

8 luglio 2009


NAPOLI - E' una «discontinuità» quella che auspica Riccardo Realfonzo, economista e da pochi mesi assessore al Bilancio del Comune di Napoli; «una nuova strategia di politica economica e sociale per la Campania e per il Mezzogiorno», dice il prof. «Vorrei discutere più di contenuti che di contenitori», continua, e l'allusione è forse a Sudd e forse a quell'alleanza fra governatori di cui si parla in questi giorni. «Quell'alleanza può essere utile a ottenere più fondi - dice Realfonzo - ma il punto è: per farne poi cosa?».

Professore, perché la necessità di ripensare quanto fatto finora per il Meridione?

«Bisogna far luce su cosa non ha funzionato nelle politiche messe in campo in questi anni dal centrosinistra sia a livello nazionale che locale. Occorre dirsi con franchezza dove si è sbagliato per formulare una alternativa».

Cosa fare e, soprattutto, come farlo sarà l'oggetto di «Mezzogiorno questione nazionale. Una critica del presente per una nuova politica di sviluppo», il tema del dibattito in programma domani (ore 16) all'Istituto italiano per gli studi filosofici, in via Monte di Dio. La relazione è affidata allo stesso Realfonzo. Ai lavori, moderati dal giurista Carlo Iannello, interverranno Rosario Patalano (economista), Luca Bianchi (Vicedirettore della Svimez) Massimo Brancato (Segretario Fiom Cgil), Sergio Marotta (giurista) insieme a numerosi intellettuali, sindacalisti e politici. Realfonzo cosa non ha funzionato nelle politiche messe in campo in questi anni per il Meridione?

«Molte cose. Al livello nazionale, non hanno generato gli effetti che alcuni si attendevano dalle politiche di precarizzazione del lavoro, avviate proprio dal centrosinistra, e di moderazione salariale. Anche la strada della moneta unica e dell'apertura dei mercati non ha innescato quel volano allo sviluppo in cui taluni confidavano. Il tutto mentre veniva demonizzata ogni forma di intervento pubblico».

Immagino che le sue critiche si appuntino anche ad un livello territoriale di interventi di sviluppo.

«Anche qui le politiche messe in campo sono fallite. Pensiamo ai fondi europei: in Campania sono stati distribuiti inseguendo la retorica delle vocazioni locali e dell'imprenditorialità diffusa. Bottom up, si dice. Su richiesta dell'imprenditore. Si è abbandonata qualsiasi strategia e infatti non si è innescato alcun meccanismo di sviluppo autopropulsivo. L'utilizzo dei fondi europei in fin dei conti è stato utile solo a mantenere consenso clientelare e intermediazioni politiche».

Cosa abbiamo ricevuto in cambio?

«Il Mezzogiorno nel suo insieme si è sempre più allontanato dal Nord. Il dualismo nel Paese si è ulteriormente accentuato».

Cosa proponete dunque?

«Propongo di arrivare a un ''manifesto politico", come esito di un processo condiviso e partecipato che coinvolga il meglio delle forze progressiste cittadine e campane. Un manifesto che, partendo dalla critica del presente, indichi una strategia di politica economica e sociale nuova per la Città, per la Campania e per il Mezzogiorno. Serve una vera discontinuità. Ad esempio sulle politiche industriali occorrerebbero interventi selettivi, per spingere le imprese verso un salto tecnologico e dimensionale. E poi è essenziale tenere in mano pubblica i servizi pubblici fondamentali. A cominciare dal servizio idrico, che dovrebbe essere gestito da un'azienda speciale».

Realfonzo che ne pensa del Patto fra governatori del Sud?

«Un alleanza che rafforzi il potere contrattuale delle regioni meridionali può essere utile a ottenere più fondi. Ma il punto è: per fare cosa?».

Mezzogiorno Questione Nazionale

ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

Dibattito pubblico sul tema:

Mezzogiorno Questione Nazionale
Una critica del presente per una nuova politica di sviluppo

Napoli, Palazzo Serra di Cassano

giovedì 9 luglio, ore 16,00

La scomparsa della questione meridionale dal dibattito pubblico italiano, culminata con la riforma del Titolo V della Costituzione che ha eliminato ogni riferimento al Mezzogiorno, si è accompagnata ad un ulteriore aggravamento del dualismo economico del Paese. Sono sempre più urgenti momenti di riflessione pubblica che - mettendo a confronto studiosi, politici, esponenti della società civile, alla luce della più recente letteratura scientifica sul meridionalismo - giungano ad elaborare proposte per una nuova politica di sviluppo per il Mezzogiorno. Punto di partenza non può che essere l'individuazione dei limiti delle politiche economiche e sociali che sono state implementate in questi anni, tanto a livello nazionale quanto a livello locale, spesso sotto l'influsso di una ideologia che ha pervaso anche parte delle forze progressiste all'insegna della presunta necessità di esaltare il ruolo del mercato e ridimensionare sempre e comunque l'intervento pubblico. Ora si tratta di individuare i caratteri di una nuova strategia che, chiudendo qualsiasi spazio ad involuzioni separatiste, punti al rigore nelle responsabilità amministrative e politiche oltre che alla difesa e al rilancio degli asset strategici pubblici, riportando al centro i temi della gestione pubblica dei servizi fondamentali (in primo luogo le risorse idriche), nonché le questioni delle politiche industriali, della solidarietà sociale e della qualità del lavoro.

Relazione
Riccardo Realfonzo
(economista, Università del Sannio, e Assessore alle Risorse Strategiche del Comune di Napoli)

Modera
Carlo Iannello (giurista, Seconda Università di Napoli)


Intervengono
Rosario Patalano (economista, Università di Napoli “Federico II”)
Luca Bianchi (Vicedirettore della Svimez)
Massimo Brancato (Segretario Fiom-CGIL Napoli)
Sergio Marotta (giurista, Università Suor Orsola Benincasa)

Partecipano al dibattito
Gerardo Marotta (Presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Enzo Amendola (Coordinatore RED Campania), Emiliano Brancaccio (economista, Università del Sannio), Giuseppe Comella (Presidente delle Assise di Palazzo Marigliano), Salvatore D'Acunto (economista, Seconda Università di Napoli), Guido D'Agostino (Presidente dell'Istituto Campano per la Storia della Resistenza), Nino Daniele (Sindaco di Ercolano), Peppe De Cristofaro (Coordinatore Movimento per la Sinistra Campania – Sinistra e Libertà), Gigi De Falco (Presidente Italia Nostra Campania), Antonio Di Gennaro (agronomo), Emilio Esposito (ingegnere gestionale, Università di Napoli “Federico II”), Andrea Geremicca (Presidente della Fondazione Mezzogiorno Europa), Francesco Saverio Lauro (Coordinatore di “Giustizia e Libertà”, Napoli), Giovanni Laino (urbanista, Università di Napoli “Federico II”, e Associazione quartieri spagnoli), Alberto Lucarelli (giurista, Università di Napoli “Federico II”), Maurizio Mascoli (Segretario Fiom-CGIL Campania), Eugenio Mazzarella (filosofo, Università di Napoli “Federico II”, e Camera dei Deputati), Luigi Mascilli Migliorini (storico, Università degli Studi L'Orientale, e "Sinistra svegliati"), Enzo Morreale (Presidente Comitato Civico S. Giovanni a Teduccio), Vito Nocera (Capogruppo di Rifondazione Comunista, Regione Campania), Tullio Pironti (Editore), Raffaele Porta (Università di Napoli “Federico II”), Luca Rossomando (Napoli Monitor), Marco Savarese (Meetup di Beppe Grillo), Francesca Stroffolini (economista, Università di Napoli “Federico II”), Massimo Villone (giurista, Università di Napoli “Federico II”), Salvatore Vozza (Sindaco di Castellammare di Stabia), Lorenzo Zoppoli (giurista, Università di Napoli “Federico II”, e Associazione Etica Pubblica).
Segreteria organizzativa:
Stefano D’Ambrosio, Francesco Pingue
email: convegno.mezzogiorno@gmail.com
telefono: 334 5440240

Approvato in Giunta il bilancio 2008, all'insegna della trasparenza

Finalmente la Giunta del Comune di Napoli ha approvato il bilancio consuntivo relativo all'anno 2008 con il quale l'amministrazione va avanti lungo la strada della trasparenza e veridicità delle scritture.
Come ebbi già modo di sottolineare nello scorso gennaio, qualche giorno dopo l'insediamento alla carica di Assessore, la gestione relativa al 2008 è stata caratterizzata da alcune difficoltà. In parte esse sono riconducibili a scelte governative – come quelle relative all'ICI prima casa e ai vincoli del Patto di Stabilità Interno – che in alcuni casi hanno ridotto le risorse a disposizione del Comune e in altri hanno generato un forte rallentamento delle disponibilità di cassa. Altre criticità hanno riguardato la scarsa capacità del Comune in alcune categorie di riscossioni e la impennata dei debiti fuori bilancio. Per quanto concerne le riscossioni, risultano particolarmente critiche quelle relative alle multe stradali e ai proventi derivanti dalle locazioni del patrimonio immobiliare comunale, rispettivamente ferme al 30% e al 33% delle somme che andavano riscosse, con impatti a cascata sui tempi di pagamento del Comune. Per quanto riguarda i debiti fuori bilancio, essi hanno raggiunto nel 2008 l'importo di 96 milioni di euro. Proprio a causa di un debito fuori bilancio non coperto al 31 dicembre 2008 è scattato anche un terzo parametro di deficitarietà. Si tratta di una situazione degna di attenzione che comunque non comporta alcun effetto automatico, e alla quale abbiamo provveduto a porre rimedio trovando adeguata copertura nel bilancio di previsione 2009.
Sono queste le ragioni principali che hanno creato difficoltà all’Amministrazione partenopea, che comunque è riuscita a rispettare nel 2008 il Patto di stabilità interno e ad assicurare le risorse essenziali per i servizi pubblici locali e per il sociale. Una situazione che ha visto crescere anche l'indebitamento del Comune, che è comunque restato entro i valori medi dei Comuni italiani.
Con la redazione del bilancio consuntivo 2008 il Comune ha portato avanti un'azione di grande prudenza e veridicità delle voci di bilancio. In primo luogo, i dirigenti hanno operato la revisione dei residui attivi cancellando oltre 182 milioni di crediti del Comune, di cui quasi 124 relativi alle entrate extra-tributarie (in particolar modo per contravvenzioni al Codice della strada e per fitti attivi). Inoltre hanno effettuato un esame accurato dei crediti dubbi, determinando un fondo svalutazione crediti in crescita rispetto al passato, quantificato in circa 177 milioni. Alla luce di questa azione improntata alla veridicità e alla solidità delle voci di bilancio, l'avanzo di amministrazione risulta assorbito dal fondo svalutazione crediti e dunque non utilizzabile ai fini del finanziamento di nuove spese.
Le operazioni prudenziali appena descritte si muovono nel segno del rigore e rispetto delle norme. Restano, tuttavia, crescenti preoccupazioni alimentate dalla generale crisi economica, che non riguardano solo l'amministrazione napoletana e che non consentono di indulgere a facili ottimismi ma che piuttosto sollecitano interventi statali, in particolare a favore degli enti locali del Mezzogiorno.