"dissento da quello che gli economisti americani chiamano mainstream, il comune modo di pensare della maggioranza. La nuova generazione di economisti, purtroppo, è fatta di conformisti" (Augusto Graziani)
Il Pd apra la sfida per un'altra Europa
Il Pd apra la sfida per un'altra Europa
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 5 dicembre 2013
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 5 dicembre 2013
Qualunque sarà l’esito, la partecipazione democratica dell’8 dicembre segnerà un punto a favore della sinistra. Ma sul tema cruciale dell’Europa il confronto tra i candidati alle primarie non è mai realmente decollato; eppure per le sorti del Pd è vitale che il prossimo segretario assuma una posizione chiara e non demagogica sull’Europa. Se questo non accadrà, non è difficile prevedere che, passata la festa delle primarie e anche indipendentemente dalle sorti del governo nazionale, le elezioni europee consegneranno alla sinistra italiana una nuova delusione. Il punto, infatti, è che mentre il Pd tentenna e il governo rispetta i vincoli europei, Grillo da un lato e Berlusconi dall’altro parlano alla pancia del Paese, e si attrezzano per cavalcare il profondo malcontento che cresce intorno all’euro. Insomma, in assenza di una posizione convincente, il Pd rischia di rimanere spiazzato dagli avversari politici. C’è invece da augurarsi che il Pd faccia propria una posizione seria e precisa, realmente utile al Paese.
Per cominciare, il Pd dovrebbe trarre le conseguenze di ciò che agli addetti ai lavori è ormai chiaro: il sistema di vincoli europei sulle politiche monetarie e fiscali sta aggravando il profilo della crisi italiana e, più in generale, l’austerity sta moltiplicando gli squilibri europei, aumentando la divaricazione tra le aree centrali sviluppate, Germania in testa, e le aree periferiche, tra cui l’Italia. Si tratta di evidenze ormai acclarate, che hanno smentito un’idea bizzarra che fino a poco tempo fa andava di moda a Bruxelles come a Roma, secondo cui l’austerità avrebbe costretto le economie dei paesi periferici a “modernizzarsi”, avrebbe quindi sanato le asimmetrie continentali e avrebbe addirittura avuto effetti espansivi sull’economia. Piuttosto, come è stato chiarito nel “monito degli economisti” pubblicato dal Financial Times e riprodotto da L’Unità, il perdurare della crisi e l’accentuarsi delle divaricazioni mettono in luce che l’Unione non è stata affatto messa in sicurezza, come qualcuno affrettatamente si ostina a ripetere: la verità è che in assenza di una profonda discontinuità nelle politiche economiche, resta altissimo il rischio che alcuni paesi siano costretti a uscire dall’euro.
È su quest’ultimo passaggio, in particolare, che il Pd è chiamato ad assumere una posizione realistica e responsabile. Il dibattito contemporaneo – che per anni ha visto gli economisti keynesiani isolati nel denunciare i limiti dell’austerità – viene infatti oggi affollandosi di pseudo-esperti che vedono nell’uscita dall’euro e nei cambi flessibili la panacea per tutti i mali. Secondo queste tesi l’Italia dovrebbe abbandonare immediatamente l’euro per riprendere un sentiero di crescita. A riguardo, bisogna provare a essere chiari. È vero, infatti, che in assenza di un mutamento delle politiche europee la stessa Italia potrebbe essere costretta ad abbandonare l’euro, sotto la pressione delle tensioni economiche e sociali. Ma questa dovrebbe essere considerata comunque un’ultima spiaggia, una soluzione da adottare dopo avere concretamente verificato sino in fondo l’impossibilità di cambiare il quadro europeo. Infatti, non si possono superficialmente sottovalutare i potenziali costi sociali di una fuoriuscita dall’euro. Ad esempio, le esperienze dei paesi che hanno abbandonato accordi di cambio fisso segnalano che gli effetti sui salari sono stati molto diversificati tra loro, con paesi che hanno retto molto bene l’urto ma anche con altri che hanno fatto registrare pesanti cadute del potere d’acquisto.
Quanto appena affermato aiuta a chiarire che l’introduzione di un rinnovato sistema di adeguamento automatico dei salari ai prezzi ridurrebbe i rischi, rendendo socialmente più accettabile una eventuale uscita dall’euro. Ma è chiaro che si tratta di uno scenario ipotetico che andrebbe evitato. Un modo per scongiurarlo, forse, potrebbe proprio consistere in una novità politica: il Pd potrebbe uscire dall’ambiguità assumendo, insieme ad altre forze politiche europee, una linea intransigente per un cambiamento in chiave espansiva e maggiormente solidaristica delle regole europee, e al tempo stesso esplicitando che in caso di fallimento delle trattative una opzione di uscita dall’euro non potrebbe più essere esclusa. Una presa di posizione del genere da parte del Pd, forza risolutamente europeista, non potrebbe più essere liquidata con un’alzata di spalle da parte del governo tedesco e delle autorità di Bruxelles. Il dibattito delle primarie è stato arido su questi temi delicatissimi e cruciali. Ma forse, anche per dare più spessore all’intera kermesse, non sarebbe giunto il momento che i candidati ci dicessero una parola più chiara sul decisivo nodo europeo?
Tutti i costi del disastro ambientale in Campania
Tutti i costi del disastro ambientale in Campania
Il giro d'affari legato al traffico dei rifiuti dell'ecomafia, gli sprechi enormi dei quindici anni di gestione commissariale, le tasse salate sui rifiuti che strozzano lo sviluppo economico, le sanzioni europee, i costi sanitari e quelli per le bonifiche: il disastro ambientale e quello della politica napoletana, regionale e nazionale in Campania.
Il mio intervento al Convegno Il disastro ambientale della Campania Felix, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 22 e 23 novembre 2013. L'evento è stato ripreso da Radio Radicale.
Il giro d'affari legato al traffico dei rifiuti dell'ecomafia, gli sprechi enormi dei quindici anni di gestione commissariale, le tasse salate sui rifiuti che strozzano lo sviluppo economico, le sanzioni europee, i costi sanitari e quelli per le bonifiche: il disastro ambientale e quello della politica napoletana, regionale e nazionale in Campania.
Il mio intervento al Convegno Il disastro ambientale della Campania Felix, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 22 e 23 novembre 2013. L'evento è stato ripreso da Radio Radicale.
Bassolino e Realfonzo cortesemente nemici
In occasione della presentazione del libro di Antonio Bassolino "Le Dolomiti di Napoli"
Scambio di tweet: Bassolino e Realfonzo cortesemente nemici
Il Corriere del Mezzogiorno, 21 novembre 2013
Scambio di tweet: Bassolino e Realfonzo cortesemente nemici
Il Corriere del Mezzogiorno, 21 novembre 2013
Una sfida per il Pd
Napoli, una
sfida per il Pd
di Riccardo Realfonzo
Il Corriere del Mezzogiorno, 19 novembre 2013
C’è
una timida speranza che il voto dei giorni scorsi sulla mozione di sfiducia
contro l’amministrazione de Magistris, con particolare riferimento ai temi
dell’ambiente, possa aprire una nuova pagina politica a Napoli.
Sappiamo
che l’esperienza politico-amministrativa di de Magistris è fallita e che il
sindaco ha smarrito da tempo quasi tutto il suo consenso. La sua maggioranza,
inizialmente solidissima, è ormai risicata, e resiste in un Consiglio Comunale dal
clima troppo spesso torbido, grazie al sostegno di qualche transfugo del
centro-destra. Molti si interrogano se l’esperienza de Magistris possa
effettivamente durare sino al termine naturale dei cinque anni. Difficile a
dirsi. Certo, per molti aspetti, sembra di assistere al decadimento della parte
finale del decennio iervoliniano – con un Consiglio politicamente delegittimato
a rappresentare i cittadini – che in ogni caso non impedì alla Iervolino di portare
a termine il mandato.
Sino
a ieri, l’unica nota positiva in Consiglio Comunale era rappresentata dalla
pattuglia dei tre di Ricostruzione Democratica: Gennaro Esposito, Carlo
Iannello e Simona Molisso. Eletti nelle liste che sostenevano il Sindaco e rappresentanti
di una parte di quella società civile che aveva scommesso sull’ex magistrato, i
tre hanno dovuto prenderne le distanze e passare all’opposizione oltre un anno
fa, non appena apparve evidente che de Magistris rinnegava il suo stesso
programma elettorale e voltava le spalle ai tanti che avevano creduto in una “rivoluzione”
della buona amministrazione.
Sino
a ieri, il Pd aveva tenuto un atteggiamento ambiguo su de Magistris e la sua
giunta. I consiglieri del Pd avevano sostenuto provvedimenti discutibili e
soccorso ripetutamente il sindaco. Il Pd aveva anche avviato le procedure per
un referendum sull’operato dell’amministrazione dai contorni poco chiari, poi
naufragato. Ebbene, con la mozione di sfiducia presentata dal gruppo di
Ricostruzione Democratica c’è stata finalmente una svolta. Di fronte al bivio
se votare o meno la sfiducia, il neoeletto segretario cittadino del Pd,
Venanzio Carpentieri, ha trovato la forza per fare passare una linea di chiara
opposizione al Sindaco. E, tra qualche mugugno, il Pd ha votato compatto la
sfiducia. La mozione naturalmente non è passata, ma ha raggiunto il suo reale
obiettivo: portare una ventata di trasparenza e di responsabilità politica che
fa bene al Consiglio Comunale e fa bene al Pd.
Certo,
bisognerà vedere se il Pd sarà capace di mantenere questa linea netta, se i
consiglieri la porteranno avanti con trasparenza, se le mille correnti del Pd
non la ostacoleranno, se anche dopo l’8 dicembre non interverranno da Roma
indicazioni per un qualche mutamento di rotta. Chi non dimentica le gravi
responsabilità del Pd partenopeo – dalla cattiva amministrazione del recente
passato ai pasticci delle primarie per il Comune – non può che avere
perplessità a riguardo. Ma, al tempo stesso, non può non sperare che il
passaggio sia gravido di conseguenze positive.
Dal
canto suo, quella fetta di società civile che si era schierata con de Magistris
– ancora vigile e impegnata, benché attonita e disarticolata per la delusione –
dovrebbe fare attenzione a non ripetere gli errori del passato. Mi riferisco
naturalmente ad ampi settori del mondo del lavoro e dell’associazionismo, alla
residua parte di borghesia cittadina illuminata, alle ampie forze intellettuali
come – ma certo non solo – le Assise di Palazzo Marigliano, alla cittadinanza
attiva e consapevole. Ebbene, questo nucleo avanzato di società civile che nel
passato si è affidato a un solo uomo, de Magistris, nel futuro non dovrà più
firmare cambiali in bianco. Bisognerà costruire – anche se ciò costerà grande
fatica – un percorso politico-organizzativo per selezionare una nuova classe
amministrativa che possa garantire l'attuazione del programma elettorale; un
percorso che non potrà restare indifferente alla vicenda del Pd.
Il
voto sulla mozione lascia intravedere per la prima volta uno spazio possibile
di confronto programmatico nello schieramento progressista tra esponenti della
società civile, cominciando da Ricostruzione Democratica, e lo stesso Pd, che
dovrà necessariamente coinvolgere le altre forze di sinistra che dentro e fuori
il Consiglio Comunale intendono senza ambiguità lavorare seriamente alla
costruzione di una prospettiva democratica per la Napoli del dopo-de Magistris.
Una pagina nuova si aprirebbe davvero se anche il Pd, in un rigoroso slancio di
rinnovamento, facesse tesoro dell’esperienza del recente passato e si aprisse
davvero alla nuova soggettività sociale cresciuta in questi ultimi anni.
Qualcuno scommette sul fatto che il Pd sarà in grado di raccogliere questa
sfida?
La battaglia in Europa per dare una scossa all'economia
La battaglia in Europa per dare una scossa all'economia
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 12 novembre 2013
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 12 novembre 2013
Le dichiarazioni del presidente Letta, in visita a Malta, fanno sperare che il governo stia aprendo gli occhi sulla necessità di cambiare indirizzo di politica economica. Letta ha affermato che in Europa bisognerebbe fermare le politiche di austerità e che vorrebbe dedicare il semestre di presidenza italiana alla elaborazione di una strategia per la crescita. L’auspicio è che anche nelle stanze del governo ci sia chiarezza sul fatto che, al di là delle fantasiose previsioni governative di crescita per il 2014, i vincoli europei impediscono di costruire una Legge di Stabilità che rilanci l’economia. Questo è ciò che pensa quella parte del mondo scientifico che non ha mai subito il fascino della “teoria dell’austerità espansiva”; e questo è ciò che emerge dalle posizioni espresse dalle parti sociali. A riguardo, è sufficiente leggere le dichiarazioni del presidente di Confindustria Squinzi, per il quale non può esserci crescita dentro il vincolo del deficit al 3%.
Un qualche effetto lo avrà avuto anche il dibattito di questi giorni sulla paradossale violazione dei vincoli europei sul commercio con l’estero da parte di alcuni tra i paesi più prosperi, Germania in testa, di cui pare essersi accorta (buon’ultima) la Commissione Europea. È ben noto che la Germania sta praticando una politica mercantilista, votata alla continua espansione del proprio surplus commerciale. Questo obiettivo è stato tenacemente perseguito con politiche di austerità che hanno collocato il deficit pubblico molto al di sotto del limite del 3%, ed anche con politiche di contenimento salariale che hanno determinato una crescita dei salari tedeschi di venti punti inferiore alla media europea (dati Commissione Europea). Il risultato è che la Germania ha contratto la sua domanda di prodotti europei e ha accresciuto molto le sue esportazioni, facendo l’esatto contrario di ciò che il paese più ricco dovrebbe fare, cioè agire da locomotiva della domanda europea. Così ha accumulato avanzi commerciali intorno al 7% del pil violando ampiamente il limite, già tanto elevato da essere quasi inesistente, del 6% stabilito dai trattati. L’economia tedesca ha potuto così mettere in moto un forte sviluppo trainato dalle esportazioni, che però scarica il suo prezzo sul resto d’Europa, specie quella periferica, Italia inclusa. È così che, da quando è scoppiata la crisi, la Germania si è ripresa efficacemente, al punto che il valore della produzione nazionale è cresciuto in termini reali di circa 5 punti percentuali e la disoccupazione è scesa di circa un terzo. Mentre noi abbiamo perso il 9% del pil, raddoppiato la disoccupazione e vediamo crescere le insolvenze delle imprese a un ritmo di quasi il 20% (dati Creditreform).
È chiaro dunque che la politica economica tedesca approfondisce gli squilibri dell’area euro e viola gli impegni assunti con il Six Pack. Così come è chiaro che il sistema di vincoli europei e le cosiddette “riforme strutturali” non stanno modernizzando l’Italia né le altre periferie europee. Stando così le cose, anche gli emendamenti alla Legge di Stabilità, pur necessari, non riusciranno ad alterare la sua natura. Per ridare fiato all’economia bisognerebbe trovare la forza di guidare il Paese oltre i limiti europei, superando il vincolo del 3%. La proposta è quella che avanzai già su queste colonne nel maggio scorso. Occorrerebbe impiegare un volume di risorse pari all’avanzo primario – l’eccesso delle entrate sulle spese pubbliche, esclusi gli interessi sul debito – per finanziare politiche industriali e abbattere significativamente il cuneo fiscale, rilanciando domanda interna ed esportazioni. La manovra ammonterebbe a circa 2,5 punti di pil, cioè oltre 35 miliardi di euro, porterebbe il nostro rapporto deficit/pil intorno al 5,5% e avrebbe un effetto di rilievo sulla crescita, aumentando rapidamente l’occupazione. Per comprendere l’impatto della manovra occorre stimare il valore del moltiplicatore della politica fiscale, che secondo alcuni studi relativi all’Italia in condizioni recessive sarebbe intorno a 2. Assumendo più prudentemente il valore medio (pari a 1,3) dell’intervallo calcolato dal capo economista del FMI, Olivier Blanchard, si stima che questa manovra spingerebbe in alto il pil italiano di tre punti percentuali, rilanciando davvero la crescita. Inoltre, gli incrementi di deficit e debito sarebbero in buona misura riassorbiti dall’aumento stesso del pil, che abbatte i rapporti di finanza pubblica, e dal conseguente incremento della raccolta fiscale (almeno un punto di pil).
Per rendere politicamente praticabile questa ricetta non si può attendere il semestre di presidenza italiana. La crisi morde da troppo tempo e la fiducia verso l’Europa unita è ai minimi storici. Occorre agire adesso.
Per salvare il Mezzogiorno
Per salvare il Mezzogiorno
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 6 novembre 2013
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 6 novembre 2013
Per quanto occorra riconoscere al ministro Trigilia grande impegno ed anche qualche primo risultato, le politiche di coesione sono lontane dal produrre le condizioni per una inversione di rotta del nostro Mezzogiorno, che continua ad allontanarsi dal resto del Paese.
Come dicevo, alcuni risultati non mancano. Mi riferisco ai dati recenti sulla spesa dei fondi europei, stando ai quali – pure in un quadro di smaccate lentezze burocratiche – le regioni del Mezzogiorno starebbero rispettando i target di spesa e c’è la possibilità che a fine anno riescano ad evitare la perdita di risorse. Inoltre, è importante l’approvazione in via definitiva della legge che istituisce L’Agenzia per la Coesione Territoriale, voluta prima da Barca e poi da Trigilia. Ciò significa che la programmazione dei fondi europei per il 2014-2020 si avvarrà di uno strumento che dovrebbe velocizzare la spesa e migliorarne la qualità, e anche sostituirsi agli enti di gestione ritardatari o inadempienti.
A ben vedere, l’Agenzia si colloca al centro dell’azione strategica di Trigilia, il quale è concentrato sui fondi europei e sul modo in cui essi vengono spesi. Il ministro non fa mistero che la sua impostazione prende le mosse da un giudizio grave sul modo in cui nel Mezzogiorno vengono generalmente spese le risorse pubbliche. Nella sua visione, come ha ribadito nella recente conferenza ai Lincei, il Mezzogiorno si presenta come un’area a basso capitale sociale, a ridotto senso civico, nella quale le risorse pubbliche sono utilizzate troppo spesso a fini clientelari, il che rappresenta un ostacolo allo sviluppo economico e fa prosperare i sistemi criminali. Che la spesa pubblica nel Mezzogiorno sia di pessima qualità e che i sistemi clientelari siano estremamente pervasivi è ben difficile negarlo, come ho avuto modo di denunciare pubblicamente a più riprese io stesso, a seguito della mia breve stagione di assessore tecnico al bilancio a Napoli. Ben vengano, quindi, tutti i controlli e i poteri sostitutivi invocati da Trigilia.
Se però il discorso si limitasse alla sequenza clientele-scarsa qualità della spesa-controlli, ci perderemmo una bella fetta di verità. Sarebbe illusorio pensare che il migliore utilizzo possibile dei fondi europei potrebbe da solo tirare il Mezzogiorno fuori dal sottosviluppo. E questo soprattutto perché le risorse a disposizione sono terribilmente scarse. I dati ufficiali, infatti, ci mostrano inequivocabilmente che: la spesa pubblica per cittadino del Mezzogiorno è ben inferiore alla media italiana; gli obiettivi relativi alla spesa per investimenti non sono stati raggiunti; i tagli alla spesa pubblica operati negli ultimi anni hanno colpito soprattutto il Mezzogiorno; l’utilizzo dei fondi europei ha sempre più una natura sostitutiva rispetto all’intervento nazionale. Per avere una chiara idea di quanto affermo può essere utile ricordare il caso della politica di coesione di successo registrato in Germania. In quel Paese, infatti, dopo la riunificazione avvenuta nel 1990, è stato possibile dimezzare la differenza tra i redditi pro capite degli abitanti dell’est e quelli dell’ovest, a costo però di uno stanziamento colossale di risorse che, tra investimenti in infrastrutture e spesa sociale, viene quantificato in oltre 1600 miliardi di euro. A confronto, le risorse per il Mezzogiorno sono briciole. E questo forse può aiutarci anche a capire perché, senza che ciò scalfisca minimamente la nostra condanna etico-morale, tanta parte della politica meridionale insegua le clientele per mantenere il consenso.
Né si può pensare che dove le risorse mancano possano sopperire le cosiddette riforme strutturali. Basti solo osservare che i salari nel Mezzogiorno sono già su livelli greci e la bilancia commerciale meridionale continua a essere in profondo rosso. Né si può davvero ritenere che, dopo le derive clientelari sui cui pure opportunamente si sofferma Trigilia, si possano rilanciare le logiche di incentivazione dal basso, i partenariati locali e gli strumenti della programmazione negoziata.
Insomma, il Mezzogiorno ha un disperato bisogno di spesa pubblica di qualità, come sostiene il ministro, ma avrebbe un altrettanto disperato bisogno di maggiori risorse, anche per praticare tagli non irrisori del cuneo fiscale. Il tutto da inserire in un rinnovato quadro di politiche industriali che provasse finalmente a fare compiere al tessuto produttivo un salto tecnologico e dimensionale. Inutile dire che tutto ciò appare solo una chimera nel quadro attuale dei vincoli europei. E qui casca l’asino: perché il primo ineludibile punto di una agenda politica per i Mezzogiorni d’Europa non può che essere la ridefinizione in chiave espansiva delle politiche economiche dell’Unione Monetaria.
I vincoli europei mettono a rischio l'unione monetaria. Il quotidiano tedesco Junge Welt intervista Riccardo Realfonzo
EU-Auflagen treiben halb Europa in den Abgrund
Ein Gespräch mit Riccardo Realfonzo
Interview: Raoul Rigau
Junge Welt, 25.10.2013
Il noto quotidiano progressista berlinese Junge Welt intervista Riccardo Realfonzo sulla salute dell'unione monetaria europea.
I vincoli europei e le politiche di austerità che essi determinano stanno mettendo in ginocchio l'Europa, accentuando il profilo della crisi e aumentando drammaticamente la divergenza tra aree centrali e paesi periferici. Se non interverranno modifiche in senso espansivo delle politiche monetarie e fiscali, alcuni paesi periferici d'Europa si troveranno costretti ad abbandonare l'euro. La manovra economica del governo italiano si muove nel rispetto dei vincoli europei sul deficit e non riesce a intervenire significativamente per favorire la ripresa.
Ein Gespräch mit Riccardo Realfonzo
Interview: Raoul Rigau
Junge Welt, 25.10.2013
Il noto quotidiano progressista berlinese Junge Welt intervista Riccardo Realfonzo sulla salute dell'unione monetaria europea.
I vincoli europei e le politiche di austerità che essi determinano stanno mettendo in ginocchio l'Europa, accentuando il profilo della crisi e aumentando drammaticamente la divergenza tra aree centrali e paesi periferici. Se non interverranno modifiche in senso espansivo delle politiche monetarie e fiscali, alcuni paesi periferici d'Europa si troveranno costretti ad abbandonare l'euro. La manovra economica del governo italiano si muove nel rispetto dei vincoli europei sul deficit e non riesce a intervenire significativamente per favorire la ripresa.
Con l'austerità Unione a rischio
di Riccardo Realfonzo
Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2013
C’era una volta la teoria dell’austerità espansiva. Elaborata in una serie di saggi pubblicati su prestigiose riviste internazionali a partire dagli anni ‘90, spesso a firma di economisti italiani, la teoria decantava gli effetti salvifici dei consolidamenti fiscali. Sosteneva che – soprattutto nei Paesi in cui il debito pubblico registrava valori “elevati” rispetto al Pil – riduzioni della spesa pubblica al di sotto del livello della raccolta fiscale avrebbero alimentato la crescita. Si sa che l’Unione monetaria ha fatto proprie queste tesi e l’esito, come dimostra il fallimento delle politiche per arginare la crisi scoppiata nel 2007, è stato catastrofico.
Secondo le stime della Commissione Europea, a fine 2013 il Pil complessivo dei Paesi dell’Unione monetaria europea continuerà a mantenersi al di sotto del valore del 2007, di circa 2 punti percentuali. Per non parlare della drammatica condizione del mercato del lavoro che ha registrato un incremento della disoccupazione di oltre 7 milioni e mezzo di unità rispetto al 2007. Diversa è la situazione negli Stati Uniti, dove sia pure tra molte contraddizioni le autorità di politica economica hanno messo al bando l’austerity, e il valore della produzione sarà a fine 2013 quasi 6 punti percentuali più elevato del dato pre-crisi.
Ma c’è di più. Calata su un contesto già inizialmente squilibrato e applicata con carico maggiore nei Paesi periferici d’Europa, l’austerità sta contribuendo ad amplificare gli squilibri territoriali. In un contesto che segna in media decrescita e calo occupazionale, ci sono infatti alcuni Paesi che sono riusciti comunque a svilupparsi e altri che hanno invece conosciuto una crisi di proporzioni storiche. Alla fine del 2013 la Germania avrà un Pil di quasi 5 punti percentuali più elevato rispetto al 2007, e il numero di persone in cerca di lavoro si sarò ridotto di un terzo. Contemporaneamente, il Pil greco registrerà un calo di quasi il 22 per cento, quello spagnolo del 4 e mezzo per cento, quello italiano del 9 per cento. Rispetto allo scoppio della crisi, il numero di persone in cerca di lavoro sarà aumentato di oltre il 300 per cento in Grecia e in Spagna, mentre in Italia risulterà raddoppiato, passando da un milione e mezzo di unità a tre milioni. Insomma, mentre le aree centrali d’Europa sembrano per molti versi trarre persino vantaggio dalla situazione attuale - al punto che nel 2012 l’avanzo complessivo della bilancia commerciale di Germania, Olanda e Paesi scandinavi era pari a circa un terzo del Pil italiano – le economie dei Paesi periferici stanno soffocando nella camicia di forza creata delle politiche fiscali restrittive e dall’assenza di politiche di cambio e monetarie autonome. Né per il 2014 ci si attendono sostanziali cambiamenti. A riguardo, ricordo ai responsabili della politica economica italiana che già altre volte il nostro governo ha peccato di ottimismo in tema di crescita: il rischio di reiterare l’errore sembra alto anche nel caso della Legge di Stabilità per il prossimo anno.
L’aggravarsi degli squilibri europei non giunge inatteso. Gli effetti depressivi delle politiche di austerità, dimostrati in ambito scientifico, erano già stati sollevati con una lettera aperta firmata da 300 economisti keynesiani nel 2010. Oggi le critiche all’austerità riscuotono sempre maggiori consensi presso diverse scuole di pensiero. Lo si è registrato con il recente “monito degli economisti” promosso da Emiliano Brancaccio e dallo scrivente: il documento ha trovato ospitalità sul Financial Times ed è stato sottoscritto da alcuni tra i più autorevoli economisti europei e americani, tra cui studiosi di formazione mainstream (www.theeconomistswarning.com). Alla luce dei crescenti squilibri europei, il “monito” avanza una previsione: se le politiche monetarie e fiscali europee non muteranno in senso espansivo, l’esperienza dell’Unione monetaria avrà fine e ai decisori di politica economica non rimarrà che una scelta tra modalità alternative per abbandonare l’euro. Il “monito” segnala che un simile esito sarebbe la logica conseguenza dell’attuale pretesa di scaricare l’onere del riequilibrio europeo sui soli Paesi periferici, a colpi di austerity e di riforme strutturali. Un errore grave, per più di un verso speculare a quello che l’Europa compì dopo la prima guerra mondiale, quando alla Germania venne imposto l’obbligo di rimborsare un volume insostenibile di debiti e di riparazioni di guerra. In quel caso, come aveva previsto John Maynard Keynes all’indomani del Trattato di Versailles del 1919, la “vendetta” non tardò ad arrivare, e fu atroce. La Storia non si ripete mai allo stesso modo, ma conoscerne gli snodi dovrebbe aiutarci a non ripetere gli errori del passato.
I giovani italiani sono inoccupabili? Riccardo Realfonzo interviene a UnoMattina (Rai1)
I giovani italiani sono inoccupabili?
Riccardo Realfonzo interviene a UnoMattina (Rai1)
12 ottobre 2013
Riccardo Realfonzo interviene a UnoMattina (Rai1)
12 ottobre 2013
Il rapporto Ocse Piaac sostiene che gli italiani non hanno competenze adeguate per lavorare. Riccardo Realfonzo, ospite di UnoMattina, precisa che la disoccupazione italiana dipende dalla bassa domanda interna di beni e servizi, mentre le ridotte competenze degli italiani dipendono dalla insufficiente spesa pubblica in istruzione e dal fatto che il sistema produttivo italiano non domanda manodopera di qualità.
Senza cambiamenti il destino dell'euro è segnato
Senza cambiamenti il destino dell'euro è segnato
Intervista a Riccardo Realfonzo
ControLaCrisi.org, 12 ottobre 2013
Intervista a Riccardo Realfonzo
ControLaCrisi.org, 12 ottobre 2013
Realfonzo fa il punto sul dibattito scaturito con la pubblicazione del "monito degli economisti" pubblicato dal Financial Times. Il "monito" - promosso da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo, e sottoscritto da autorevoli economisti europei e americani - ha chiarito che l'unione monetaria europea è tecnicamente insostenibile e che, se non interviene un mutamento delle politiche economiche, alcuni paesi saranno costretti ad abbandonare l'euro.
[qui l'intervista completa]Il dibattito del Corriere della Sera sul "vincolo esterno" e la modernizzazione italiana. Intervengono Salvati, Brancaccio e Realfonzo
Il dibattito del Corriere della Sera sul "vincolo esterno" e la modernizzazione italiana.
Intervengono Salvati e Brancaccio-Realfonzo
Dopo la pubblicazione del "monito degli economisti" da parte del Financial Times, finalmente il Corriere della Sera apre un dibattito sull'efficacia dell'imposizione dei vincoli europei per la modernizzazione italiana. La questione è: i vincoli europei stanno contribuendo alla sviluppo del Paese o piuttosto ci stanno portando al disastro? Non occorre, come sostengono Brancaccio e Realfonzo, rivedere quel sistema di vincoli e tornare a discutere di riforma dello Stato e nuove politiche industriali?
Interviene Michele Salvati, replicano Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo, controreplica Michele Salvati.
L'articolo di Michele Salvati:
Servono Riforme in tempi brevi ma anche un risveglio di serietà
Il Corriere della Sera, 29 settembre 2013
La replica di Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo:
Come favorire la crescita economica
Il Corriere della Sera, 8 ottobre 2013
L'agognata stabilità politica sarebbe sufficiente di per sé a sradicare le cause profonde dell'attuale instabilità economica? Il «monito degli economisti» da noi promosso, pubblicato lo scorso 23 settembre dal Financial Times, evidenzia un fatto che a tale riguardo ci sembra rilevante: sebbene appartenenti a diversi indirizzi di ricerca, autorevoli studiosi convergono nel sostenere che né le manovre di «austerity» né le riforme «strutturali» sono in grado di arginare i divari macroeconomici tra i Paesi dell'eurozona che stanno tuttora minacciando la sopravvivenza dell'Unione monetaria. Queste politiche possono infatti dare luogo a una depressione dei redditi di tale portata da rendere più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. In un articolo pubblicato sul Corriere del 30 settembre, Michele Salvati riconosce il problema e osserva che a una lunga asfissia occupazionale causata dalle attuali politiche potrebbe comunque far seguito la deflagrazione dell'eurozona. Salvati si domanda se un «risveglio di serietà e di orgoglio» del ceto politico italiano possa evitare una tale, nefasta successione di fasi. Ci permettiamo di osservare che un risveglio, per dirsi tale, dovrebbe implicare la fine dei sogni. Per lungo tempo ai vertici di questo Paese si è coltivata l'illusione che un arcigno «vincolo esterno» potesse spontaneamente favorire la modernizzazione del capitalismo nazionale e dell'apparato statale, sia pure in un deserto di progettualità e di investimenti. Oggi sappiamo che quel miracolo non è avvenuto, eppure osserviamo che le speranze si rinnovano e il sogno continua.
La controreplica di Michele Salvati:
Come favorire la crescita economica
Il Corriere della Sera, 8 ottobre 2013
È vero che la speranza coltivata in un recente passato dalla parte migliore della nostra classe dirigente - che «un arcigno vincolo esterno potesse spontaneamente favorire la modernizzazione del capitalismo nazionale e dell'apparato statale» - si è rivelata un'illusione. Ma che questa modernizzazione sia necessaria per stimolare una crescita sostenibile del reddito e dell'occupazione è fuori dubbio: nel medio-lungo periodo un Paese crea redditi e occupazione nella misura in cui è efficiente e competitivo, nella misura in cui guadagna sul mercato i redditi che distribuisce. E dubito che una situazione di «catastrofe» produca un atteggiamento favorevole alla modernizzazione, alle riforme strutturali, più di quanto lo stia creando l'attuale situazione di «asfissia». E' un problema di classi dirigenti e di consenso sociale, il che spiega il mio interesse di economista per la politica.
L'insostenibilità delle politiche europee
L'insostenibilità delle politiche europee
Realfonzo a Omnibus (La 7), 6 ottobre 2013
Riprendendo le tesi del "monito degli economisti" pubblicato dal Financial Times, Riccardo Realfonzo sottolinea che l'assetto attuale dell'eurozona è insostenibile. Serve un cambiamento delle politiche europee per evitare l'uscita dall'euro e rilanciare l'economia italiana.
Realfonzo a Omnibus (La 7), 6 ottobre 2013
Riprendendo le tesi del "monito degli economisti" pubblicato dal Financial Times, Riccardo Realfonzo sottolinea che l'assetto attuale dell'eurozona è insostenibile. Serve un cambiamento delle politiche europee per evitare l'uscita dall'euro e rilanciare l'economia italiana.
Il dibattito del Foglio sul "monito degli economisti". L'intervista a Realfonzo e le repliche di Debenedetti e Cesaratto
Il dibattito del Foglio sul "monito degli economisti".
L'intervista a Realfonzo e le repliche di Debenedetti e Cesaratto
Il “monito degli economisti”, promosso da Emiliano Brancaccio e da Riccardo Realfonzo e pubblicato dal Financial Times, fa discutere. Il Foglio ha intervistato Realfonzo le cui considerazioni sono state oggetto di critica da parte di Franco Debenedetti; a quest'ultimo ha prontamente replicato Sergio Cesaratto.
Qui l'intervista a Realfonzo del 25 settembre 2013.
In basso gli interventi di Debenedetti (del 27 settembre 2013) e Cesaratto (del 2 ottobre 2013).
L'intervista a Realfonzo e le repliche di Debenedetti e Cesaratto
Il “monito degli economisti”, promosso da Emiliano Brancaccio e da Riccardo Realfonzo e pubblicato dal Financial Times, fa discutere. Il Foglio ha intervistato Realfonzo le cui considerazioni sono state oggetto di critica da parte di Franco Debenedetti; a quest'ultimo ha prontamente replicato Sergio Cesaratto.
Qui l'intervista a Realfonzo del 25 settembre 2013.
In basso gli interventi di Debenedetti (del 27 settembre 2013) e Cesaratto (del 2 ottobre 2013).
Realfonzo a La Gabbia parla del "monito degli economisti"
Realfonzo a La Gabbia parla del "monito degli economisti" pubblicato dal Financial Time
La 7, 25 settembre 2013
La 7, 25 settembre 2013
The economists' warning
The economists' warning
Financial Times, 23 settembre 2013
"...proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro".
Nello stesso giorno in cui i media celebrano la vittoria di Angela Merkel in Germania, il Financial Times ha pubblicato un testo che interpreta molto diversamente la fase e che guarda più avanti: è “Il monito degli economisti” (“The Economists’ Warning”), un documento promosso dagli italiani Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio) e sottoscritto da alcuni tra i principali esponenti della comunità accademica internazionale, appartenenti a varie scuole di pensiero: tra di essi Philip Arestis (University of Cambridge), Wendy Carlin (University College of London), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (ex capo dell’ufficio Finanziamenti per lo sviluppo dell’ONU), Dimitri Papadimitriou (presidente del Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Willi Semmler (New School University, New York), Tony Thirlwall (University of Kent) ed altri.
Il testo completo e tutte le informazioni su www.theeconomistswarning.com.
Brancaccio e Realfonzo, appello anti-Merkel
Brancaccio e Realfonzo, appello anti-Merkel
Corriere della Sera/Corriere del Mezzogiorno, 24 settembre 2013
Corriere della Sera/Corriere del Mezzogiorno, 24 settembre 2013
Il monito degli economisti
Il monito degli economisti
Financial Times, 23 settembre 2013
La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel 2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici dell’Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali; la Germania e gli altri paesi centrali dell’eurozona hanno invece visto crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è una delle cause dell’attuale stallo politico europeo e dell’imbarazzante susseguirsi di vertici dai quali scaturiscono provvedimenti palesemente inadeguati a contrastare i processi di divergenza in corso. Una ignavia politica che può sembrare giustificata nelle fasi meno aspre del ciclo e di calma apparente sui mercati finanziari, ma che a lungo andare avrà le più gravi conseguenze.
Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione. Nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera sottoscritta da trecento economisti lanciò un allarme sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità”: tali politiche avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Quell’allarme rimase tuttavia inascoltato. Le autorità europee preferirono aderire alla fantasiosa dottrina dell’“austerità espansiva”, secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione, favorendo così la diminuzione dei tassi d’interesse e la ripresa economica. Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale, oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Gli stessi fautori della “austerità espansiva” adesso riconoscono i loro sbagli, ma il disastro è in larga misura già compiuto.
C’è tuttavia un nuovo errore che le autorità europee stanno commettendo. Esse appaiono persuase dall’idea che i paesi periferici dell’Unione potrebbero risolvere i loro problemi attraverso le cosiddette “riforme strutturali”. Tali riforme dovrebbero ridurre i costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire quindi una ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso l’estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l’unità europea. Le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un’azione coordinata da parte di tutti i membri dell’Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee.
Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con parole lungimiranti: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». Sia pure a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupposti per l’ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Ma la memoria di quegli anni sembra persa: le autorità tedesche e gli altri governi europei stanno ripetendo errori speculari a quelli commessi allora. Questa miopia, in ultima istanza, è la causa principale delle ondate di irrazionalismo che stanno investendo l’Europa, dalle ingenue apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male fino ai più inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo.
Occorre esser consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.
Promosso da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), il “monito degli economisti” è sottoscritto da Philip Arestis (University of Cambridge), Wendy Carlin (University College of London), Giuseppe Fontana (Leeds University), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (University of Tallin), Heinz Kurz (Graz University), Alfonso Palacio-Vera (Universidad Complutense Madrid), Dimitri Papadimitriou (Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Willi Semmler (New School University, New York), Engelbert Stockhammer (Kingston University), Tony Thirlwall (University of Kent).
...ed anche: Georgios Argeitis (Athens University), Jesus Ferreiro (University of the Basque Country), Malcolm Sawyer (Leeds University), Felipe Serrano (University of the Basque Country), Lefteris Tsoulfidis (University of Macedonia).
Sito web: www.theeconomistswarning.com
Financial Times, 23 settembre 2013
La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel 2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici dell’Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali; la Germania e gli altri paesi centrali dell’eurozona hanno invece visto crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è una delle cause dell’attuale stallo politico europeo e dell’imbarazzante susseguirsi di vertici dai quali scaturiscono provvedimenti palesemente inadeguati a contrastare i processi di divergenza in corso. Una ignavia politica che può sembrare giustificata nelle fasi meno aspre del ciclo e di calma apparente sui mercati finanziari, ma che a lungo andare avrà le più gravi conseguenze.
Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione. Nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera sottoscritta da trecento economisti lanciò un allarme sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità”: tali politiche avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Quell’allarme rimase tuttavia inascoltato. Le autorità europee preferirono aderire alla fantasiosa dottrina dell’“austerità espansiva”, secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione, favorendo così la diminuzione dei tassi d’interesse e la ripresa economica. Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale, oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Gli stessi fautori della “austerità espansiva” adesso riconoscono i loro sbagli, ma il disastro è in larga misura già compiuto.
C’è tuttavia un nuovo errore che le autorità europee stanno commettendo. Esse appaiono persuase dall’idea che i paesi periferici dell’Unione potrebbero risolvere i loro problemi attraverso le cosiddette “riforme strutturali”. Tali riforme dovrebbero ridurre i costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire quindi una ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso l’estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l’unità europea. Le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un’azione coordinata da parte di tutti i membri dell’Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee.
Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con parole lungimiranti: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». Sia pure a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupposti per l’ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Ma la memoria di quegli anni sembra persa: le autorità tedesche e gli altri governi europei stanno ripetendo errori speculari a quelli commessi allora. Questa miopia, in ultima istanza, è la causa principale delle ondate di irrazionalismo che stanno investendo l’Europa, dalle ingenue apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male fino ai più inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo.
Occorre esser consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.
Promosso da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), il “monito degli economisti” è sottoscritto da Philip Arestis (University of Cambridge), Wendy Carlin (University College of London), Giuseppe Fontana (Leeds University), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (University of Tallin), Heinz Kurz (Graz University), Alfonso Palacio-Vera (Universidad Complutense Madrid), Dimitri Papadimitriou (Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Willi Semmler (New School University, New York), Engelbert Stockhammer (Kingston University), Tony Thirlwall (University of Kent).
...ed anche: Georgios Argeitis (Athens University), Jesus Ferreiro (University of the Basque Country), Malcolm Sawyer (Leeds University), Felipe Serrano (University of the Basque Country), Lefteris Tsoulfidis (University of Macedonia).
Sito web: www.theeconomistswarning.com
Ora serve una svolta nel Pd
Ora serve una svolta nel Pd
di Riccardo Realfonzo
Il Corriere del Mezzogiorno, 19 settembre 2013
di Riccardo Realfonzo
Il Corriere del Mezzogiorno, 19 settembre 2013
Con l’approvazione della manovra di bilancio, l'amministrazione de Magistris porta ai massimi le imposte locali frustrando le speranze di ripresa dell’economia cittadina. Si verifica così quanto avevo preannunciato al sindaco ancor prima che fosse eletto: in assenza di una immediata e profonda azione riformatrice, finalizzata a riorganizzare il Comune e le società partecipate, si sarebbero riversati sui cittadini e sulle imprese costi insostenibili. D'altronde, il vero e proprio fallimento del Comune lo si sta evitando solo grazie al decreto salva-Comuni del governo Monti che (insieme al decreto sui debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese) ha consentito al Comune di Napoli di sottoscrivere alcune centinaia di milioni debiti con lo Stato. Debiti che i cittadini napoletani dovranno rimborsare nei trenta anni a venire. Come se non bastasse, l’intera manovra per colmare il buco di bilancio prodotto nell'epoca iervoliniana (il cosiddetto piano di riequilibrio) desta molte preoccupazioni in merito alla sua sostenibilità. Basti ricordare che il piano di dismissioni immobiliari – architrave del programma di risanamento finanziario e di rilancio degli investimenti pubblici – dovrebbe essere gestito dalla partecipata Napoli Servizi, la quale, è notizia di questi giorni, non riesce neppure a spedire i bollettini di pagamento agli affittuari degli alloggi comunali.
Stando così le cose, la questione è se sia possibile cominciare a porre freno a tutto questo al più presto o se occorrerà attendere quasi tre anni, cioè la fine naturale del mandato del sindaco.
La prima domanda da porsi è se possa immaginarsi un atto di responsabilità del Consiglio Comunale che, in qualche modo, supplisca alla incapacità del sindaco nell’offrire scelte strategiche coraggiose per la Città. Ma come ha sottolineato Paolo Macry su queste colonne, e come la cronaca di questi giorni sull’approvazione della manovra di bilancio ha pienamente confermato, il Consiglio è piuttosto preda di una deriva trasformistica da basso impero; il che significa che dopo soli due anni dalle elezioni il sindaco e la sua variabile maggioranza consiliare non rappresentano più i napoletani e in particolare quello straordinario movimento di opinione che sostenne il suo programma di rottura con le pratiche del vecchio centrosinistra.
In seconda battuta, si potrebbe considerare la possibilità che sia lo stesso de Magistris a decidere di lasciare anzitempo l'incarico. Certo, lui ha annunciato l'intenzione di non dimettersi e ricandidarsi alla scadenza del mandato; ma si tratta solo di un nuovo bluff. Quali possibilità ha infatti de Magistris di essere rieletto? Nessuna. Anche perché posso assicurare che quella parte di società civile che lo ha sostenuto due anni fa si opporrebbe strenuamente a una sua candidatura. E una volta incassata la bocciatura dei napoletani, ci sarebbe un futuro politico per il sindaco? Probabilmente no. Ecco allora che sarebbe razionale per de Magistris tentare una exit strategy prima della scadenza dei cinque anni, finché ha ancora qualcosa da mettere sul piatto. Ad esempio, tentare una candidatura alle politiche o alle europee, magari con il Pd, lasciando via libera al Comune.
Una ulteriore ipotesi è che sia proprio il Pd a tentare la spallata al sindaco. Magari approfittando del fatto che i consiglieri comunali di maggioranza sono orfani di riferimenti parlamentari e potrebbero essere sedotti dalle sirene di una nuova casa politica. Certo, il Pd è attraversato da mille tensioni e parla con mille voci, soprattutto in questa fase, in vista del congresso del partito; eppure sul piano locale il Pd sembra avere trovato coesione intorno a una posizione di forte critica a de Magistris, con la sola imbarazzante eccezione - per le ragioni sopra dette - dei suoi stessi consiglieri comunali. Una circostanza che, oltre a minare la credibilità del partito, potrebbe complicare non poco un tentativo di superamento di questa esperienza.
Come che sia, presto o tardi, una volta chiusasi la parentesi di de Magistris quale scenario si aprirà? È chiaro che il lascito amministrativo di questo sindaco sarà disastroso. Inutile elencare ciò che è davanti agli occhi della Città e del Paese. Basti qui ricordare la notizia del versamento di mezzo milione di euro agli organizzatori del Giro d'Italia che, se confermata, scoprirebbe l'ennesima favola raccontata ai napoletani, ai quali era stato assicurato che l’evento sarebbe stato a costo zero. Ma il lascito politico rischia di essere davvero esiziale per l'insieme delle forze progressiste che a Napoli appaiono, nonostante tutto, ancora presenti e vitali. Il fallimento di questa esperienza amministrativa ha avuto infatti ricadute pesanti, fiaccando l'entusiasmo di quel “nucleo avanzato” di società civile che si coalizzò, due anni e mezzo or sono, accogliendo la proposta dell’Italia dei Valori di Di Pietro e puntando sulla visibilità e popolarità del giovane ex magistrato de Magistris. Un “nucleo avanzato” che raccoglieva le istanze favorevoli a una “rivoluzione della buona amministrazione” provenienti, da un lato, dalla borghesia cittadina illuminata e da ambienti intellettuali diretti eredi delle Assise di Palazzo Marigliano, e, dall'altro, da ampi settori del mondo del lavoro e dell'associazionismo diffuso, della cittadinanza attiva e consapevole. E tuttavia, è proprio da quel nucleo di società civile partenopea - che si è prontamente allontanato dal sindaco appena ha compreso che questi tradiva il programma elettorale e che porta il testimone della mancata “rivoluzione” - da cui occorre ripartire per trovare un futuro possibile per Napoli. Provando però a non ripetere gli errori del passato. Sotto questo aspetto, gli scenari futuri dipenderanno in buona misura dalle scelte delle forze politiche del centrosinistra e in particolare del Pd, che resta una grande forza elettorale sebbene in affanno sul piano della credibilità politica e programmatica. Possiamo essere certi che una parte del Pd sarà tentata del riportare indietro l’orologio della storia e riproporci qualche esperienza del passato; ed è altrettanto probabile che qualcuno pensi a qualche soluzione “esterna”, eterodiretta, come accadde l'ultima volta. In entrambi i casi la società civile napoletana si metterà di traverso. Per questo, tra gli errori da non ripetere c'è il restare indifferenti rispetto alla vicenda del Pd, o addirittura cedere alla tentazione del tanto peggio, tanto meglio. La parte viva e sana della società civile napoletana dovrebbe fornire un contributo affinché all'interno delle forze politiche del centrosinistra prevalgano le spinte rinnovatrici e un autentico spirito di servizio. Solo in un quadro così delineato, non certo di facile realizzabilità, la Napoli migliore potrebbe avere una opportunità per voltare pagina.
Il bilancio di de Magistris: sempre più tasse e debiti per Napoli
Dichiarazioni di Riccardo Realfonzo raccolte dall'Ansa
10 agosto 2013
Il bilancio di previsione 2013 del Comune di Napoli approvato dalla Giunta de Magistris conferma le previsioni negative. I
napoletani vedranno portate ai massimi le tasse locali, a cominciare
dall'addizionale IRPEF e dall'Imu. Molto forti gli aumenti registrati anche
dalla Tares - ai massimi d'Italia - e dalle tariffe dei servizi comunali.
L'economia cittadina registrerà un ulteriore, grave contraccolpo come effetto
di questi aumenti, che sono il prodotto di una amministrazione del tutto
inefficiente. De Magistris riesce ad evitare il dissesto e a tenere aperti gli
uffici comunali esclusivamente grazie agli oltre 300 milioni di crediti già
ottenuti dal governo, a seguito dei decreti 174 del 2012, che disciplina gli
aiuti ai Comuni in predissesto, e 35 del 2013, che concerne il pagamento dei
debiti della pubblica amministrazione. Aiuti questi che però stanno facendo
incrementare la posizione debitoria del Comune e prefigurano nuovi futuri
prelievi dalle tasche dei napoletani. Il colmo è che, in questa drammatica
situazione, il sindaco e i suoi assessori anziché rimboccarsi le maniche per
riformare la macchina comunale e portare finalmente a compimento le riforme già
programmate due anni or sono, preferiscono scaricare responsabilità sul passato
e fornire un quadro della realtà economico-finanziaria del Comune del tutto
privo di fondamento amministrativo.
Autunno polveriera, vacillano le certezze sull'euro
Autunno polveriera, vacillano le certezze sull'euro
di Marco Ferrante
Il Messaggero, 23 luglio 2013
Stefano Caldoro, presidente della Regione Campania, ha detto di essere d'accordo con Gianroberto Casaleggio: in autunno arriveranno i disordini sociali. Secondo Caldoro partiranno da Napoli. Cresce il numero degli esponenti politici di primo piano che si allineano alle previsioni del «famoso guru» (copyright del capo dello Stato). Due giorni fa la convergenza era arrivata dal Pd, con le dichiarazioni del ministro renziano Graziano Deirio, e l'ex segretario Pierluigi Bersani. Alberto Bagnai, associato di politica economica a Pescara, è uno dei leader intellettuali dell'opposizione all'euro, è un'economista simpatico al mondo grillino. Ieri Beppe Grillo lo ha citato sul suo blog in un post di analisi della crisi intitolato «II diavolo veste Merkel», «Nell'analisi della crisi - dice Casaleggio e Grillo stanno cambiando posizione sull'euro. All'inizio trattavano con durezza lo stato della nostra finanza pubblica, su posizioni persino di destra liberale. Oggi spostano l'attenzione più decisamente sulla moneta unica. È un passo avanti». Chiediamo a Bagnai se dal suo punto di vista il rischio di uno shock economico che travolga la politica e la società innescando una spirale di disordini è realistico. «C'è una minaccia di crisi bancaria e un'altra di forte calo del mercato immobiliare. Queste sono potenziali fonti di shock. Poi c'è la Germania che si avvia verso una recessione che aggraverebbe la crisi. Il menu dei prossimi mesi sarà il crollo dei 'virtuosi'. L'euro non funziona. Il governo italiano rassicura (è parte del suo mestiere!), ma non fa nulla per reagire. La situazione per le famiglie è molto difficile. I redditi reali sono tornati a livello di oltre dieci anni fa». Questa è sostanzialmente la base culturale della posizione grillina. Altri elementi di riflessione sui rischi per la tenuta sociale, arrivano dal Mezzogiorno, come è evidente dalla reazione di Caldoro. Riccardo Realfonzo, per due volte assessore al Bilancio a Napoli, professore all'Università del Sannio, è uno degli economisti keynesiani del mondo progressista. Dice che «la tensione è fortissima soprattutto nelle regioni meridionali. Chiudono imprese tutti i giorni. L'emigrazione sembra l'unica risposta. Se non arriva una spinta espansiva dalla politica economica è finita. La spesa pubblica prò-capite nel mezzogiorno è di 7.500 euro contro i 9.200 del centro-nord. Dal 2007 il centro-nord ha perduto 6 punti di pii, il Mezzogiorno 10 punti. È una questione che non riguarda solo l'Italia. Sono dinamiche di tutti i Mezzogiorni d'Europa». Ma non c'è una responsabilità da parte della società? «Certo che c'è. Nel Mezzogiorno, la società non riesce a trovare risorse anche morali per ripartire. C'è un tessuto sociale così disarticolato che il controllo sull'operato delle amministrazione pubblica è lasciato completamente ed esclusivamente alla magistratura». In generale - comunque la si pensi sull'euro - c'è una situazione complessiva con dei fortissimi elementi di criticità che non dipendono solo dalla finanza pubblica e dagli obblighi europei. Le stime sulla crescita economica negativa e sui consumi sono destinate probabilmente ad altre correzioni al ribasso. I dati sulla mortalità delle imprese e sull'occupazione sono estremamente preoccupanti. Ieri una nuova stima arriva da Unioncamere: quest'anno 250.000 posti in meno nell'industria e nei servizi. Poi c'è la tragedia sociale dei Neet, i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non si formano. Due milioni di persone, oltre il 20 per cento della popolazione giovanile. Il 60 per cento donne. È curioso che m una simile situazione proprio dai partiti di governo arrivi l'allineamento alle dichiarazioni pessimistiche e ultra-oppositorie di Casaleggio. Dice Sofia Ventura, politologa all'Università di Bologna: «Casaleggio ha detto una cosa che dice la gente al bar. Ma il fatto che alcuni esponenti politici sentano il bisogno di commentarlo dice qualcosa dell'estrema modestia di questa clas
se dirigente». C'è un effetto larghe intese? «Sì, lotta e governo. Qualcuno da ragione a Casaleggio per coprirsi sul versante della protesta sociale. Curioso che questo lo faccia persino un ministro e un presidente di Regione, che dovrebbero dare delle risposte governando».
di Marco Ferrante
Il Messaggero, 23 luglio 2013
Stefano Caldoro, presidente della Regione Campania, ha detto di essere d'accordo con Gianroberto Casaleggio: in autunno arriveranno i disordini sociali. Secondo Caldoro partiranno da Napoli. Cresce il numero degli esponenti politici di primo piano che si allineano alle previsioni del «famoso guru» (copyright del capo dello Stato). Due giorni fa la convergenza era arrivata dal Pd, con le dichiarazioni del ministro renziano Graziano Deirio, e l'ex segretario Pierluigi Bersani. Alberto Bagnai, associato di politica economica a Pescara, è uno dei leader intellettuali dell'opposizione all'euro, è un'economista simpatico al mondo grillino. Ieri Beppe Grillo lo ha citato sul suo blog in un post di analisi della crisi intitolato «II diavolo veste Merkel», «Nell'analisi della crisi - dice Casaleggio e Grillo stanno cambiando posizione sull'euro. All'inizio trattavano con durezza lo stato della nostra finanza pubblica, su posizioni persino di destra liberale. Oggi spostano l'attenzione più decisamente sulla moneta unica. È un passo avanti». Chiediamo a Bagnai se dal suo punto di vista il rischio di uno shock economico che travolga la politica e la società innescando una spirale di disordini è realistico. «C'è una minaccia di crisi bancaria e un'altra di forte calo del mercato immobiliare. Queste sono potenziali fonti di shock. Poi c'è la Germania che si avvia verso una recessione che aggraverebbe la crisi. Il menu dei prossimi mesi sarà il crollo dei 'virtuosi'. L'euro non funziona. Il governo italiano rassicura (è parte del suo mestiere!), ma non fa nulla per reagire. La situazione per le famiglie è molto difficile. I redditi reali sono tornati a livello di oltre dieci anni fa». Questa è sostanzialmente la base culturale della posizione grillina. Altri elementi di riflessione sui rischi per la tenuta sociale, arrivano dal Mezzogiorno, come è evidente dalla reazione di Caldoro. Riccardo Realfonzo, per due volte assessore al Bilancio a Napoli, professore all'Università del Sannio, è uno degli economisti keynesiani del mondo progressista. Dice che «la tensione è fortissima soprattutto nelle regioni meridionali. Chiudono imprese tutti i giorni. L'emigrazione sembra l'unica risposta. Se non arriva una spinta espansiva dalla politica economica è finita. La spesa pubblica prò-capite nel mezzogiorno è di 7.500 euro contro i 9.200 del centro-nord. Dal 2007 il centro-nord ha perduto 6 punti di pii, il Mezzogiorno 10 punti. È una questione che non riguarda solo l'Italia. Sono dinamiche di tutti i Mezzogiorni d'Europa». Ma non c'è una responsabilità da parte della società? «Certo che c'è. Nel Mezzogiorno, la società non riesce a trovare risorse anche morali per ripartire. C'è un tessuto sociale così disarticolato che il controllo sull'operato delle amministrazione pubblica è lasciato completamente ed esclusivamente alla magistratura». In generale - comunque la si pensi sull'euro - c'è una situazione complessiva con dei fortissimi elementi di criticità che non dipendono solo dalla finanza pubblica e dagli obblighi europei. Le stime sulla crescita economica negativa e sui consumi sono destinate probabilmente ad altre correzioni al ribasso. I dati sulla mortalità delle imprese e sull'occupazione sono estremamente preoccupanti. Ieri una nuova stima arriva da Unioncamere: quest'anno 250.000 posti in meno nell'industria e nei servizi. Poi c'è la tragedia sociale dei Neet, i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non si formano. Due milioni di persone, oltre il 20 per cento della popolazione giovanile. Il 60 per cento donne. È curioso che m una simile situazione proprio dai partiti di governo arrivi l'allineamento alle dichiarazioni pessimistiche e ultra-oppositorie di Casaleggio. Dice Sofia Ventura, politologa all'Università di Bologna: «Casaleggio ha detto una cosa che dice la gente al bar. Ma il fatto che alcuni esponenti politici sentano il bisogno di commentarlo dice qualcosa dell'estrema modestia di questa clas
se dirigente». C'è un effetto larghe intese? «Sì, lotta e governo. Qualcuno da ragione a Casaleggio per coprirsi sul versante della protesta sociale. Curioso che questo lo faccia persino un ministro e un presidente di Regione, che dovrebbero dare delle risposte governando».
Le difficoltà del governo sulla politica economica. Il dibattito di Omnibus
Le difficoltà del governo nel trovare i fondi per la crescita
Il sottosegretario Legnini e il professore Realfonzo a Omnibus
Omnibus, La 7, 24 giugno 2013
In Germania si discute l'articolo di Realfonzo e Perri sul debito pubblico italiano
Die Legende des verschwenderischen Staates, von Riccardo Realfonzo - Stefano Perri, Der Spiegelfechter.
Il dibattito tedesco su una traduzione dell'articolo di Realfonzo e Perri, Il paradosso del debito che sale (Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2013).
Oltre il rigore. Come investire l'avanzo primario nella crescita
Oltre il rigore. Ecco come investire l'avanzo primario nella crescita
di Riccardo Realfonzo
Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2013
di Riccardo Realfonzo
Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2013
Le prospettive economiche per l’Italia
restano gravissime, al punto che secondo le ultime previsioni il 2013 si
chiuderà con una ulteriore contrazione di circa due punti del Pil (qui e in
seguito dati Ocse). Il ministro Saccomanni afferma che la crisi è “peggiore di
quella del ‘29” ma continua a ripetere che il governo deve rispettare il
vincolo del deficit pubblico al 3% del Pil. Ne segue che per quest’anno sono ormai
possibili solo manovre a saldo zero e anche nel 2014 ci saranno ben pochi
margini di intervento, limitati alla differenza tra il deficit tendenziale e il
vincolo del 3%: circa mezzo punto di Pil, non più di 8 miliardi. Risorse che
non sarebbero più nemmeno disponibili se dovessimo dare corso al Documento di
Economia e Finanza che – in linea con Six Pack e Fiscal Compact – si pone l’obiettivo di azzerare il
deficit (in termini strutturali) mediante nuovi progressivi innalzamenti dell’avanzo
primario sino a un valore record di fine legislatura del 5,7% del Pil (90
miliardi di euro).
Insomma, nonostante l’emergenza in
cui ci troviamo, il governo sembra avere le mani legate e prospettarci ancora austerità.
Ma è ormai acclarato che questo tipo di politiche frena la crescita e non assicura
il riequilibrio dei conti pubblici. Lo abbiamo sperimentato in Italia, dove gli
interventi restrittivi non hanno dato gli effetti previsti né in termini di
crescita (le previsioni del precedente esecutivo per il 2013 erano di un +
0,5%, mentre il Pil si riduce al ritmo del 2%) né in termini di finanze
pubbliche (il rapporto debito e Pil, stimato in diminuzione, continua ad
aumentare). E lo abbiamo sperimentato in Europa, dove il Fondo Monetario
Internazionale ammette che sono stati ampiamente sottostimati gli effetti deleteri
delle politiche di austerità. Il punto è – come ho già sottolineato mesi fa su queste
colonne – che i modelli previsionali adottati dalle principali istituzioni
internazionali hanno introiettato la “teoria dell’austerità espansiva”,
attribuendo ai moltiplicatori della politica fiscale, che misurano l’impatto
delle politiche espansive sul Pil, valori negativi o prossimi allo zero. In
realtà, i moltiplicatori si sono rivelati molto più grandi ed è ormai
innegabile che una politica restrittiva (un aumento del saldo tra prelievo
fiscale e spesa pubblica) riduce il Pil in misura almeno equivalente, con retroazione
negativa sulle entrate fiscali.
Per questo, proseguire con il rigore
è a dir poco rischioso, e occorrerebbe imprimere una svolta alla politica
economica nazionale, smettendola di considerare i vincoli europei alla stregua
di “tabù”, come ormai riconoscono gli stessi campioni dell’austerità. La nuova strada
da battere consisterebbe nell’azzeramento dell’avanzo primario, oggi pari a 2,4
punti di Pil. Ciò significherebbe disporre di oltre 35 miliardi di euro da
utilizzare per ridurre la pressione fiscale sul mondo della produzione e
promuovere politiche industriali. L’impatto sulla crescita di un intervento di
questo tipo può essere analizzato alla luce delle nuove stime del moltiplicatore
della politica fiscale. Alcuni studi relativi all’Italia mostrano che in
condizioni recessive il moltiplicatore della spesa pubblica supererebbe il
valore di 2 (ma esistono anche stime di moltiplicatori pari a 3). Qui, molto più
prudentemente, consideriamo il valore medio (pari a 1,3) dell’intervallo
calcolato dal capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier
Blanchard. Sotto questo assunto, l’azzeramento del nostro avanzo genererebbe una
crescita del Pil di oltre 45 miliardi di euro, 3 punti di Pil, fornendo la
spinta di cui abbiamo oggi tanto bisogno. Ed entro 9-15 mesi, raggiunto il picco
espansivo, anche gli effetti immediati di incremento di deficit e debito risulterebbero
in buona misura compensati da due fattori: l’aumento stesso del Pil, che naturalmente
abbatte i rapporti significativi di finanza pubblica, e la crescita delle
entrate fiscali, che trainate dalla ripresa incrementerebbero di almeno un
punto di Pil.
Insomma, andare oltre il vincolo
europeo sul deficit conviene, perché può permetterci di rilanciare l’economia
italiana. Inutile sottolineare che sarebbe eccellente concordare a livello
europeo una simile discontinuità, magari prima di procedere a più complessi
interventi di riassetto delle istituzioni europee e del palinsesto
macroeconomico. Infatti, al di là delle motivazioni più squisitamente
politiche, una azione espansiva portata avanti di concerto dai membri dell’eurozona,
e trainata da quelli che hanno i conti più solidi, darebbe ulteriore impulso
alla crescita e gioverebbe agli equilibri della bilancia commerciale; e con una
Banca Centrale Europea accomodante anche le possibili tensioni sugli oneri del
debito risulterebbero efficacemente arginate. Ma se l’Europa continuasse a
tergiversare e trascurare il baratro dentro cui stiamo scivolando, dovremmo
considerare la possibilità di una azione unilaterale. Certo, si tratterebbe di
una strada estremamente ardua, ma potrebbe finire con l’essere l’unica via che
resta prima di arrenderci al declino o essere costretti a decisioni che
metterebbero a repentaglio ancora maggiore la tenuta della zona euro.
Il dibattito di Omnibus sulla spesa pubblica
Realfonzo a Omnibus
Omnibus, La7, 4 giugno 2013.
Per non finire nel baratro
Per non finire nel baratro
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 31 maggio 2013
L’uscita dell’Italia dalla procedura europea di infrazione per deficit pubblico eccessivo non deve indurre in errore: le politiche economiche che hanno portato a questo risultato non vanno reiterate. È ormai chiaro, infatti, che le manovre di contenimento della spesa pubblica e incremento della pressione fiscale hanno avuto una ripercussione grave sul Paese, al punto da portarci a perdere quasi 2,5 punti di Pil nel 2012 e - a politiche invariate – non molto meno quest’anno. Il fatto è che le politiche di austerità, retroagiscono negativamente sulla crescita. Quelle politiche fissano obiettivi di finanza pubblica da conseguire mediante avanzi primari (cioè eccessi delle entrate fiscali sulla spesa pubblica, interessi sul debito esclusi), non tenendo in adeguato conto il loro effetto moltiplicatore negativo sull’economia. Infatti, gli aumenti della pressione fiscale hanno ridotto i consumi e quindi i ricavi delle imprese, spingendo queste ultime a contrarre la produzione e a tagliare occupazione e investimenti produttivi. Ciò ha generato ulteriori contrazioni della domanda a cui hanno fatto seguito nuovi cali dei livelli di attività dell’economia. L’effetto depressivo generato dagli avanzi primari ha spiazzato - come è pacifico in buona parte della letteratura specialistica - gli stessi governi che hanno adottato le politiche di austerità. Basti pensare alle previsioni per il 2013 del governo Monti, che sono state continuamente riviste al ribasso sino all’ultima previsione che prevede un calo del Pil dell’1,3% e appare comunque meno attendibile di quella più pessimistica formulata dall’Ocse (-1,8%).
Il Paese ha bisogno di altro, di risorse per riprendere la crescita. Per questa ragione, il primo punto da chiarire – riprendendo quanto già sostenuto su queste colonne – è che non siamo in condizione di rispettare i vincoli europei in tema di pareggio strutturale del bilancio e abbattimento del debito, come invece si propone ancora di fare l’ultimo Documento di Economia e Finanza. Non a caso, quel Documento assume coerentemente di non utilizzare i margini concessi in Europa sul deficit pubblico, dal momento che questo viene ridotto dal 2,9% nel 2013 verso lo zero, entro la legislatura. Il che significherebbe ancora austerità.
Al tempo stesso, qualunque ipotesi “minimalista”, finalizzata a grattare qualche piccolo spazio in un intorno del vincolo europeo del deficit del 3%, sarebbe miope e non all’altezza dei nostri problemi. D’altronde, persino Alesina e Giavazzi, protagonisti di tante battaglie a favore dell’austerità, sono stati costretti ad ammettere sul “Corriere della Sera” che è indispensabile adottare un approccio più keynesiano e meno dogmatico ai vincoli europei.
E allora l’unica vera mossa all’altezza della crisi italiana consiste nel portare verso lo zero l’avanzo primario, già nel 2013. In tal modo, si lascerebbe crescere il deficit pubblico progressivamente al di sopra del 5,5% del Pil, liberando così non meno di 35 miliardi di euro. Una manovra a cui fare seguire, ottenuta la ripresa economica, un forte e chiaro impegno in direzione della stabilizzazione del debito pubblico rispetto al Pil. È solo con una svolta di questo tipo che possono liberarsi le risorse per le politiche di domanda e di offerta di cui ha bisogno l’economia italiana. Dal lato della domanda, non semplicemente occorrerebbe scongiurare l’aumento dell’Iva, ma sarebbe indispensabile intervenire massicciamente, per almeno un punto di Pil, sul taglio del cuneo tra il costo del lavoro e i salari netti in busta paga. Questa manovra, coerente con una più complessiva rivisitazione del fisco in chiave redistributiva, darebbe una forte spinta alla domanda interna senza accrescere i costi di produzione, con tutto vantaggio delle imprese. Contemporaneamente, bisognerebbe intervenire sull’offerta, con politiche finalizzate a rilanciare la competitività del nostro sistema produttivo, anche per evitare che la ripresa della domanda peggiori il saldo della bilancia commerciale. A questo scopo, sarebbero necessarie politiche industriali per superare il gap infrastrutturale con i Paesi più avanzati d’Europa e fare compiere alle nostre imprese un salto tecnologico e dimensionale.
Si tratta di una strada coraggiosa, certo ardua da portare avanti in Europa, ma l’alternativa è scivolare sempre più nel declino.
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 31 maggio 2013
L’uscita dell’Italia dalla procedura europea di infrazione per deficit pubblico eccessivo non deve indurre in errore: le politiche economiche che hanno portato a questo risultato non vanno reiterate. È ormai chiaro, infatti, che le manovre di contenimento della spesa pubblica e incremento della pressione fiscale hanno avuto una ripercussione grave sul Paese, al punto da portarci a perdere quasi 2,5 punti di Pil nel 2012 e - a politiche invariate – non molto meno quest’anno. Il fatto è che le politiche di austerità, retroagiscono negativamente sulla crescita. Quelle politiche fissano obiettivi di finanza pubblica da conseguire mediante avanzi primari (cioè eccessi delle entrate fiscali sulla spesa pubblica, interessi sul debito esclusi), non tenendo in adeguato conto il loro effetto moltiplicatore negativo sull’economia. Infatti, gli aumenti della pressione fiscale hanno ridotto i consumi e quindi i ricavi delle imprese, spingendo queste ultime a contrarre la produzione e a tagliare occupazione e investimenti produttivi. Ciò ha generato ulteriori contrazioni della domanda a cui hanno fatto seguito nuovi cali dei livelli di attività dell’economia. L’effetto depressivo generato dagli avanzi primari ha spiazzato - come è pacifico in buona parte della letteratura specialistica - gli stessi governi che hanno adottato le politiche di austerità. Basti pensare alle previsioni per il 2013 del governo Monti, che sono state continuamente riviste al ribasso sino all’ultima previsione che prevede un calo del Pil dell’1,3% e appare comunque meno attendibile di quella più pessimistica formulata dall’Ocse (-1,8%).
Il Paese ha bisogno di altro, di risorse per riprendere la crescita. Per questa ragione, il primo punto da chiarire – riprendendo quanto già sostenuto su queste colonne – è che non siamo in condizione di rispettare i vincoli europei in tema di pareggio strutturale del bilancio e abbattimento del debito, come invece si propone ancora di fare l’ultimo Documento di Economia e Finanza. Non a caso, quel Documento assume coerentemente di non utilizzare i margini concessi in Europa sul deficit pubblico, dal momento che questo viene ridotto dal 2,9% nel 2013 verso lo zero, entro la legislatura. Il che significherebbe ancora austerità.
Al tempo stesso, qualunque ipotesi “minimalista”, finalizzata a grattare qualche piccolo spazio in un intorno del vincolo europeo del deficit del 3%, sarebbe miope e non all’altezza dei nostri problemi. D’altronde, persino Alesina e Giavazzi, protagonisti di tante battaglie a favore dell’austerità, sono stati costretti ad ammettere sul “Corriere della Sera” che è indispensabile adottare un approccio più keynesiano e meno dogmatico ai vincoli europei.
E allora l’unica vera mossa all’altezza della crisi italiana consiste nel portare verso lo zero l’avanzo primario, già nel 2013. In tal modo, si lascerebbe crescere il deficit pubblico progressivamente al di sopra del 5,5% del Pil, liberando così non meno di 35 miliardi di euro. Una manovra a cui fare seguire, ottenuta la ripresa economica, un forte e chiaro impegno in direzione della stabilizzazione del debito pubblico rispetto al Pil. È solo con una svolta di questo tipo che possono liberarsi le risorse per le politiche di domanda e di offerta di cui ha bisogno l’economia italiana. Dal lato della domanda, non semplicemente occorrerebbe scongiurare l’aumento dell’Iva, ma sarebbe indispensabile intervenire massicciamente, per almeno un punto di Pil, sul taglio del cuneo tra il costo del lavoro e i salari netti in busta paga. Questa manovra, coerente con una più complessiva rivisitazione del fisco in chiave redistributiva, darebbe una forte spinta alla domanda interna senza accrescere i costi di produzione, con tutto vantaggio delle imprese. Contemporaneamente, bisognerebbe intervenire sull’offerta, con politiche finalizzate a rilanciare la competitività del nostro sistema produttivo, anche per evitare che la ripresa della domanda peggiori il saldo della bilancia commerciale. A questo scopo, sarebbero necessarie politiche industriali per superare il gap infrastrutturale con i Paesi più avanzati d’Europa e fare compiere alle nostre imprese un salto tecnologico e dimensionale.
Si tratta di una strada coraggiosa, certo ardua da portare avanti in Europa, ma l’alternativa è scivolare sempre più nel declino.
Dibattito sulla disuguaglianza. Realfonzo contro Martone
Dibattito sulla disuguaglianza. Realfonzo contro Martone
Unomattina in famiglia, Rai 1, sabato 25 maggio 2013
Le trattative di de Magistris
Le trattative di de Magistris. Intervista a Riccardo Realfonzo
di Roberto Fuccillo
Repubblica Napoli, 24 maggio 2013
“È COMINCIATA una nuova fase dell’era de Magistris, la trattativa per la sopravvivenza politica". Un anno dopo la sostituzione, Riccardo Realfonzo vede altri ex colleghi uscire da Palazzo San Giacomo e l’amministrazione sprofondare.
Il sindaco parla di rilancio.
"E invece tenta solo di resistere sulla poltrona. La sua credibilità è crollata per l’incapacità amministrativa e con il tonfo elettorale. Le clamorose contestazioni di piazza hanno fatto il resto. Rischiava di essere cacciato a furor di popolo e di perdere la maggioranza in Consiglio. È corso ai ripari".
Aprendosi alla città, dice lui.
"Archiviando definitivamente i propositi rivoluzionari e affidandosi alla vecchissima politica, dico io”.
Ce l’ha con Moxedano e Fucito?
"I consiglieri dovrebbero sancire la fine di questa esperienza, nell’interesse della Città. Invece qui li si tiene buoni con le poltrone…"
Insieme a Tommasielli e Palmieri, Sodano è uno dei tre sopravvissuti della prima giunta, in cui era anche lei.
"Conta Sodano, che è maestro in fatto di vecchia politica, il vero ispiratore del Sindaco e di tanti errori, dalle assunzioni in Asìa alla transazione con Romeo".
Forse in questa fase è venuto meno il Pd.
"La possibilità di resistere del sindaco è figlia della debolezza post-elettorale del centrosinistra. Ma se Bersani avesse vinto, oggi de Magistris contribuirebbe alla crescita del tasso di disoccupazione del Paese".
Invece abbiamo questo rimpasto.
"Che è peggio di quanto avevamo visto in passato. La Iervolino almeno seppe resistere a certe pressioni del Consiglio. E nei suoi rimpasti riuscì a chiamare ex ministri come Scotti e studiosi come Amaturo, Belfiore, D’Aponte. Qui, con buona pace di Daniele e del prof Calabrese, il livello è diverso”.
Cosa dobbiamo attenderci per il futuro?
“Il tentativo di riagganciare il Pd e Sel facendo leva sullo spazio aperto dai 600 milioni previsti dal recente decreto sui debiti della pubblica amministrazione. E forse una resistenza stentata. Ovviamente, il prezzo di tutto questo lo pagheremo noi napoletani che vedremo le tasse e le tariffe ai massimi, e sempre meno servizi pubblici”.
Gli ottant'anni di Augusto Graziani
Gli ottant'anni di Augusto Graziani
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 4 maggio 2013
Graziani, il meridionalista keynesiano che sostenne l'intervento straordinario
di Riccardo Realfonzo e Carmen Vita
Il Corriere del Mezzogiorno, 4 maggio 2013
Oggi gli economisti italiani festeggiano Augusto Graziani, nato a Napoli ottanta anni fa. Già Presidente della Società Italiana degli Economisti, membro dell’Accademia dei Lincei, per un breve periodo Senatore, da cinquanta anni Graziani è punto di riferimento culturale e morale per schiere di studiosi formatisi alle sue lezioni e sui suoi libri. Graziani ha assunto una posizione di rilievo nella comunità scientifica internazionale soprattutto per i suoi contributi di impronta keynesiana sulla “teoria monetaria della produzione”, un approccio teorico di cui è indiscusso caposcuola, che descrive il funzionamento del sistema economico attraverso l’analisi dei flussi monetari e che giunge a conclusioni alternative a quelle del mainstream liberista. Grazie ai lavori di Graziani, questi studi hanno conosciuto significativi sviluppi non solo in Italia, ma anche in Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Canada.
Accanto al versante più squisitamente teorico del suo lavoro, Graziani è autore di studi illuminanti sullo sviluppo dell’economia italiana ed è uno dei principali esponenti del meridionalismo. I suoi primi importanti scritti su questo tema risalgono agli anni ’60, quando il dibattito ruotava intorno alle tesi di Vera Lutz, secondo la quale gli squilibri dell’economia italiana dipendevano principalmente dall’azione sindacale e dalla dinamica del costo del lavoro. La Lutz era contrastata da studiosi del calibro di Claudio Napoleoni e Paolo Sylos Labini che in vario modo preferivano sottolineare l’inadeguatezza del controllo pubblico sul processo di sviluppo. L’intervento nel dibattito di Graziani fu dirompente. Egli elaborò un modello interpretativo di sviluppo trainato dalle esportazioni, che mostrava come l’Italia si era trovata nella necessità di ottenere un vantaggio comparativo nei settori in cui la domanda estera era in espansione. Le imprese che producevano per le esportazioni dovettero attrezzarsi per sfruttare la domanda in crescita, mentre quelle che producevano per il mercato interno, con domanda stagnante, non compirono alcun riassetto significativo. Si veniva così ad approfondire un dualismo industriale tra un settore progredito e dinamico, costituito da grandi imprese collocate per lo più al Nord, che producevano per la domanda estera, e che adottarono tecniche produttive a elevata intensità di capitale, e un settore meno progredito e stagnante, costituito da imprese di piccole dimensioni situate generalmente al Sud, che producevano per il mercato interno, con tecniche produttive ad elevata intensità di lavoro.
Graziani è tornato numerose volte sul suo modello interpretativo, sino al classico Lo sviluppo dell’economia italiana del 1998, chiarendo che “il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno può aver costituito all’inizio un vantaggio immediato per le regioni settentrionali in quanto ha messo a disposizione dell’industria del Nord una riserva di manodopera apparentemente inesauribile; ma a lungo andare questo si è rivelato un elemento di grave debolezza nella struttura del Paese”.
Come troppo spesso capita, alla buona teoria economica non ha corrisposto una buona politica economica. L’intervento straordinario per il Mezzogiorno - di cui Graziani fu un teorizzatore - riuscì effettivamente a ridurre il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord al minimo storico. Infatti, mentre nel 1951 il prodotto interno lordo per abitante del Mezzogiorno arrivava appena al 53% del resto del Paese, il valore si portò nel 1972 al 65%. Ma poi, gli sprechi e gli errori nel periodo dell’intervento straordinario portarono ad archiviare quell’esperienza nei primi anni ‘90. Qualcuno teorizzò che la questione meridionale era sparita, che le politiche di intervento straordinario erano solo dannose per il tessuto produttivo meridionale, che occorreva passare a politiche che valorizzassero le vocazioni e i partenariati locali. Graziani ha sempre creduto ben poco a tutto questo e in effetti i risultati della “nuova programmazione per il Mezzogiorno” non si sono fatti attendere, dal momento che in pochi anni il valore pro capite della produzione meridionale è crollato al di sotto del 60% del resto d’Italia.
Oggi alcuni, tra cui lo stesso neoministro per la Coesione territoriale, Carlo Trigilia (Non c’è Nord senza Sud, 2012), ripropongono la tesi socioculturale del sottosviluppo, evidenziando la necessità di uno “Stato centrale più forte e autorevole, capace di controllare che l’allocazione delle risorse pubbliche, determinata ormai largamente da regioni e governi locali, rispetti obiettivi di efficienza e di equità”; una visione secondo la quale “si può promuovere lo sviluppo senza aggravio per le finanze pubbliche, anzi risparmiando”. Anche questo tipo di argomentazione non ha mai convinto Graziani, che piuttosto ha esaminato le derive clientelari e le inefficienze della amministrazione pubblica locale tentando di comprenderne le cause di fondo. Ad esempio, quando chiarì che “il settore pubblico non è inefficiente in sé: lo diventa quando sono deboli i destinatari dei suoi servizi”. Il riferimento è ai lavoratori ma anche alle imprese, “invischiate nel sistema della clientela e dei trasferimenti pubblici” (I Conti senza l’oste, 1997). Il punto è che nella visione di Graziani non si esce dalla questione meridionale senza un disegno ambizioso e coerente di politica industriale, che preveda ulteriori risorse e un’azione finalizzata a spingere le imprese verso un salto tecnologico e dimensionale.
La lezione magistrale di Graziani è oggi tanto più attuale, considerato che i processi di divaricazione tra “centri” e “periferie” in Europa sono molteplici, e certo non riguardano più solo l’Italia. Per capire come affrontare questi inediti, giganteschi problemi non ci resta che tornare a leggere Graziani.
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 4 maggio 2013
Graziani, il meridionalista keynesiano che sostenne l'intervento straordinario
di Riccardo Realfonzo e Carmen Vita
Il Corriere del Mezzogiorno, 4 maggio 2013
Oggi gli economisti italiani festeggiano Augusto Graziani, nato a Napoli ottanta anni fa. Già Presidente della Società Italiana degli Economisti, membro dell’Accademia dei Lincei, per un breve periodo Senatore, da cinquanta anni Graziani è punto di riferimento culturale e morale per schiere di studiosi formatisi alle sue lezioni e sui suoi libri. Graziani ha assunto una posizione di rilievo nella comunità scientifica internazionale soprattutto per i suoi contributi di impronta keynesiana sulla “teoria monetaria della produzione”, un approccio teorico di cui è indiscusso caposcuola, che descrive il funzionamento del sistema economico attraverso l’analisi dei flussi monetari e che giunge a conclusioni alternative a quelle del mainstream liberista. Grazie ai lavori di Graziani, questi studi hanno conosciuto significativi sviluppi non solo in Italia, ma anche in Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Canada.
Accanto al versante più squisitamente teorico del suo lavoro, Graziani è autore di studi illuminanti sullo sviluppo dell’economia italiana ed è uno dei principali esponenti del meridionalismo. I suoi primi importanti scritti su questo tema risalgono agli anni ’60, quando il dibattito ruotava intorno alle tesi di Vera Lutz, secondo la quale gli squilibri dell’economia italiana dipendevano principalmente dall’azione sindacale e dalla dinamica del costo del lavoro. La Lutz era contrastata da studiosi del calibro di Claudio Napoleoni e Paolo Sylos Labini che in vario modo preferivano sottolineare l’inadeguatezza del controllo pubblico sul processo di sviluppo. L’intervento nel dibattito di Graziani fu dirompente. Egli elaborò un modello interpretativo di sviluppo trainato dalle esportazioni, che mostrava come l’Italia si era trovata nella necessità di ottenere un vantaggio comparativo nei settori in cui la domanda estera era in espansione. Le imprese che producevano per le esportazioni dovettero attrezzarsi per sfruttare la domanda in crescita, mentre quelle che producevano per il mercato interno, con domanda stagnante, non compirono alcun riassetto significativo. Si veniva così ad approfondire un dualismo industriale tra un settore progredito e dinamico, costituito da grandi imprese collocate per lo più al Nord, che producevano per la domanda estera, e che adottarono tecniche produttive a elevata intensità di capitale, e un settore meno progredito e stagnante, costituito da imprese di piccole dimensioni situate generalmente al Sud, che producevano per il mercato interno, con tecniche produttive ad elevata intensità di lavoro.
Graziani è tornato numerose volte sul suo modello interpretativo, sino al classico Lo sviluppo dell’economia italiana del 1998, chiarendo che “il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno può aver costituito all’inizio un vantaggio immediato per le regioni settentrionali in quanto ha messo a disposizione dell’industria del Nord una riserva di manodopera apparentemente inesauribile; ma a lungo andare questo si è rivelato un elemento di grave debolezza nella struttura del Paese”.
Come troppo spesso capita, alla buona teoria economica non ha corrisposto una buona politica economica. L’intervento straordinario per il Mezzogiorno - di cui Graziani fu un teorizzatore - riuscì effettivamente a ridurre il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord al minimo storico. Infatti, mentre nel 1951 il prodotto interno lordo per abitante del Mezzogiorno arrivava appena al 53% del resto del Paese, il valore si portò nel 1972 al 65%. Ma poi, gli sprechi e gli errori nel periodo dell’intervento straordinario portarono ad archiviare quell’esperienza nei primi anni ‘90. Qualcuno teorizzò che la questione meridionale era sparita, che le politiche di intervento straordinario erano solo dannose per il tessuto produttivo meridionale, che occorreva passare a politiche che valorizzassero le vocazioni e i partenariati locali. Graziani ha sempre creduto ben poco a tutto questo e in effetti i risultati della “nuova programmazione per il Mezzogiorno” non si sono fatti attendere, dal momento che in pochi anni il valore pro capite della produzione meridionale è crollato al di sotto del 60% del resto d’Italia.
Oggi alcuni, tra cui lo stesso neoministro per la Coesione territoriale, Carlo Trigilia (Non c’è Nord senza Sud, 2012), ripropongono la tesi socioculturale del sottosviluppo, evidenziando la necessità di uno “Stato centrale più forte e autorevole, capace di controllare che l’allocazione delle risorse pubbliche, determinata ormai largamente da regioni e governi locali, rispetti obiettivi di efficienza e di equità”; una visione secondo la quale “si può promuovere lo sviluppo senza aggravio per le finanze pubbliche, anzi risparmiando”. Anche questo tipo di argomentazione non ha mai convinto Graziani, che piuttosto ha esaminato le derive clientelari e le inefficienze della amministrazione pubblica locale tentando di comprenderne le cause di fondo. Ad esempio, quando chiarì che “il settore pubblico non è inefficiente in sé: lo diventa quando sono deboli i destinatari dei suoi servizi”. Il riferimento è ai lavoratori ma anche alle imprese, “invischiate nel sistema della clientela e dei trasferimenti pubblici” (I Conti senza l’oste, 1997). Il punto è che nella visione di Graziani non si esce dalla questione meridionale senza un disegno ambizioso e coerente di politica industriale, che preveda ulteriori risorse e un’azione finalizzata a spingere le imprese verso un salto tecnologico e dimensionale.
La lezione magistrale di Graziani è oggi tanto più attuale, considerato che i processi di divaricazione tra “centri” e “periferie” in Europa sono molteplici, e certo non riguardano più solo l’Italia. Per capire come affrontare questi inediti, giganteschi problemi non ci resta che tornare a leggere Graziani.
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