Europa, promessa mancata

Europa, promessa mancata
di Riccardo Realfonzo
Corriere del Mezzogiorno, 26 maggio 2019



Siamo al voto per il nuovo Parlamento Europeo ma il livello di informazione degli italiani sui temi salienti in Europa appare scarso, complice un dibattito elettorale miope e concentrato sulle beghe politiche di casa nostra. Eppure, per l’Italia e in misura particolare per le regioni del Mezzogiorno si tratta di un passaggio cruciale. È sempre più evidente, infatti, che le dinamiche della crescita e dell’occupazione in casa nostra dipendono più dalle politiche europee, e dalle dinamiche che esse innescano, che dalle decisioni del governo italiano. In altre parole, l’unificazione monetaria, i vincoli alla spesa pubblica e le politiche della Banca Centrale Europea condizionano pesantemente le dinamiche dello sviluppo locale.
Per il Mezzogiorno, e per tutte le periferie del Continente, questa Europa è una promessa mancata. Ad oggi non si è avuto alcun riscontro alla tesi ottimistica (sostenuta dalla Commissione Europea) secondo la quale l’unificazione monetaria, con la caduta delle barriere al commercio tra i Paesi determinate dai costi legati ai tassi di cambio tra le valute, e la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e del lavoro avrebbero determinato una accelerazione dello sviluppo nelle aree in ritardo, come il nostro Mezzogiorno. Secondo quella tesi, le regioni in ritardo di sviluppo godono di vantaggi rispetto alle regioni congestionate centrali, in termini di minori costi del lavoro, delle superfici in cui collocare le imprese e in generale dei servizi. In virtù di questi vantaggi, con la moneta unica anche il Mezzogiorno avrebbe dovuto attrarre massicci investimenti, tali da aumentare l’integrazione produttivo-commerciale con il resto d’Italia e con le aree centrali d’Europa, e mettere in moto un processo di convergenza rispetto alla Germania e alle altre aree forti del Continente.
Tuttavia, i dati dimostrano che in tutti questi anni la distanza tra i Mezzogiorni e il cuore d’Europa non si è affatto colmata, ma anzi è cresciuta a dismisura. Basti pensare che dallo scoppio della crisi del 2008 ad oggi la Germania è cresciuta del 15% e la Francia del 10%; mentre il Portogallo è rimasto fermo al palo, la Grecia è crollata del 24%, l’Italia segna un meno 4% e il nostro Mezzogiorno addirittura un meno 8%. Insomma, l’abolizione delle barriere relative al cambio e ai movimenti di lavoro e capitale ha attivato non già una diffusione omogenea dello sviluppo bensì processi di centralizzazione dei capitali e concentrazione degli investimenti nelle aree ricche, con conseguenti dinamiche di desertificazione economica nei Mezzogiorni.
La Storia insegna che le unificazioni monetarie possono avere questi effetti. D’altronde ne sapevamo già qualcosa nel Sud d’Italia, avendo sperimentato l’unificazione monetaria successiva all’Unità politica del Paese, un secolo e mezzo fa, che mise in difficoltà il sistema industriale partenopeo, precedentemente protetto da barriere commerciali. Il punto è che la moneta unica pone direttamente a confronto, senza più il cuscinetto del cambio, sistemi produttivi forti con sistemi produttivi deboli; e ciò, in assenza di un meccanismo di sostegno di questi ultimi, può determinare gravi conseguenze. Una lezione della Storia che hanno imparato bene i tedeschi, almeno con riguardo ai problemi di casa loro, considerato che dopo l’unificazione politica e monetaria del 1990 la Germania Ovest ha investito risorse pubbliche per circa 1.500 miliardi di euro al fine di ammodernare le infrastrutture della Germania Est.
Ebbene, sono proprio le politiche di intervento pubblico a sostegno degli investimenti per le aree periferiche e per i Paesi colpiti da shock avversi che sono risultate deficitarie in Europa. L’Unione Europea, infatti, non si è dotata di un vero bilancio in grado di fronteggiare gli squilibri macroeconomici e non ha nemmeno varato strumenti di raccolta del risparmio, come gli eurobond, per finanziare politiche anticicliche e investimenti infrastrutturali. Al contrario, con eccessiva fiducia nei meccanismi spontanei di aggiustamento di mercato ha ingessato le politiche fiscali dei Paesi membri con i ben noti vincoli al deficit e al debito, escludendo pure la possibilità che la Banca Centrale Europea possa intervenire efficacemente in soccorso degli Stati membri sottoposti ad attacchi speculativi. D’altronde, come scriveva Nicholas Kaldor nel lontanto 1971, “l’obiettivo di una piena unione monetaria ed economica è irraggiungibile senza un’unione politica; e quest’ultima presuppone integrazione delle politiche fiscali e non già armonizzazione delle politiche fiscali”.
Ebbene, a cospetto di tutto ciò cosa scegliamo? Andiamo verso un’Europa finalmente unita o torniamo gli Stati nazionali? O piuttosto ci illudiamo che l’unione monetaria possa reggere nelle condizioni attuali?
Unica postilla al ragionamento sono i fondi strutturali stanziati in Europa per la coesione, di cui anche il nostro Mezzogiorno ha beneficiato; ma rispetto alla dimensione delle forze centrifughe che agiscono in Europa, per non parlare dei finanziamenti stanziati dalla Germania per la sua metà orientale, si tratta di acqua che non leva sete. E la Commissione Europea propone anche di tagliare del 13% i fondi per la programmazione 2021-2027. Certo, in altri Paesi europei si è saputo fare tesoro di quei fondi, trasformando il volto di alcune città e attivando processi di sviluppo, mentre nel Mezzogiorno sono stati tante volte dissipati. Ma qui finiscono le responsabilità europee e iniziano le nostre.