L'Europa nella crisi


L’Europa nella crisi

di Riccardo Realfonzo

Left, 6 maggio 2011

Le politiche di austerità imposte dall’UE. La crescita del divario tra Paesi forti e deboli del Continente. E delle disuguaglianze sociali. Così Bruxelles frena la ripresa. E Tremonti si adegua. Condannando l’Italia alla marginalità.

Lo sciopero generale indetto dalla CGIL contro la politica economica del governo non potrebbe essere più opportuno. Come numerosi studi confermano, le politiche economiche di austerità prevalenti in Europa, rafforzate dal Consiglio Europeo del 24 e 25 marzo, tendono a frenare lo sviluppo e – quel che è peggio – a renderlo più squilibrato, accentuando i processi di divaricazione tra aree centrali e aree periferiche all’interno della zona euro. Il rischio che il nostro Paese perda qualsiasi contatto con i ritmi di crescita delle aree più sviluppate del continente si fa ogni giorno più concreto. Solo il governo Berlusconi sembra non esserne consapevole, e ha recentemente varato un documento di programmazione finanziaria (il Documento di Economia e Finanza 2011) che di fatto tarpa le ali a qualsiasi possibilità di significativa ripresa economica.
Ma procediamo con ordine. Purtroppo, gli impatti della crisi sull’economia europea stanno confermando le preoccupazioni espresse da numerosi economisti, sin dal rapporto MacDougall del lontano 1977. Quel rapporto già intuiva che una unione monetaria europea, allora di là da venire, avrebbe dovuto dotarsi di potenti meccanismi di aggiustamento interni - non di mercato, bensì principalmente incentrati sulla centralizzazione delle politiche di bilancio - per contrastare la tendenza spontanea alla concentrazione dello sviluppo, e in generale per proteggersi da tutti quegli squilibri ai quali non si sarebbe potuto più fare fronte con la politica dei cambi e la manovra del tasso ufficiale di sconto. Le politiche fiscali avrebbero dovuto agire sul piano europeo, contrastando le tendenze spontanee di mercato, per redistribuire la domanda e favorire uno sviluppo “armonico” dal punto di vista territoriale.
L’Europa purtroppo, sin dalla stipula del Trattato di Maastricht, si è incamminata sulla strada opposta, introiettando un insieme di regole che legano le mani alle politiche fiscali, che prevedono interventi irrisori rispetto agli squilibri strutturali e che definiscono una politica monetaria radicalmente “conservatrice”, tesa cioè a combattere l’inflazione sempre e comunque, anche a costo di arrestare lo sviluppo e contrarre l’occupazione (come mostra, ancora una volta, il recente incremento del tasso di riferimento stabilito dalla Banca Centrale Europea, finalizzato a limitare la timida crescita dei prezzi dovuta peraltro ai beni importati). L’effetto di ciò è sotto gli occhi di tutti: un’Europa a due velocità. Da un lato, alcuni paesi – in testa la Germania – che praticano politiche di contenimento della spesa pubblica e dei salari, e che per questa via tengono a freno la domanda interna, i prezzi e le importazioni. Questi paesi praticano sostanzialmente politiche commerciali aggressive e accumulano avanzi delle bilance commerciali. Dall’altro lato, i paesi “periferici” – tra cui la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e la stessa Italia – i quali subiscono gli effetti delle politiche restrittive, registrando disavanzi crescenti della bilancia commerciale e crisi occupazionali, con ampi effetti negativi sulle condizioni della finanza pubblica. A cospetto di questo scenario, anziché cambiare radicalmente strada, abbandonando le politiche di austerità - come una parte consistente dell’accademia internazionale invita a fare, ad esempio la “Lettera” sottoscritta da oltre 250 economisti nel giugno scorso (www.letteradeglieconomisti.it) - l’Europa ha piuttosto accentuato il suo profilo “rigorista”, rendendosi disponibile ad aiutare i paesi oggetto di attacchi speculativi solo in cambio di aspre politiche restrittive, nonché prevedendo sentieri di abbattimento del debito pubblico (verso il rapporto debito/Pil al 60%) che porteranno al lastrico i paesi periferici e alla loro “colonizzazione” da parte delle forti aree centrali.
Il governo italiano non sta certo ostacolando questi processi. Anzi, ha condiviso l’impostazione di politica economica restrittiva proposta dalla Germania, limitandosi a porre il tema della rilevanza della dimensione del debito privato per la definizione degli indicatori di stabilità delle condizioni finanziarie. Il recente Documento di Economia e Finanza (DEF) per il 2011 conferma la linea del governo italiano e rinuncia di fatto a qualsiasi ipotesi di rilancio dell’economia nazionale.
Nel DEF, infatti, il governo annuncia di volere ridurre significativamente il rapporto tra debito pubblico e Pil, grazie ad una progressiva crescita dell’avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite pubbliche, interessi sul debito a parte). L’obiettivo è abbattere il rapporto debito/Pil dall’attuale 120% al 112,8% nel 2014. E ciò affiancando alla correzione dei conti realizzata con il decreto 78/2010 (che impatta per 12 miliardi di euro nel 2011 e 25 miliardi nel 2012 e 2013) ulteriori manovre restrittive (tagli alla spesa o maggiori entrate) per circa 18 miliardi di euro nel 2013 e circa 35 miliardi nel 2014, anno nel quale dovrebbe raggiungersi il pareggio di bilancio. Con una prospettiva di questo genere non possono esserci grandi prospettive di rilancio economico. E questo per il semplice fatto che – come insegna la tradizione teorica keynesiana e direi anche la Storia – le politiche fiscali restrittive riducono la domanda complessiva di beni e servizi, impattando su una economia già asfittica (le previsioni del governo sono di una crescita del Pil nei prossimi anni appena superiore all’1%), frenando l’attività produttiva, con pesanti ripercussioni sui livelli occupazionali. Per di più le manovra di abbattimento del debito proposta dal governo si guarda bene dall’accompagnarsi ad una redistribuzione dei carichi fiscali dal lavoro ai profitti e alle rendite. Un meccanismo questo che - al di là delle considerazioni di giustizia sociale - potrebbe attenuare la caduta della domanda aggregata e quindi gli effetti recessivi del “risanamento”.
A queste condizioni le uniche prospettive di crescita economica ed occupazionale risultano affidate dal governo al cosiddetto Programma nazionale di riforma. Il Programma comprende un mix di politiche che secondo il governo dovrebbero rendere sempre più competitiva la nostra economia: il federalismo fiscale e un complessivo riordino del sistema fiscale, misure finalizzate ad accentuare la concorrenza, la riforma (leggi: tagli) del sistema scolastico e universitario, l’ulteriore flessibilità (leggi: precarietà) del mercato del lavoro, la riforma della pubblica amministrazione. Ebbene, stando al governo queste discutibili “riforme” avrebbero un impatto positivo pari allo 0,4% annuo del Pil per il quadriennio 2011-2014, allo 0,3% annuo per il triennio 2015-2017 e a uno 0,2% annuo per il triennio 2018-2020. Gli effetti positivi riguarderebbero anche l’occupazione che, sempre grazie a queste riforme, dovrebbe aumentare, nei tre periodi considerati, rispettivamente al ritmo dello 0,3%, dello 0,2% e dello 0,1% annuo. Per di più, le riforme del governo dovrebbero anche migliorare le condizioni della finanza pubblica.
Ma, come è stato rilevato su www.economiaepolitica.it, le conclusioni del governo sui benefici effetti di queste manovre non hanno alcunché di scientifico: si tratta essenzialmente dei sogni del ministro Tremonti. Assolutamente indimostrabili sono, ad esempio, i vantaggi che dovrebbero scaturire dalle azioni di taglio della spesa pensionistica e da ulteriori dosi di flessibilità del mercato del lavoro che, insieme, dovrebbero generare al 2020 una maggiore crescita del Pil (rispetto all’ipotesi di assenza di queste riforme) pari all’1,6%. Al contrario, secondo numerose ricerche scientifiche la caduta del reddito dei lavoratori che scaturisce da questo tipo di misure può generare effetti esattamente contrari. Nella già citata “Lettera degli economisti”, ad esempio, la contrazione della quota dei salari sul Pil viene considerata una delle cause della crisi economica.
A tutto ciò si aggiunge che il nuovo Patto di Stabilità imporrebbe dal 2015 una rapida contrazione del rapporto debito/Pil verso il valore del 60% (in venti anni). Il che significherebbe, utilizzando stime prudenziali, mettere in fila una serie di avanzi primari non inferiori al 3% annuo, con effetti disastrosi per il Paese.
Il governo del nostro Paese non può non vedere che un impianto restrittivo di questo tipo finisce per relegare definitivamente il nostro Paese a un destino di marginalità. Occorre una nuova politica economica per l’Italia e per l’Europa, come chiarito nel recente documento varato da realtà rappresentative del mondo progressista e della sinistra italiana (anche esso pubblicato da www.economiaepolitica.it). Una politica economica che punti sulla stabilizzazione (non riduzione) dei debiti pubblici dei paesi “periferici” e sul contestuale impegno della Banca Centrale Europea nel sostenere il contenimento del costo del debito; sulla europeizzazione parziale dell’emissioni di titoli pubblici; sul rilancio delle politiche espansive nei paesi che registrano avanzi della bilancia commerciale e su una nuova stagione di politiche industriali. Una politica che operi una riforma delle istituzioni economiche europee con l’obiettivo di ripristinare un coordinamento tra politiche fiscali e monetarie e restituirle al controllo democratico dei cittadini. Che investa nello stato sociale e ridefinisca le politiche del lavoro, riducendo il grado di precarietà nei rapporti di lavoro ed incrementando la quota dei salari nel reddito nazionale.