di Riccardo Realfonzo
Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2013
Le prospettive economiche per l’Italia
restano gravissime, al punto che secondo le ultime previsioni il 2013 si
chiuderà con una ulteriore contrazione di circa due punti del Pil (qui e in
seguito dati Ocse). Il ministro Saccomanni afferma che la crisi è “peggiore di
quella del ‘29” ma continua a ripetere che il governo deve rispettare il
vincolo del deficit pubblico al 3% del Pil. Ne segue che per quest’anno sono ormai
possibili solo manovre a saldo zero e anche nel 2014 ci saranno ben pochi
margini di intervento, limitati alla differenza tra il deficit tendenziale e il
vincolo del 3%: circa mezzo punto di Pil, non più di 8 miliardi. Risorse che
non sarebbero più nemmeno disponibili se dovessimo dare corso al Documento di
Economia e Finanza che – in linea con Six Pack e Fiscal Compact – si pone l’obiettivo di azzerare il
deficit (in termini strutturali) mediante nuovi progressivi innalzamenti dell’avanzo
primario sino a un valore record di fine legislatura del 5,7% del Pil (90
miliardi di euro).
Insomma, nonostante l’emergenza in
cui ci troviamo, il governo sembra avere le mani legate e prospettarci ancora austerità.
Ma è ormai acclarato che questo tipo di politiche frena la crescita e non assicura
il riequilibrio dei conti pubblici. Lo abbiamo sperimentato in Italia, dove gli
interventi restrittivi non hanno dato gli effetti previsti né in termini di
crescita (le previsioni del precedente esecutivo per il 2013 erano di un +
0,5%, mentre il Pil si riduce al ritmo del 2%) né in termini di finanze
pubbliche (il rapporto debito e Pil, stimato in diminuzione, continua ad
aumentare). E lo abbiamo sperimentato in Europa, dove il Fondo Monetario
Internazionale ammette che sono stati ampiamente sottostimati gli effetti deleteri
delle politiche di austerità. Il punto è – come ho già sottolineato mesi fa su queste
colonne – che i modelli previsionali adottati dalle principali istituzioni
internazionali hanno introiettato la “teoria dell’austerità espansiva”,
attribuendo ai moltiplicatori della politica fiscale, che misurano l’impatto
delle politiche espansive sul Pil, valori negativi o prossimi allo zero. In
realtà, i moltiplicatori si sono rivelati molto più grandi ed è ormai
innegabile che una politica restrittiva (un aumento del saldo tra prelievo
fiscale e spesa pubblica) riduce il Pil in misura almeno equivalente, con retroazione
negativa sulle entrate fiscali.
Per questo, proseguire con il rigore
è a dir poco rischioso, e occorrerebbe imprimere una svolta alla politica
economica nazionale, smettendola di considerare i vincoli europei alla stregua
di “tabù”, come ormai riconoscono gli stessi campioni dell’austerità. La nuova strada
da battere consisterebbe nell’azzeramento dell’avanzo primario, oggi pari a 2,4
punti di Pil. Ciò significherebbe disporre di oltre 35 miliardi di euro da
utilizzare per ridurre la pressione fiscale sul mondo della produzione e
promuovere politiche industriali. L’impatto sulla crescita di un intervento di
questo tipo può essere analizzato alla luce delle nuove stime del moltiplicatore
della politica fiscale. Alcuni studi relativi all’Italia mostrano che in
condizioni recessive il moltiplicatore della spesa pubblica supererebbe il
valore di 2 (ma esistono anche stime di moltiplicatori pari a 3). Qui, molto più
prudentemente, consideriamo il valore medio (pari a 1,3) dell’intervallo
calcolato dal capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier
Blanchard. Sotto questo assunto, l’azzeramento del nostro avanzo genererebbe una
crescita del Pil di oltre 45 miliardi di euro, 3 punti di Pil, fornendo la
spinta di cui abbiamo oggi tanto bisogno. Ed entro 9-15 mesi, raggiunto il picco
espansivo, anche gli effetti immediati di incremento di deficit e debito risulterebbero
in buona misura compensati da due fattori: l’aumento stesso del Pil, che naturalmente
abbatte i rapporti significativi di finanza pubblica, e la crescita delle
entrate fiscali, che trainate dalla ripresa incrementerebbero di almeno un
punto di Pil.
Insomma, andare oltre il vincolo
europeo sul deficit conviene, perché può permetterci di rilanciare l’economia
italiana. Inutile sottolineare che sarebbe eccellente concordare a livello
europeo una simile discontinuità, magari prima di procedere a più complessi
interventi di riassetto delle istituzioni europee e del palinsesto
macroeconomico. Infatti, al di là delle motivazioni più squisitamente
politiche, una azione espansiva portata avanti di concerto dai membri dell’eurozona,
e trainata da quelli che hanno i conti più solidi, darebbe ulteriore impulso
alla crescita e gioverebbe agli equilibri della bilancia commerciale; e con una
Banca Centrale Europea accomodante anche le possibili tensioni sugli oneri del
debito risulterebbero efficacemente arginate. Ma se l’Europa continuasse a
tergiversare e trascurare il baratro dentro cui stiamo scivolando, dovremmo
considerare la possibilità di una azione unilaterale. Certo, si tratterebbe di
una strada estremamente ardua, ma potrebbe finire con l’essere l’unica via che
resta prima di arrenderci al declino o essere costretti a decisioni che
metterebbero a repentaglio ancora maggiore la tenuta della zona euro.