Il rischio di un Piano a scartamento ridotto
di Riccardo Realfonzo
Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2021
Il Piano Nazionale di
Ripresa e Resilienza, che illustra in che modo l’Italia utilizzerà le risorse
del Next Generation EU per rilanciare l’economia, è oggetto di un confronto
politico aspro. Si tratta di un documento decisivo per il futuro del Paese e
per questo è opportuno sottolineare una grave insufficienza delle stesure che
fin qui hanno circolato, con l’auspicio che le fasi successive della
discussione, inclusi il dibattito parlamentare e il confronto con le parti
sociali, possano ancora migliorare il Piano.
È ben noto che la
stesura del Piano circolata a inizio dicembre è stata rivista sotto numerosi
aspetti e, in attesa della approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, i
numeri sono molto ballerini. La debolezza principale delle versioni che sin qui
hanno circolato concerne la scelta del governo, già anticipata nella Nota di
Aggiornamento approvata a ottobre, di dedicare una quota rilevante delle
risorse europee alla sostituzione di risorse ordinarie per finanziare
interventi già programmati. Il punto specifico cui mi riferisco concerne l’utilizzo
delle risorse al cuore del Next Generation EU, il Dispositivo Europeo di
Ripresa e Resilienza, che stanzia 193 miliardi per l’Italia, di cui 127,6 in
prestiti e 65,4 in sovvenzioni. Nella stesura di dicembre del Piano si
ipotizzava di utilizzare tutte le sovvenzioni e solo una frazione dei prestiti
per nuovi investimenti pubblici e per incentivi di varia natura, destinando la
gran parte dei prestiti a sostituire risorse ordinarie per interventi già programmati.
L’ultima versione del Piano è certamente migliore. Sono stati inseriti nel
ragionamento anche i fondi strutturali e di coesione, si è riflettuto su
possibili meccanismi a leva per gli investimenti, si è anche ridefinito il peso
relativo di investimenti e incentivi a favore dei primi. Soprattutto, si è
aumentata la quota dei prestiti europei destinati a finanziare nuovi
investimenti, e conseguentemente è stata ridotta la quota sostitutiva. Ora, rispetto
al totale dei 127,6 miliardi di prestiti, una metà (64,5 miliardi) sarebbe
dedicata al finanziamento di nuovi progetti e l’altra metà (63,1 miliardi) andrebbe
a sostituire le risorse ordinarie. Così facendo, nonostante il passo avanti
rispetto alla versione precedente del Piano, un terzo delle risorse complessive
continuerebbe ad avere una natura puramente sostitutiva, fermandosi nelle casse
dello Stato.
La decisione di
utilizzare a scartamento ridotto i fondi del Next Generation EU, prevedendo una quota rilevante di risorse sostitutive,
viene considerata necessaria dal governo “per assicurare la coerenza con gli
obiettivi di sostenibilità finanziaria di medio-lungo periodo indicati dalla
NADEF”. Qui vi è un grave errore di valutazione macroeconomica, tante volte reiterato
nei documenti di politica economica del Paese, e nei modelli di previsione
utilizzati dal ministero dell’economia, a dispetto dell’esperienza accumulata.
L’idea che giustifica la presenza di un’ampia riserva di fondi sostitutivi
risiede nella convinzione che ciò favorisca la sostenibilità del debito
pubblico. In questo modo, si ritiene, si limiterebbe il deficit annuale –
perché le risorse europee sostituiscono quelle nazionali – e si risparmierebbe
anche sugli interessi, perché quegli investimenti programmati verrebbero
finanziati con un debito che costa meno rispetto alla collocazione diretta di
titoli italiani sul mercato. Tuttavia, come una vasta letteratura internazionale
ha ormai documentato, sulla scorta dell’esperienza storica, anche italiana, gli
investimenti pubblici hanno un moltiplicatore ben maggiore di uno: ciò
significa che essi generano un aumento del pil significativamente più grande
della spesa necessaria a realizzarli. In altre parole, i nuovi investimenti
pubblici determinano una crescita del pil maggiore della crescita del debito,
determinando una contrazione del rapporto tra debito e pil. È per questo che
per rimettere in moto il Paese e riportare sotto controllo il debito non si deve
mai lesinare sugli investimenti. A ben vedere, le risorse europee non sono
affatto abbondanti - come molti credono - e occorrerebbe destinarle tutte nella
direzione di nuovi investimenti (al netto di una quota indispensabile di
ristori e incentivi). Il Piano italiano dovrebbe spingersi nell’utilizzo
integrale dei fondi se vogliamo credibilmente puntare a recuperare il terreno
perso con la pandemia, e prima ancora con la stagnazione che ha seguito la
crisi finanziaria del 2008. Insomma, spendere tutto e spendere bene, con
coraggio, è la sola chance che il Paese ha per rimettersi in moto e tenere
sotto controllo la temibile dinamica del debito pubblico.