"La Notte degli Alesina viventi" è l'horror preferito dai keynesiani. Firmato Realfonzo


"La Notte degli Alesina viventi" è l'horror preferito dai keynesiani. Firmato Realfonzo
di Marco Valerio Lo Prete
Il Foglio, 14 marzo 2013

“La notte degli Alesina viventi” è il film horror che fa più paura al Premio Nobel per l’economia Paul Krugman. Al posto dei “morti”, come da pellicola originale di George A. Romero del 1968 – ha scritto ieri Krugman sul suo blog sul New York Times – l’economista liberal ci metterebbe “Alberto Alesina”, appunto, economista italiano di Harvard, coppia fissa con il bocconiano Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, e alfiere dell’“austerity espansiva”. Quest’ultima è la teoria secondo cui dosi massicce di rigore fiscale tranquilizzano i mercati, fanno calare i tassi d’interesse e quindi consentono al credito di riaffluire verso l’economia reale. Una “religione” smentita da teoria e prassi, ha scritto Krugman puntando il dito sull’impatto recessivo che l’austerity sta avendo in Europa. Esattamente di “religione”, a proposito delle tesi di Alesina&co., aveva parlato in Italia nei mesi scorsi anche Riccardo Realfonzo, economista, docente (neokeynesiano) di Economia all’Università del Sannio. “La religione dell’austerità espansiva di cui scrive Krugman – dice in un colloquio con il Foglio – sta generando gravissime difficoltà in Europa. Gli studi più aggiornati e convincenti mostrano con chiarezza che i saldi fiscali positivi, cioè gli eccessi delle entrate sulle spese pubbliche, generano una contrazione del pil più che proporzionale. Questo spiega perché si sia creato il circolo vizioso dell’austerità recessiva, di cui il caso greco è il più esemplare”. Il meccanismo, per Realfonzo, è sempre lo stesso: “Vengono fissati obiettivi di risanamento delle finanze pubbliche da perseguire attraverso saldi fiscali positivi, e dunque avanzi primari consistenti. Ciò però abbatte la domanda aggregata, riduce il pil e aumenta la disoccupazione, peggiorando le condizioni della finanza pubblica. Seguono nuove manovre di austerità e così via”. La novità è che Krugman sarà pure eccentrico, secondo qualcuno, ma “i dubbi” ormai assalgono la stessa leadership europea: “Perciò credo che i tempi più lunghi di cui beneficeranno Spagna, Portogallo e Grecia per rientrare dai deficit eccessivi siano dovuti a una qualche consapevolezza che una ‘cura’ ancora più forte avrebbe ammazzato il malato”. Secondo l’economista italiano, “ormai anche nelle tecnocrazie occidentali c’è la consapevolezza che la tenuta dell’Unione monetaria è a rischio”. Per questo Mario Draghi, alla guida della Banca centrale europea, avrebbe aperto alla possibilità di acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi in crisi, per questo il Consiglio Ue di dicembre ha “ammesso che occorre un’azione di bilancio ‘differenziata e favorevole alla crescita’”. Al Consiglio Ue che si apre stasera a Bruxelles, infine, si discuterà – è scritto nelle bozze del comunicato finale – della necessaria flessibilità delle regole di disciplina di bilancio per creare margini di manovra sugli “investimenti pubblici produttivi”. E’ sufficiente tutto ciò per uscire dall’horror dell’austerity, come lo definiscono i keynesiani? “Se ora il Consiglio definisse una regola per scorporare gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit sarebbe un segnale nella giusta direzione. Ma un segnale insufficiente, anche per l’Italia”. Eppure, anche a voler escludere gli opposti estremismi, un consenso minimo pareva raggiunto: la “crescita a debito” non è la strada giusta per le economie sviluppate. “Guardi che ‘debito’ non è una brutta parola. E’ l’altra faccia del credito – replica Realfonzo – E senza credito, come ci ha insegnato Schumpeter, non c’è sviluppo. Il debito pubblico non va demonizzato, ed è anche discutibile che il rapporto tra debito pubblico e pil costituisca la corretta misura della capacità di uno stato di far fronte ai propri debiti. In realtà il debito pubblico rappresenta solo una quota dello stock complessivo di ricchezza nazionale e pertanto la sostenibilità del debito andrebbe commisurata a quest’ultima, notoriamente più cospicua dei soli flussi annui di reddito”. Poi però, in conclusione, anche il neokeynesiano Realfonzo ammette che possa esistere “una regola di finanza pubblica prudente e percorribile”, che per lui è “la stabilizzazione del rapporto debito/pil”. L’Italia, per esempio, dovrebbe impegnarsi non al pareggio di bilancio nell’anno in corso, ma al congelamento del rapporto debito/pil al 127 per cento del pil. Questo dovrebbe essere l’obiettivo diplomatico per Mario Monti o per il presidente del Consiglio che verrà: “Il nostro paese infatti non è in condizione di rispettare gli impegni assunti negli ultimi due anni, cioè portare il bilancio al pareggio strutturale e avviare l’abbattimento del debito ai ritmi previsti dal Fiscal compact. Per fare queste cose servono avanzi primari”, cioè eccessi del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, interessi sul debito esclusi, “superiori al 5 per cento l’anno. Gli effetti sull’economia e sulla società sarebbero estremamente gravi. Seguire questa strada rischia di essere poco responsabile, quanto chiedere uscire oggi l’uscita dall’euro. Stabilizzare il rapporto debito/pil, invece, richiede avanzi primari del 3 per cento, liberando risorse ingenti per sostenere l’economia”. Tutto ciò basterebbe soltanto se allo stesso tempo i paesi in surplus commerciale (in primis la Germania) “varassero politiche espansive, lasciando aumentare prezzi e salari, aumentando le loro importazioni che sono le nostre esportazioni”. A meno che il “blocco tedesco che difende la sua visione” non ci voglia precipitare, dal punto di vista di Realfonzo, in un nuovo film horror in cui andrà in scena “il fallimento dell’esperienza unitaria”.