Gli ottant'anni di Augusto Graziani

Gli ottant'anni di Augusto Graziani
di Riccardo Realfonzo
L'Unità, 4 maggio 2013







Graziani, il meridionalista keynesiano che sostenne l'intervento straordinario
di Riccardo Realfonzo e Carmen Vita
Il Corriere del Mezzogiorno, 4 maggio 2013


Oggi gli economisti italiani festeggiano Augusto Graziani, nato a Napoli ottanta anni fa. Già Presidente della Società Italiana degli Economisti, membro dell’Accademia dei Lincei, per un breve periodo Senatore, da cinquanta anni Graziani è punto di riferimento culturale e morale per schiere di studiosi formatisi alle sue lezioni e sui suoi libri. Graziani ha assunto una posizione di rilievo nella comunità scientifica internazionale soprattutto per i suoi contributi di impronta keynesiana sulla “teoria monetaria della produzione”, un approccio teorico di cui è indiscusso caposcuola, che descrive il funzionamento del sistema economico attraverso l’analisi dei flussi monetari e che giunge a conclusioni alternative a quelle del mainstream liberista. Grazie ai lavori di Graziani, questi studi hanno conosciuto significativi sviluppi non solo in Italia, ma anche in Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Canada.
Accanto al versante più squisitamente teorico del suo lavoro, Graziani è autore di studi illuminanti sullo sviluppo dell’economia italiana ed è uno dei principali esponenti del meridionalismo. I suoi primi importanti scritti su questo tema risalgono agli anni ’60, quando il dibattito ruotava intorno alle tesi di Vera Lutz, secondo la quale gli squilibri dell’economia italiana dipendevano principalmente dall’azione sindacale e dalla dinamica del costo del lavoro. La Lutz era contrastata da studiosi del calibro di Claudio Napoleoni e Paolo Sylos Labini che in vario modo preferivano sottolineare l’inadeguatezza del controllo pubblico sul processo di sviluppo. L’intervento nel dibattito di Graziani fu dirompente. Egli elaborò un modello interpretativo di sviluppo trainato dalle esportazioni, che mostrava come l’Italia si era trovata nella necessità di ottenere un vantaggio comparativo nei settori in cui la domanda estera era in espansione. Le imprese che producevano per le esportazioni dovettero attrezzarsi per sfruttare la domanda in crescita, mentre quelle che producevano per il mercato interno, con domanda stagnante, non compirono alcun riassetto significativo. Si veniva così ad approfondire un dualismo industriale tra un settore progredito e dinamico, costituito da grandi imprese collocate per lo più al Nord, che producevano per la domanda estera, e che adottarono tecniche produttive a elevata intensità di capitale, e un settore meno progredito e stagnante, costituito da imprese di piccole dimensioni situate generalmente al Sud, che producevano per il mercato interno, con tecniche produttive ad elevata intensità di lavoro.
Graziani è tornato numerose volte sul suo modello interpretativo, sino al classico Lo sviluppo dell’economia italiana del 1998, chiarendo che “il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno può aver costituito all’inizio un vantaggio immediato per le regioni settentrionali in quanto ha messo a disposizione dell’industria del Nord una riserva di manodopera apparentemente inesauribile; ma a lungo andare questo si è rivelato un elemento di grave debolezza nella struttura del Paese”.
Come troppo spesso capita, alla buona teoria economica non ha corrisposto una buona politica economica. L’intervento straordinario per il Mezzogiorno - di cui Graziani fu un teorizzatore - riuscì effettivamente a ridurre il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord al minimo storico. Infatti, mentre nel 1951 il prodotto interno lordo per abitante del Mezzogiorno arrivava appena al 53% del resto del Paese, il valore si portò nel 1972 al 65%. Ma poi, gli sprechi e gli errori nel periodo dell’intervento straordinario portarono ad archiviare quell’esperienza nei primi anni ‘90. Qualcuno teorizzò che la questione meridionale era sparita, che le politiche di intervento straordinario erano solo dannose per il tessuto produttivo meridionale, che occorreva passare a politiche che valorizzassero le vocazioni e i partenariati locali. Graziani ha sempre creduto ben poco a tutto questo e in effetti i risultati della “nuova programmazione per il Mezzogiorno” non si sono fatti attendere, dal momento che in pochi anni il valore pro capite della produzione meridionale è crollato al di sotto del 60% del resto d’Italia.
Oggi alcuni, tra cui lo stesso neoministro per la Coesione territoriale, Carlo Trigilia (Non c’è Nord senza Sud, 2012), ripropongono la tesi socioculturale del sottosviluppo, evidenziando la necessità di uno “Stato centrale più forte e autorevole, capace di controllare che l’allocazione delle risorse pubbliche, determinata ormai largamente da regioni e governi locali, rispetti obiettivi di efficienza e di equità”; una visione secondo la quale “si può promuovere lo sviluppo senza aggravio per le finanze pubbliche, anzi risparmiando”. Anche questo tipo di argomentazione non ha mai convinto Graziani, che piuttosto ha esaminato le derive clientelari e le inefficienze della amministrazione pubblica locale tentando di comprenderne le cause di fondo. Ad esempio, quando chiarì che “il settore pubblico non è inefficiente in sé: lo diventa quando sono deboli i destinatari dei suoi servizi”. Il riferimento è ai lavoratori ma anche alle imprese, “invischiate nel sistema della clientela e dei trasferimenti pubblici” (I Conti senza l’oste, 1997). Il punto è che nella visione di Graziani non si esce dalla questione meridionale senza un disegno ambizioso e coerente di politica industriale, che preveda ulteriori risorse e un’azione finalizzata a spingere le imprese verso un salto tecnologico e dimensionale.
La lezione magistrale di Graziani è oggi tanto più attuale, considerato che i processi di divaricazione tra “centri” e “periferie” in Europa sono molteplici, e certo non riguardano più solo l’Italia. Per capire come affrontare questi inediti, giganteschi problemi non ci resta che tornare a leggere Graziani.