La scomparsa di Augusto Graziani

La scomparsa di Augusto Graziani
5 gennaio 2014

Oggi è scomparso Augusto Graziani, il maestro degli economisti keynesiani italiani. A riguardo segnalo una mia conversazione con l'Ansa: "Fu profeta rischi euro, morto economista Graziani".

In suo ricordo segnalo due miei articoli pubblicati in occasione del suo ottantesimo compleanno e un mio ritratto del suo straordinario percorso umano e scientifico scritto per la rivista Alternative per il socialismo.


Gli ottant'anni di Augusto Graziani, maestro del pensiero eterodosso
di Riccado Realfonzo
Alternative per il socialismo, luglio-agosto 2013

1. La crisi globale, le difficoltà di tenuta dell’impianto costruito per l’area euro, il clamoroso fallimento delle politiche di austerità stanno arginando la ventata neoliberista che negli ultimi 25 anni era riuscita a guadagnare la gran parte degli spazi nel mondo accademico e della ricerca, ed anche a fare egemonia nel campo politico progressista. C’è da sperare quindi che, tanto sul piano della ricerca quanto su quello della politica economica, vi sia un ritorno ai contributi della teoria economica eterodossa, che fonda le sue radici nel pensiero degli economisti “classici” (da Smith a Ricardo a Marx) e di Keynes. In Italia ciò significa ripartire dall’insegnamento di Augusto Graziani, il maestro keynesiano degli economisti italiani, che quest’anno festeggia gli ottanta anni.
Già Presidente della Società Italiana degli Economisti, membro dell’Accademia dei Lincei, una breve esperienza come senatore del Pds (tra il 1993 e il 1994), affascinante punto di riferimento culturale e morale per schiere di studiosi formatisi alle sue lezioni e sui suoi preziosi manuali, Graziani si è da tempo assicurato un posto nella storia del pensiero economico.

2. La fama di Augusto Graziani in ambito scientifico è principalmente legata agli sviluppi della “teoria monetaria della produzione”, che riprende e rielabora le opere di una tradizione di pensiero antica, che trova in John Maynard Keynes la massima espressione del Novecento. E sviluppando Keynes, Graziani ha dato vita a una scuola di pensiero attiva e ramificata nel mondo (oltre che in Italia anche in Francia, Canada, Stati Uniti, Inghilterra). La scuola, generalmente riconosciuta come “teoria del circuito monetario”, si muove nell’alveo della tradizione postkeynesiana.
Il lavoro teorico di Graziani – presentato in numerosissimi saggi e libri, apparsi in Italia e all’estero, e culminato nel volume The Monetary Theory of Production, pubblicato a Cambridge nel 2003 – pone le interrelazioni tra gli attori sociali concreti, le classi sociali, ad oggetto dell’analisi, in contrasto con l’astratto individualismo del pensiero liberista. Nella sua visione, l’economia di mercato si caratterizza per la natura intimamente conflittuale e monetaria, nonché per la presenza di ineliminabile incertezza. E anche le conclusioni teoriche cui giunge sono in conflitto con il rassicurante mainstream. Secondo Graziani, infatti, il libero funzionamento del mercato non è in grado di assicurare gli equilibri tra domanda e offerta, né garantisce la piena occupazione, né fa coincidere la distribuzione del reddito con la produttività dei fattori. Da qui la necessità di uno Stato che funga da regolatore e che possa entrare nella sfera economica anche per sostenere la domanda in chiave anticiclica.
Per comprendere il contributo di Graziani, occorre sottolineare che nella teoria economica contemporanea, il mainstream continua a essere saldamente rappresentato da sostenitori del laissez-faire. Che si rifacciano al monetarismo della scuola di Chicago, al “principio” delle aspettative razionali avanzato dalla Nuova Macroeconomia Classica, alle sofisticate versioni del modello stocastico di equilibrio economico generale o più genericamente al cosiddetto “New Consensus”, gli economisti del mainstream convergono nel professare la capacità delle economie di mercato di assicurare spontaneamente l’equilibrio tra la domanda e l’offerta, la piena occupazione dei fattori e una distribuzione del reddito regolata dal contributo di ciascuno alla produzione. I corollari vengono da soli: “Stato minimo”, equilibrio del bilancio pubblico, prevedibilità e trasparenza delle azioni di politica fiscale e monetaria, flessibilità dei mercati.
Bisogna riconoscere che il “pensiero alternativo” ha generalmente trovato difficoltà a tenere il passo del mainstream negli ultimi venticinque anni, anche sul piano strettamente teorico. Eppure nel mare delle eterodossie, ancora oggi, la più seria, credibile e promettente sfida teorico-politica al mainstream proviene dalla proprio dalla “teoria monetaria della produzione”, che riprende e sviluppa la produzione scientifica di Keynes degli anni ’30 del Novecento.
In realtà, Graziani – in occasione del centenario della morte di Marx (1983) – collocò il punto di avvio della “teoria monetaria della produzione” nel terzo libro del Capitale, cui lo stesso lord Keynes fece - con l’onestà intellettuale propria dei giganti del pensiero - esplicito riferimento. Di Marx, Keynes riprendeva la descrizione del processo economico come una sequenza denaro-merce-denaro (D-M-D’), il che significava in primo luogo respingere la tesi secondo cui l’economia capitalistica avesse il carattere di una economia di puro scambio, nella quale la moneta fungesse da semplice strumento che facilita la circolazione delle merci. Al contrario, la moneta serve a produrre le merci: essa è lo strumento che consente alle imprese di mettere in moto il processo economico, acquistando servizi lavorativi e dunque realizzando merci; al tempo stesso, la moneta è il fine della attività produttiva, nel senso che l’intero processo è volto alla accumulazione di ricchezza (a ben pensarci, la moneta non è che la forma più astratta della ricchezza: ricchezza “pura e semplice”). Seguendo questo punto di vista – sviluppato da Keynes come da Graziani - risulta evidente che l’essenza del processo economico del capitalismo, la dinamica della sua riproduzione, va colta attraverso una analisi della circolazione monetaria.
Sviluppando Keynes, Graziani ha costantemente sottolineato la differenza tra l’approccio metodologico della teoria monetaria della produzione e il mainstream neoclassico-walrasiano. All’individualismo metodologico proprio del mainstream, Graziani contrappone un metodo di analisi storico-sociale di tipo classico-keynesiano. Ciò significa che i “soggetti” dei modelli di teoria monetaria della produzione non sono gli individui, bensì gli attori sociali o macroeconomici, come dir si vuole.
I modelli di Graziani descrivono una economia caratterizzata da una serie di fasi successive che coincidono con gli “spostamenti” (o, più tecnicamente, i flussi) della moneta. Nella sua formulazione più intuitiva – elaborata ad esempio nel famoso saggio “Moneta senza crisi” (Studi Economici, 1984), ma anche nel volume La teoria monetaria della produzione (del 1994) – il funzionamento del sistema viene descritto come un circuito che si mette in moto con l’erogazione dei finanziamenti da parte delle banche a favore delle imprese; prosegue con l’acquisto dei servizi lavorativi e la realizzazione del prodotto; termina allorché le famiglie spendono il reddito comprando merci, consentendo alle imprese di recuperare la liquidità iniziale e rimborsare le banche. E così via.
Seguendo questa impostazione, Graziani sottolinea che - essendo l’economia monetaria priva di meccanismi che assicurano che tutte le merci prodotte troveranno un compratore - gli imprenditori prendono le decisioni di produzione cercando di prevedere le dinamiche della domanda. In altre parole, essi non possono che “fiutare l’aria che tira” e farsi delle idee circa le prospettive di profitto. Insomma: l’economia monetaria di cui ci parla Graziani è un sistema privo di paracadute contro la crisi e che anzi viene a trovarsi sistematicamente in crisi tutte le volte che si riducono le prospettive di profitto degli imprenditori. In questi casi, la circolazione monetaria si riduce (vuoi perché minori sono le richieste di finanziamento rivolte alle banche, vuoi perché gli operatori tendono – nel contesto di incertezza generale – a conservare la moneta) e, soprattutto, cala l’occupazione; e ciò – evidentemente – a prescindere dal livello dei salari e dalla maggiore o minore flessibilità dei mercati.
D’altra parte, Graziani ha sistematicamente criticato anche l’idea tradizionale secondo la quale la distribuzione del reddito va spontaneamente a commisurarsi al merito (la produttività) di ciascuno. Nulla di più falso. La distribuzione del reddito tra i macroagenti è legata non già alla produttività dei fattori, bensì all’accesso al credito, agli assetti istituzionali e ai rapporti di forza contrattuale esistenti nella collettività.
Per l’insieme delle ragioni di cui sopra, negli scritti di Graziani vi è una costante critica all’approccio liberista e al quadro di regole restrittive che caratterizza il palinsesto macroeconomico dell’unione europea. D’altra parte, per Graziani la politica fiscale espansiva e il contenimento del costo del denaro sono le politiche cui occorre sistematicamente ricorrere per uscire dalla crisi e far sì che l’economia raggiunga livelli di attività (e dunque tassi di occupazione) e una configurazione della distribuzione del prodotto socialmente accettabili.

3. Sulla base del suo impianto teorico Graziani è stato in grado di svelare – come si può facilmente verificare sfogliando il suo “classico” Lo sviluppo dell’economia italiana (2000) o la splendida raccolta di articoli divulgativi I conti senza l’oste, del 1997) – le magagne dello sviluppo economico italiano.
Ad esempio, chiarì sin dai primissimi anni ‘90 quali fossero le ragioni dell’esplosione del debito pubblico italiano, che a partire da valori inferiori al 60% del Pil nel 1980 in un quindicennio andò a superare il 120% del Pil. Soprattutto chiarì che la forte crescita del debito pubblico italiano non andava tanto spiegata con la “finanza allegra” - e quindi con disavanzi primari - bensì con l’elevato costo del debito pubblico dovuto all’elevato regime dei tassi di interesse. E questo a sua volta era l’esito di un problema strutturale di squilibrio dei conti con l’estero, legato a una insufficiente dinamica delle nostre esportazioni che andava compensata con afflussi di capitale. Il problema del debito pubblico italiano, dunque, coincideva in grande misura con l’inadeguatezza dell’apparato produttivo nazionale, di cui egli intravide il futuro declino prima di ogni altro economista. Già all’epoca di quegli scritti, Graziani evidenziava l’urgenza di una strategia di politica industriale che spingesse le nostre imprese verso un salto tecnologico e dimensionale, e metteva in guardia che inserire all’interno di una unione monetaria “un paese a struttura industriale tecnologicamente debole, che si regge nel mercato soltanto per la compressione del costo del lavoro, potrebbe rilevarsi un obiettivo assai arduo da conseguire”.
In tempi più recenti, Graziani è anche intervenuto criticando le politiche di austerità portate avanti nell’eurozona, svelando le ragioni per le quali queste politiche hanno avuto grande successo in Italia. La tesi di Graziani – e qui sia concesso fare riferimento, tra gli altri, a un articolo in collaborazione con me, dal titolo “L’alternativa alla politica di lacrime e sangue” (Liberazione, 2006) – è che l’Italia soffre di una cronica perdita di quote nel commercio internazionale e di una conseguente tendenza al disavanzo della bilancia commerciale. Di fronte a questo problema, l’impostazione prevalente ai tempi del secondo governo Prodi vedeva con favore le politiche di bilancio restrittive, fondate sull’abbattimento del debito pubblico, le quali erano destinate a frenare la crescita della domanda, del reddito e quindi delle importazioni; e ciò mentre l’aumento della competitività dell’economia italiana (e quindi la crescita delle esportazioni) veniva affidato al contenimento dei costi di produzione, attraverso la moderazione salariale indotta dalle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro. Sotto questo aspetto, Graziani, prospettava una strada diversa, espansiva, per rilanciare la competitività del Paede. Da un lato, infatti, Graziani criticava le politiche di abbattimento del debito (anche aderendo all’appello degli economisti del 2006 per la stabilizzazione del debito pubblico rispetto al Pil) e, dall’altro, riteneva che fosse necessario promuovere una politica di investimenti pubblici nelle infrastrutture, nella ricerca, nella produzione e nel trasferimento dei brevetti, al fine di guidare l’apparato produttivo verso un vero e proprio salto tecnologico.
Molto altro c’è da imparare sull’economia di oggi, rileggendo Graziani. In lui c’è la piena consapevolezza del nesso tra crescita della disuguaglianza e crisi, e in particolare l’idea che la riduzione della quota dei salari nel Pil possa avere effetti depressivi sulla domanda e dunque sui livelli di attività dell’economia; una tesi questa ripresa persino da economisti mainstream come Fitoussi e Stiglitz.

4. Ma Graziani è anche il principale esponente del pensiero meridionalista. I suoi primi importanti scritti su questo tema risalgono agli anni ’60, quando il dibattito ruotava intorno alle tesi di Vera Lutz, secondo la quale gli squilibri dell’economia italiana dipendevano principalmente dall’azione sindacale e dalla dinamica del costo del lavoro. La Lutz era contrastata da studiosi del calibro di Claudio Napoleoni e Paolo Sylos Labini che in vario modo preferivano sottolineare l’inadeguatezza del controllo pubblico sul processo di sviluppo. L’intervento nel dibattito di Graziani fu dirompente. Egli elaborò un modello interpretativo di sviluppo trainato dalle esportazioni, che mostrava come l’Italia si era trovata nella necessità di ottenere un vantaggio comparativo nei settori in cui la domanda estera era in espansione. Le imprese che producevano per le esportazioni dovettero attrezzarsi per sfruttare la domanda in crescita, mentre quelle che producevano per il mercato interno, con domanda stagnante, non compirono alcun riassetto significativo. Si veniva così ad approfondire un dualismo industriale tra un settore progredito e dinamico, costituito da grandi imprese collocate per lo più al Nord, che producevano per la domanda estera, e che adottarono tecniche produttive a elevata intensità di capitale, e un settore meno progredito e stagnante, costituito da imprese di piccole dimensioni situate generalmente al Sud, che producevano per il mercato interno, con tecniche produttive ad elevata intensità di lavoro.
Graziani è tornato numerose volte sul suo modello interpretativo, sino al classico Lo sviluppo dell’economia italiana del 1998, chiarendo che “il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno può aver costituito all’inizio un vantaggio immediato per le regioni settentrionali in quanto ha messo a disposizione dell’industria del Nord una riserva di manodopera apparentemente inesauribile; ma a lungo andare questo si è rivelato un elemento di grave debolezza nella struttura del Paese”.
Come troppo spesso capita, alla buona teoria economica non ha corrisposto una buona politica economica. L’intervento straordinario per il Mezzogiorno - di cui Graziani fu un teorizzatore - riuscì effettivamente a ridurre il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord al minimo storico. Infatti, mentre nel 1951 il prodotto interno lordo per abitante del Mezzogiorno arrivava appena al 53% del resto del Paese, il valore si portò nel 1972 al 65%. Ma poi, gli sprechi e gli errori nel periodo dell’intervento straordinario portarono ad archiviare quell’esperienza nei primi anni ‘90. Qualcuno teorizzò che la questione meridionale era sparita, che le politiche di intervento straordinario erano solo dannose per il tessuto produttivo meridionale, che occorreva passare a politiche che valorizzassero le vocazioni e i partenariati locali. Graziani ha sempre creduto ben poco a tutto questo e in effetti i risultati della “nuova programmazione per il Mezzogiorno” non si sono fatti attendere, dal momento che in pochi anni il valore pro capite della produzione meridionale è crollato al di sotto del 60% del resto d’Italia.
Oggi alcuni, tra cui lo stesso ministro per la Coesione territoriale, Carlo Trigilia (Non c’è Nord senza Sud, 2012), ripropongono la tesi socioculturale del sottosviluppo, evidenziando la necessità di uno “Stato centrale più forte e autorevole, capace di controllare che l’allocazione delle risorse pubbliche, determinata ormai largamente da regioni e governi locali, rispetti obiettivi di efficienza e di equità”; una visione secondo la quale “si può promuovere lo sviluppo senza aggravio per le finanze pubbliche, anzi risparmiando”. Anche questo tipo di argomentazione non ha mai convinto Graziani, che piuttosto ha esaminato le derive clientelari e le inefficienze della amministrazione pubblica locale tentando di comprenderne le cause di fondo. Ad esempio, quando chiarì che “il settore pubblico non è inefficiente in sé: lo diventa quando sono deboli i destinatari dei suoi servizi”. Il riferimento è ai lavoratori ma anche alle imprese, “invischiate nel sistema della clientela e dei trasferimenti pubblici” (I Conti senza l’oste, 1997). Il punto è che nella visione di Graziani non si esce dalla questione meridionale senza un disegno ambizioso e coerente di politica industriale, che preveda ulteriori risorse e un’azione finalizzata a spingere le imprese verso un salto tecnologico e dimensionale.

5. Augusto Graziani è insomma il maestro del pensiero economico progressista italiano degli ultimi decenni. A lui dobbiamo la nostra più seria analisi teorica del capitalismo in chiave non neoclassica, una lettura della storia economica italiana disincantata e sempre attenta agli interessi sociali di fondo che la hanno determinata, nonché gli sviluppi più rilevanti del pensiero meridionalista.