Piano per il Sud, fondi di coesione, finanziamenti europei e Next Generation EU
Un dibattito organizzato dal PD, con Riccardo Realfonzo
"dissento da quello che gli economisti americani chiamano mainstream, il comune modo di pensare della maggioranza. La nuova generazione di economisti, purtroppo, è fatta di conformisti" (Augusto Graziani)
Piano per il Sud, fondi di coesione, finanziamenti europei e Next Generation EU
Un dibattito organizzato dal PD, con Riccardo Realfonzo
Il rischio di un Piano a scartamento ridotto
di Riccardo Realfonzo
Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2021
Il Piano Nazionale di
Ripresa e Resilienza, che illustra in che modo l’Italia utilizzerà le risorse
del Next Generation EU per rilanciare l’economia, è oggetto di un confronto
politico aspro. Si tratta di un documento decisivo per il futuro del Paese e
per questo è opportuno sottolineare una grave insufficienza delle stesure che
fin qui hanno circolato, con l’auspicio che le fasi successive della
discussione, inclusi il dibattito parlamentare e il confronto con le parti
sociali, possano ancora migliorare il Piano.
È ben noto che la
stesura del Piano circolata a inizio dicembre è stata rivista sotto numerosi
aspetti e, in attesa della approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, i
numeri sono molto ballerini. La debolezza principale delle versioni che sin qui
hanno circolato concerne la scelta del governo, già anticipata nella Nota di
Aggiornamento approvata a ottobre, di dedicare una quota rilevante delle
risorse europee alla sostituzione di risorse ordinarie per finanziare
interventi già programmati. Il punto specifico cui mi riferisco concerne l’utilizzo
delle risorse al cuore del Next Generation EU, il Dispositivo Europeo di
Ripresa e Resilienza, che stanzia 193 miliardi per l’Italia, di cui 127,6 in
prestiti e 65,4 in sovvenzioni. Nella stesura di dicembre del Piano si
ipotizzava di utilizzare tutte le sovvenzioni e solo una frazione dei prestiti
per nuovi investimenti pubblici e per incentivi di varia natura, destinando la
gran parte dei prestiti a sostituire risorse ordinarie per interventi già programmati.
L’ultima versione del Piano è certamente migliore. Sono stati inseriti nel
ragionamento anche i fondi strutturali e di coesione, si è riflettuto su
possibili meccanismi a leva per gli investimenti, si è anche ridefinito il peso
relativo di investimenti e incentivi a favore dei primi. Soprattutto, si è
aumentata la quota dei prestiti europei destinati a finanziare nuovi
investimenti, e conseguentemente è stata ridotta la quota sostitutiva. Ora, rispetto
al totale dei 127,6 miliardi di prestiti, una metà (64,5 miliardi) sarebbe
dedicata al finanziamento di nuovi progetti e l’altra metà (63,1 miliardi) andrebbe
a sostituire le risorse ordinarie. Così facendo, nonostante il passo avanti
rispetto alla versione precedente del Piano, un terzo delle risorse complessive
continuerebbe ad avere una natura puramente sostitutiva, fermandosi nelle casse
dello Stato.
La decisione di
utilizzare a scartamento ridotto i fondi del Next Generation EU, prevedendo una quota rilevante di risorse sostitutive,
viene considerata necessaria dal governo “per assicurare la coerenza con gli
obiettivi di sostenibilità finanziaria di medio-lungo periodo indicati dalla
NADEF”. Qui vi è un grave errore di valutazione macroeconomica, tante volte reiterato
nei documenti di politica economica del Paese, e nei modelli di previsione
utilizzati dal ministero dell’economia, a dispetto dell’esperienza accumulata.
L’idea che giustifica la presenza di un’ampia riserva di fondi sostitutivi
risiede nella convinzione che ciò favorisca la sostenibilità del debito
pubblico. In questo modo, si ritiene, si limiterebbe il deficit annuale –
perché le risorse europee sostituiscono quelle nazionali – e si risparmierebbe
anche sugli interessi, perché quegli investimenti programmati verrebbero
finanziati con un debito che costa meno rispetto alla collocazione diretta di
titoli italiani sul mercato. Tuttavia, come una vasta letteratura internazionale
ha ormai documentato, sulla scorta dell’esperienza storica, anche italiana, gli
investimenti pubblici hanno un moltiplicatore ben maggiore di uno: ciò
significa che essi generano un aumento del pil significativamente più grande
della spesa necessaria a realizzarli. In altre parole, i nuovi investimenti
pubblici determinano una crescita del pil maggiore della crescita del debito,
determinando una contrazione del rapporto tra debito e pil. È per questo che
per rimettere in moto il Paese e riportare sotto controllo il debito non si deve
mai lesinare sugli investimenti. A ben vedere, le risorse europee non sono
affatto abbondanti - come molti credono - e occorrerebbe destinarle tutte nella
direzione di nuovi investimenti (al netto di una quota indispensabile di
ristori e incentivi). Il Piano italiano dovrebbe spingersi nell’utilizzo
integrale dei fondi se vogliamo credibilmente puntare a recuperare il terreno
perso con la pandemia, e prima ancora con la stagnazione che ha seguito la
crisi finanziaria del 2008. Insomma, spendere tutto e spendere bene, con
coraggio, è la sola chance che il Paese ha per rimettersi in moto e tenere
sotto controllo la temibile dinamica del debito pubblico.
Prima ok al dissesto poi riforme radicali. Così Napoli rinascerà. Intervista a Riccardo Realfonzo
di Viviana Lanza
Il Riformista, 11 novembre 2020*
“Ogni volta che all’ordine del giorno ci sono i conti del
Comune si rinnova questo teatrino paradossale, che ormai ha raggiunto livelli
indegni per una grande città come Napoli. Un teatrino nel quale tutte le
comparse, con poche eccezioni, hanno credibilità pari a zero. Il Comune di
Napoli è sostanzialmente fallito dal 2012, quando si chiuse l’analisi
straordinaria che disposi e la Corte dei Conti della Campania chiese la
dichiarazione di dissesto. Da allora si sono susseguite una serie di
rappresentazioni teatrali che hanno permesso attraverso leggi e leggine, anche
a forze politiche che sulla carta erano strenue oppositrici del sindaco de
Magistris, di salvare ripetutamente questa amministrazione. E siccome non
esistono pasti gratis, tutto questo lo pagano i cittadini e le imprese”.
Riccardo Realfonzo, economista, docente universitario ed ex assessore della
prima giunta de Magistris, non vede altra soluzione per il futuro della città:
“Serve un atto di chiarezza e di verità, tecnicamente necessario e
giuridicamente obbligatorio: la dichiarazione di dissesto”. Come a voler
tracciare una linea. “Dietro c’è tutto il passato, che è vicenda che va risolta
attraverso procedure di carattere commissariale, e dall’altra parte c’è il futuro.
Questo significa permettere a una nuova amministrazione di ripartire da zero”.
Per chi governerà Napoli nel prossimo futuro non si prospettano sfide semplici,
l’economia della città è stata messa in ginocchio dalla pandemia e il bilancio
dell’amministrazione comunale è disastroso. Come si farà ad amministrare
Napoli? “Facendo tutto ciò che era già necessario fare, che si sapeva di dover
fare e che non è stato fatto” risponde Realfonzo. “Per amministrare Napoli -
aggiunge - occorreva, e in futuro occorrerà ancora di più, fare riforme, anche
molto incisive. Occorrerà riorganizzare lavoro e uffici, premiare le competenze
e riorganizzare le società partecipate che continuano ad essere, ancora oggi, macchine
di consenso e di sprechi, utilizzare efficacemente i fondi europei. Inoltre,
bisognerà fare una lotta senza quartiere a tutte le malversazioni e allo
sfruttamento dei beni pubblici a cui assistiamo quotidianamente”. Realfonzo fa
riferimento all’attuale gestione del patrimonio immobiliare della città. “Altrove
il patrimonio immobiliare è una ricchezza, per il Comune di Napoli è un peso. Occorrerebbe
fare piena luce sulle assegnazioni, sui costi delle manutenzioni, sulla
incapacità di dismettere gli immobili, sul livello dei canoni relativi a
immobili di pregio, sugli abbandoni e sugli sprechi”. Occupazione impropria del
suolo pubblico, diffuso abusivismo, evasione fiscale sono per Realfonzo le
altre piaghe della città su cui l’amministrazione di de Magistris non ha saputo
intervenire: “Tutto questo andava combattuto con la riorganizzazione degli
uffici e in alcuni casi anche l’individuazione di task force, invece si
prosegue in questa condizione di perenne crisi economica e sociale, di perenne
rosso delle casse comunali, e c’è chi se ne approfitta” dice con l’amarezza di
chi queste proposte le aveva prospettate nero su bianco al sindaco. Ma ora
invertire la rotta si può? “Sì, a patto che Napoli diventi una capitale della
legalità, in cui la lotta a sprechi e malversazioni venga fatta col massimo rigore, senza sconti, in
difesa degli interessi della stragrande maggioranza dei cittadini e delle
nostre imprese. De Magistris ha tradito il movimento rinnovatore di
intellettuali e semplici cittadini che lo portò nel 2011 al Comune. Allora
c’era un programma all’insegna della legalità, della trasparenza, del chiudere
con un passato fatto di politiche clientelari, che diceva di no anche alla sete
di potere dei partiti politici che più di una volta hanno messo in secondo
piano gli interessi della città in cambio di accordi di livello nazionale”
osserva Realfonzo da testimone diretto della prima campagna elettorale del
sindaco. E per il futuro, l’economista auspica “non un uomo solo al comando, né
un sindaco calato dall’alto da questo o quel partito politico, nessun nome ad
effetto ma senza sostanza, bensì una giunta di persone determinate, capaci di
percorrere la strada delle riforme incisive e sostenute da una cittadinanza
attiva e consapevole”.
*versione corretta, rivista dall'intervistato
MES, tra fake e realtà. Riccardo Realfonzo a confronto con il responsabile economia del Pd, Emanuele Felice
Dibattito condotto da Carlo Clericetti per Micromega
Credo di avere chiarito che: 1) il MES determina vantaggi in termini di minori interessi pressoché trascurabili; 2) gli effetti negativi reputazionali (effetto "stigma") dell'accesso al MES possono incrementare gli spread e più che compensare il risparmio di interessi; 3) l'accordo politico Gentiloni-Dombrovskis non ha minimamente alterato il quadro giuridico del MES, che determina sorveglianza rafforzata sui conti del Paese che fa ricorso alla linea di credito pandemica. Ecco perché nessun Paese europeo, ma proprio nessuno, intende fare ricorso al MES. Ma forse qualcuno vuole una politica economica italiana eterodiretta? Nostalgia del famigerato "vincolo esterno"?