La bassa inflazione non è una benedizione
Il Riformista, 6 gennaio 2010 (pag. 1)
di Riccardo Realfonzo
L’inflazione si riduce, praticamente si azzera, e il ministro dello sviluppo Scajola trova modo di rallegrarsi affermando che, nonostante la crisi, il “potere di acquisto dei cittadini non è stato penalizzato”. La tesi è persino confermata da talune forze sindacali le quali sembrano compiacersi nel notare che, in assenza di una apprezzabile dinamica del livello generale dei prezzi, i risicati incrementi dei salari monetari spuntati nell’anno di contrattazione possono essere considerati sufficienti a tenere stabile il potere di acquisto delle famiglie. È il caso di sottolineare che questa affermazione, che pure contiene in sé una banale ovvietà, è viziata da un errore di fondo.
L’ovvietà è presto detta: in astratto un cittadino che abbia la certezza di un reddito fisso, non può che trarre beneficio dalla stabilità dei prezzi dal momento che questa garantisce a sua volta la stabilità del suo potere di acquisto. L’errore di fondo è meno facilmente intuibile, soprattutto a causa del prevalere, negli ultimi decenni, di una cultura economica neoclassico-monetarista che ha descritto l’inflazione come il peggiore dei mali. Si tratta della stessa cultura economica che ha spinto l’Europa unita a dotarsi di una Banca Centrale Europea che avesse come obiettivo essenziale la stabilità dei prezzi e non lo sviluppo economico o la piena occupazione. Eppure gli economisti sanno bene, da secoli, che lo spegnersi della dinamica dei prezzi, addirittura la deflazione, costituisce il più chiaro sintomo della patologia economica, cioè della depressione in atto. Nella situazione attuale nessuno può negare che l’inflazione si azzera perché si contraggono le richieste di credito e le concessioni di prestiti dalle banche alle imprese, si riducono gli investimenti, langue la spesa per consumi delle famiglie. In sostanza, la domanda complessiva di beni e servizi diminuisce, le imprese contengono i prezzi e cala vistosamente il livello di attività dell’economia.
A chi sostiene che tutto ciò in fin dei conti potrebbe andare a beneficio delle stesse famiglie lavoratrici occorrerebbe spiegare che la recessione nella quale siamo oggi immersi è esattamente il prodotto della contrazione del potere di acquisto delle famiglie lavoratrici - in termini di quota del Pil che esse hanno ottenuto - progressivamente definitasi dai primi anni ’80 del Novecento ad oggi nei paesi industrializzati. Chi avesse dubbi sulla straordinaria dimensione di questa dinamica redistributiva “al contrario”, che ha sottratto ai redditi da lavoro e ha dato ai redditi da capitale, può trovare conferma in tutti i recenti studi delle principali istituzioni internazionali (ILO, OCSE, FMI). Insomma, la deflazione non beneficia affatto le famiglie lavoratrici dal momento che mai come oggi essa è proprio il portato dell’impoverimento di quelle stesse famiglie.
Coloro che avessero ancora qualche perplessità sul fatto che il tasso di inflazione a pochi decimali si spieghi con il grave immiserimento del mondo del lavoro, dovrebbero riflettere sulle dimensioni drammatiche della crisi occupazionale. Tali dimensioni sono colte solo parzialmente dal tasso di disoccupazione (che pure è significativamente aumentato): una loro piena comprensione deve infatti spingere a valutare non solo i posti di lavoro persi, ma anche l’effetto di scoraggiamento su tutti coloro che hanno smesso di cercare il posto di lavoro, la crescita esponenziale del numero dei lavoratori in cassa integrazione e le crescenti difficoltà dell’esercito di lavoratori precari che vedono ridursi impegno lavorativo e salari.
Insomma, le famiglie lavoratrici non vivono affatto bene in tempi deflazionistici. Ma questo Scajola e gli altri ministri del governo Berlusconi sembrano non saperlo e si guardano bene dal varare una riforma per un fisco nuovamente progressivo e realmente redistributivo contro la crisi.
L’inflazione si riduce, praticamente si azzera, e il ministro dello sviluppo Scajola trova modo di rallegrarsi affermando che, nonostante la crisi, il “potere di acquisto dei cittadini non è stato penalizzato”. La tesi è persino confermata da talune forze sindacali le quali sembrano compiacersi nel notare che, in assenza di una apprezzabile dinamica del livello generale dei prezzi, i risicati incrementi dei salari monetari spuntati nell’anno di contrattazione possono essere considerati sufficienti a tenere stabile il potere di acquisto delle famiglie. È il caso di sottolineare che questa affermazione, che pure contiene in sé una banale ovvietà, è viziata da un errore di fondo.
L’ovvietà è presto detta: in astratto un cittadino che abbia la certezza di un reddito fisso, non può che trarre beneficio dalla stabilità dei prezzi dal momento che questa garantisce a sua volta la stabilità del suo potere di acquisto. L’errore di fondo è meno facilmente intuibile, soprattutto a causa del prevalere, negli ultimi decenni, di una cultura economica neoclassico-monetarista che ha descritto l’inflazione come il peggiore dei mali. Si tratta della stessa cultura economica che ha spinto l’Europa unita a dotarsi di una Banca Centrale Europea che avesse come obiettivo essenziale la stabilità dei prezzi e non lo sviluppo economico o la piena occupazione. Eppure gli economisti sanno bene, da secoli, che lo spegnersi della dinamica dei prezzi, addirittura la deflazione, costituisce il più chiaro sintomo della patologia economica, cioè della depressione in atto. Nella situazione attuale nessuno può negare che l’inflazione si azzera perché si contraggono le richieste di credito e le concessioni di prestiti dalle banche alle imprese, si riducono gli investimenti, langue la spesa per consumi delle famiglie. In sostanza, la domanda complessiva di beni e servizi diminuisce, le imprese contengono i prezzi e cala vistosamente il livello di attività dell’economia.
A chi sostiene che tutto ciò in fin dei conti potrebbe andare a beneficio delle stesse famiglie lavoratrici occorrerebbe spiegare che la recessione nella quale siamo oggi immersi è esattamente il prodotto della contrazione del potere di acquisto delle famiglie lavoratrici - in termini di quota del Pil che esse hanno ottenuto - progressivamente definitasi dai primi anni ’80 del Novecento ad oggi nei paesi industrializzati. Chi avesse dubbi sulla straordinaria dimensione di questa dinamica redistributiva “al contrario”, che ha sottratto ai redditi da lavoro e ha dato ai redditi da capitale, può trovare conferma in tutti i recenti studi delle principali istituzioni internazionali (ILO, OCSE, FMI). Insomma, la deflazione non beneficia affatto le famiglie lavoratrici dal momento che mai come oggi essa è proprio il portato dell’impoverimento di quelle stesse famiglie.
Coloro che avessero ancora qualche perplessità sul fatto che il tasso di inflazione a pochi decimali si spieghi con il grave immiserimento del mondo del lavoro, dovrebbero riflettere sulle dimensioni drammatiche della crisi occupazionale. Tali dimensioni sono colte solo parzialmente dal tasso di disoccupazione (che pure è significativamente aumentato): una loro piena comprensione deve infatti spingere a valutare non solo i posti di lavoro persi, ma anche l’effetto di scoraggiamento su tutti coloro che hanno smesso di cercare il posto di lavoro, la crescita esponenziale del numero dei lavoratori in cassa integrazione e le crescenti difficoltà dell’esercito di lavoratori precari che vedono ridursi impegno lavorativo e salari.
Insomma, le famiglie lavoratrici non vivono affatto bene in tempi deflazionistici. Ma questo Scajola e gli altri ministri del governo Berlusconi sembrano non saperlo e si guardano bene dal varare una riforma per un fisco nuovamente progressivo e realmente redistributivo contro la crisi.