Perchè sono sempre più euroscettici. Gli allievi di Graziani: Realfonzo e Brancaccio
Dopo «Il monito degli economisti» pubblicato sul Financial Times si intensifica la critica
di Paolo Grassi
C'è una nidiata di meridionalisti, prof quaranta/cinquantenni in larga parte allievi di Augusto Graziani (scomparso recentemente), che s'interrogano con sempre maggiore frequenza sugli effetti dell'unione monetaria per l'Italia tutta e per il Mezzogiorno in particolare. Un euroscetticismo non ancora sfociato nella dichiarata volontà di uscire dal conio continentale, ma che li avvicina sicuramente al fatidico punto di non ritomo.
Sull'ultimo numero di Left — che pubblica un lungo servizio dal titolo euro sì, euro no — due di loro, Riccardo Realfonzo ed Emiliano Brancaccio, studiosi napoletani di matrice post-keynesiana che alla fine della scorsa estate hanno promosso «II monito degli economisti» (pubblicato sul Financial Times il 23 settembre), vengono inquadrati alla testa dei cosiddetti «critici». E dunque una via mediana tra Paolo Savona e Alberto Bagnai, definiti «ultras del no» (Manifesto di solidarietà europea) e i «pasdaran sì euro» Lorenzo Bini-Smaghi, Fabrizio Saccomanni e Marcello Messori (Uscire dall'euro, una tentazione pericolosa).
«Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nell'assetto istituzionale e politico dell'Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all'inasprimento della recessione e all'ampliamento dei divari tra i paesi membri dell'Unione». Tutto comincia proprio il 23 settembre 2013 con «II monito degli economisti». Un j'accuse controfirmato da personaggi del calibro di Philip Arestis (University of Cambridge), Wendy Carlin (University College of London) e James Galbraith (University of Texas).
Realfonzo (ex assessore al Bilancio delle giunte napoletane targate Rosa Iervolino e Luigi de Magistris) e Brancaccio, entrambi dell'Università del Sannio, sono cresciuti — appunto — con gli insegnamenti di Graziani. Tesi alle quali si ispirano anche altri firmatari del documento rilanciato da Ft: da Stefano Figuera (Università di Catania) a Gennaro Zezza (Levy Institute e Ateneo di Cassino), a Giuseppe Fontana (Leeds and Sannio Universities).
Brancaccio, dal canto suo, proprio nei giorni scorsi ha terminato di lavorare — insieme a Nadia Garbellini dell'Ateneo di Bergamo — a uno studio, «Uscire o no dall'euro: gli effetti sui salari»: «Negli ultimi cinque anni — è scritto nella ricerca — la Germania ha conseguito una crescita del Pii di quasi tre punti percentuali, a fronte di una caduta superiore ai sette punti in Italia. Si tratta di una divaricazione che non ha precedenti dal secondo dopoguerra. Nei giorni scorsi, gelando gli ottimisti al governo,l'Eurostat ha confermato la tendenza: confrontando il prodotto interno lordo del primo trimestre 2014 rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente, si rileva una crescita superiore ai due punti percentuali in Germania e una ulteriore diminuzione di mezzo punto in Italia (che, precisa Brancaccio al Corriere del Mezzogiorno equivale a una dinamica sicuramente più penalizzante per il Sud Italia). Semmai ve ne fosse stato bisogno, siamo di fronte all'ennesima conferma del "monito degli economisti": le politiche di austerity e di flessibilità del lavoro non riescono a ridurre le divergenze tra i paesi membri dell'Eurozona, ma per certi versi tendono persino ad accentuarle». Poi: «Il pericolo evocato da Draghi di una "grande inflazione" in caso di uscita dall'euro? Non trova riscontri adeguati». Anche l'opinione secondo cui «gli effetti salariali e distributivi di un abbandono dell'euro non dovrebbero destare preoccupazioni, però, è smentita dalle evidenze empiriche. Se si vuole salvaguardare il lavoro, dunque, la critica della moneta unica deve essere accompagnata da una critica del mercato unico europeo».
Il punto, è scritto sul blog di Realfonzo, che guida anche il sito economiaepolitica.it, «non è semplicemente stare dentro o fuori l'euro, ma anche e soprattutto come si sta dentro o fuori. Restare nell'euro con queste politiche di austerità e subendo l'aggressione neomercantilista della Germania, che ci spinge a comprimere diritti e salari, è un vero dramma. E lo stiamo sperimentando. Uscire dall'euro, tuttavia, potrebbe dare luogo a processi redistributivi ai danni dei percettori di redditi fissi ed anche esporci ad attacchi speculativi di diversa natura. Anche alla luce degli ultimi dati Eurostat, che dimostrano quanto siano violenti i processi di divergenza in atto in Europa, con la Germania che cresce e i Paesi periferici che continuano la caduta, il "monito degli economisti" pubblicato nel settembre scorso si rivela il documento più lucido e lungimirante di cui disponiamo». E parliamo di un vero e proprio manifesto degli euroscettici: «Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con parole lungimiranti: "Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell'indigenza, se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell'Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà"». Sia pure «a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupposti per l'ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Ma la memoria di quegli anni sembra persa: le autorità tedesche e gli altri governi europei stanno ripetendo errori speculari a quelli commessi allora. Questa miopia, in ultima istanza, è la causa principale delle ondate di irrazionalismo che stanno investendo l'Europa, dalle ingenue apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male fino ai più inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo».