L'acqua resti pubblica

L'acqua resti pubblica

di Riccardo Realfonzo

Corriere del Mezzogiorno, 24 novembre 2010

Caro Direttore,

la sentenza della Corte Costituzionale sui servizi pubblici locali, che rigetta i ricorsi di alcune Regioni contro i principi privatizzatori del decreto Ronchi e bolla come incostituzionale una legge della Regione Campania, mi induce a fare il punto sulla battaglia per l’acqua pubblica a Napoli. Inutile dire che la sentenza scontenta tutti quanti valutino appieno i rischi delle privatizzazioni, ma non giunge inattesa. La Corte, infatti, ribadisce – purtroppo senza aperture al movimento referendario per l’acqua pubblica – un principio esplicitato dalla normativa di questi anni: i servizi pubblici locali devono normalmente essere dati in affidamento a privati mediante gare, e l’unica forma per tenere in mano pubblica i servizi fondamentali (come l’acqua) consiste negli affidamenti diretti a società per azioni a capitale interamente pubblico. Un principio che in tanti troviamo contestabile, ma che purtroppo è legge dello Stato.
La sentenza della Corte, deve farci guardare in retrospettiva le vicende napoletane degli ultimi anni, anche per capire che fare per il futuro.
È a tutti noto che la Giunta partenopea ha tentato la privatizzazione dell’acqua. Soprattutto nel 2004 e poi con il piano predisposto nel 2008 dall’assessore Cardillo. Quando, nel gennaio 2009, presi le redini dell’assessorato al bilancio del Comune, con uno sforzo coordinato insieme a un gruppo di intellettuali e una parte del Consiglio Comunale provammo a cambiare radicalmente la politica dei servizi pubblici locali. Dopo che il Consiglio approvò, con il bilancio di previsione 2009, anche la svolta per l’acqua pubblica, predisponemmo una delibera tecnicamente perfetta che avrebbe potuto segnare una svolta storica per la provincia di Napoli e il movimento per l’acqua pubblica. Il testo prevedeva l’attribuzione del servizio idrico della provincia a una Spa interamente del Comune di Napoli (l’Arin), predisponendo anche la trasformazione di quella società in un ente di diritto pubblico appena la normativa lo avesse concesso.
In base alla legge quella delibera doveva essere assunta dall’ATO2, che è il consorzio di Comuni e Provincia che decide in materia. Per questa ragione, nel maggio del 2009 – con il centrosinistra ancora in Provincia e in Regione – inviammo formalmente la bozza di delibera al consorzio, predisponemmo i cambiamenti allo statuto dell’Arin e invitammo i rappresentanti del Comune di Napoli nel CdA dell’ATO a fare approvare la delibera.
Ma la delibera non fu mai approvata. Quei rappresentanti non la sostennero come avrebbero dovuto, anche perché avevano predisposto un progetto diverso, che prevedeva la creazione di una nuova società e portava alla privatizzazione. Né le pressioni presso il Sindaco furono utili a sostituire quei rappresentanti; né ci fu una sufficiente spinta da parte della società civile tale da costringere l’ATO2 ad deliberare. Per di più, la Regione Campania mise a gara la gestione di due importanti acquedotti.
Insomma, la logica clientelare e degli affaristi ebbe la meglio.
E oggi siamo ancora inchiodati a quel punto. La sentenza della Corte ha ormai confermato che per evitare le privatizzazioni non c’è alternativa all’affidamento a una Spa interamente pubblica. Le gare dovrebbero scattare il 31 dicembre. È ovvio che il Comune di Napoli non potrà che prorogare l’attribuzione del servizio cittadino all’Arin, anche per non sospendere il servizio pubblico. Ma è altrettanto ovvio che, a norma di legge, i Comuni non sono i soggetti che possono deliberare in materia e dunque ogni atto in quella direzione è debole. Insomma, al momento il pallino è ancora nelle mani dell’ATO2. E l’unica proposta sensata resta quella che giace nei cassetti dal maggio del 2009: affidare il servizio idrico di Napoli e provincia all’Arin.
È da quella bozza di delibera che dovrebbe riprendere la nostra battaglia, anche se molto tempo è andato perso e tutto ora è più difficile.