di Riccardo Realfonzo
L’Unità, 18 giugno 2014
Le politiche anticrisi possono essere diverse. Dopo la crisi scoppiata nel 2007, negli USA Obama ha stanziato risorse per circa 800 miliardi di dollari da investire in opere pubbliche, incentivi alle imprese, sussidi di disoccupazione. Viceversa, nell’eurozona abbiamo stretto ulteriormente la cinghia andando avanti con le politiche fiscali restrittive per accumulare avanzi primari e rispettare i vincoli europei. E anche i risultati delle politiche possono essere diversi. Negli USA l’economia ha almeno per ora ripreso a crescere, e il pil è 8 punti superiore rispetto al 2007: la crisi è un lontano ricordo. Nell’eurozona, viceversa, il pil resta ancora inferiore al dato pre-crisi e ben 19 milioni di disoccupati (+ 65% rispetto al 2007) ci ricordano che siamo ancora nel tunnel.
Con questi dati e con la crescita nel Parlamento Europeo delle forze politiche critiche (in vario modo) verso le politiche di austerità, non stupisce che le pressioni per allentare il Patto di Stabilità si moltiplichino. Ed è così che il ministro tedesco dell’economia, Sigmar Gabriel, vicecancelliere e presidente della Spd, è intervenuto per sostenere che dal computo del deficit degli Stati dovrebbero essere esclusi «i costi generati dalle misure di riforma».
L’idea di scorporare alcune spese dal Patto di Stabilità non è certo nuova. Si è parlato a più riprese nel passato della possibilità di escludere dal calcolo del vincolo del deficit (il 3% del pil) le spese per investimenti. Un tentativo che finora non ha portato a nulla. Adesso ci sono due novità. La prima, tutta politica, è che una propensione in questa direzione viene per la prima volta espressa da un autorevole membro del governo Merkel. La seconda, sta in questa formula curiosa secondo la quale andrebbero stralciati «i costi delle misure di riforma». Una affermazione che si presta ad interpretazioni più o meno estensive dell’allentamento dei vincoli e che sembra legare questo allentamento all’effettuazione delle tanto propagandate riforme. Nella sostanza dei numeri, scorporare dal calcolo del deficit alcune somme o andare oltre il vincolo del 3% è la medesima cosa: il punto è il quanto. Tuttavia, l’effetto politico è diverso, perché si possono stralciare alcuni costi sulla base di una nuova interpretazione del Patto di Stabilità, che così resterebbe in vita.
Per quanto l’affermazione di Gabriel apra una strada interessante, è chiaro che siamo ancora lontani da un qualche risultato significativo. Basti sottolineare che il collega di Gabriel alle Finanze, Wolfgang Schäuble, ha subito chiarito che viceversa, a suo avviso, il Patto di Stabilità è già sufficientemente flessibile; mentre il presidente uscente dei socialdemocratici al Parlamento europeo, Hannes Swoboda, ha spiegato che si starebbe lavorando a un testo che punti “semplicemente” a scorporare alcuni investimenti pubblici dal calcolo del deficit e a concedere più tempo per risanare i conti pubblici.
Siamo, quindi, a cospetto di schermaglie politiche che da un lato denotano una consapevolezza crescente sulle difficoltà del quadro europeo – ed era ora – ma che dall’altro ancora non consentono di valutare se vi sia una qualche effettiva disponibilità politica della Germania a farla finita con le politiche di austerità. E credo sia legittimo nutrire più di una perplessità a riguardo.
In questo quadro occorre sottolineare che, all’indomani del risultato delle elezioni europee, con il PD divenuto la forza maggiore del gruppo socialista nel Parlamento Europeo, numerose speranze di un primo cambiamento delle politiche economiche vengono riposte nel semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’UE. Ci sperano soprattutto i paesi periferici dell’Unione, quelli che hanno dovuto praticare i tagli più drastici della spesa pubblica e sono alle prese con la più aspra recrudescenza della crisi. E ci sperano coloro che sono consapevoli che, in assenza di un svolta a favore della crescita e della riduzione degli squilibri tra i Paesi, la stessa tenuta dell’eurozona è a rischio. E tuttavia, a cospetto della monolitica Merkel e degli altrettanti monolitici interessi tedeschi, il tentativo di Renzi potrebbe risultare ancora debole. Sotto questo aspetto, sarebbe importante moltiplicare le pressioni dal basso finalizzate a dare la parola al popolo sovrano, svuotando di potere e rappresentatività le tecnocrazie europee.
Un contributo in questo senso proviene dal referendum appena depositato in Cassazione contro l’austerità e il Fiscal Compact. Il referendum – che propone di abrogare alcuni passaggi della legge 243 del 2012 con la quale viene applicata la riforma costituzionale del pareggio di bilancio – è stato avanzato da un comitato promotore di intellettuali fortemente eterogeneo, proprio al fine di raccogliere il più vasto sostegno dalle forze sociali e politiche che in questi anni si sono pronunciate contro l’austerità. Un sostegno ampio e variegato alla iniziativa referendaria, un’ampia raccolta di firme, costituirebbero una leva di non poco rilievo in Italia e in Europa per dare forza a un cambiamento vero delle politiche europee nella direzione dello sviluppo e della piena occupazione.