Relazione al dibattito "Mezzogiorno Questione Nazionale"

Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
Mezzogiorno Questione Nazionale


Napoli 9 luglio 2009
Relazione di Riccardo Realfonzo

Negli ultimi venti anni si è fatto di tutto per esorcizzare la “questione meridionale”. Tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, con la fine dell’intervento straordinario, una pessima letteratura spingeva ad abolire il Mezzogiorno, a depennare cioè il problema dal novero delle emergenze dell’economia e della politica italiana. Successivamente, la riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001 eliminava dalla Carta Costituzionale ogni riferimento al Mezzogiorno. E negli ultimi anni l’attenzione dei media è venuta concentrandosi sempre più sulla presunta “questione settentrionale”. Le logiche di intervento regionali si sono orientate verso un preteso federalismo fiscale, che va chiaramente strutturandosi in base agli esclusivi interessi dei gruppi di pressione del Nord.
Siamo stati insomma sotto lo scacco di una logica politica miope e particolaristica, una logica che danneggia il Sud, e con il Sud danneggia la nazione intera. Perché bisogna rimarcare che i destini della nazione e quelli del Mezzogiorno in larga parte coincidono.
Questo significa che “Mezzogiorno questione nazionale” non è semplicemente uno slogan. E’ in primo luogo una evidenza con la quale è tempo di tornare a fare i conti.

E sono conti amari, bisogna dirlo con chiarezza.
Il sistema produttivo del Mezzogiorno ha in questi anni perso progressivamente contatto dai ritmi di crescita della capacità produttiva registrati nel Centro-Nord e nelle aree più sviluppate d’Europa. Con il risultato che in Italia, la povertà, la disoccupazione, il lavoro precario e quello nero sono sempre più esclusivo appannaggio del Mezzogiorno. Le statistiche parlano molto chiaro. Il divario con il Centro-Nord non solo non cala ma ormai da numerosi anni ha ripreso a crescere. L’andamento del reddito pro capite registra un progressivo allontanamento del Mezzogiorno dal Centro-Nord al punto che dal 2000 al 2008 il Mezzogiorno è cresciuto in media la metà del Centro-Nord: +0,6% contro +1%. Ma il divario non si misura solo in base al reddito. Se guardiamo alla erogazione dei servizi pubblici essenziali, o agli indici di salvaguardia ambientale del territorio, il Sud perde sempre più terreno rispetto al resto del paese.
Rispetto a questi pesanti dati di fondo la grande crisi che si sta abbattendo sul sistema economico internazionale agisce come una sorta di moltiplicatore dei divari tra le macroregioni. Le aree e i comparti più forti sembrano in grado di porre un qualche argine alla crisi, mentre quelle più deboli franano. Si badi bene che alcuni dei risultati più allarmanti si registrano proprio dalle nostre parti.
Penso all’esplosione della cassa integrazione che nella provincia di Napoli ha visto nei primi tre mesi del 2009 una crescita tendenziale del 168%, con una punta nel comparto meccanico pari al 254%. E penso al fatto che la Campania si situa ha chiuso il 2008 all’ultimo posto tra le regioni italiane per quanto riguarda il reddito pro-capite, e con il più pesante crollo dei ritmi di produzione di beni e servizi (nel 2008 in Campania il Pil si è contratto del 2,8%).
Purtroppo queste osservazioni vanno ulteriormente qualificate in senso negativo, ricordando che nel Mezzogiorno la congiuntura economica si manifesta sempre con qualche ritardo rispetto al Centro-Nord. E ciò a causa della ridotta integrazione dell’economia meridionale nel sistema degli scambi internazionali. Insomma, teniamo bene a mente che il peggio dalle nostre parti deve ancora venire.

Queste considerazioni sullo stato dell’economia meridionale e campana possono sembrare impietose. Ma io credo che sia indispensabile dirci come stanno davvero le cose, senza infingimenti. Credo infatti che sia necessario stendere un primo bilancio sui risultati della stagione di politiche economiche e sociali cominciata all’indomani della fine dell’intervento straordinario, con la cosiddetta “nuova politica per il Mezzogiorno” che ha accompagnato la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica e la stipula del Trattato di Maastricht, nei primi anni Novanta.
Una “nuova politica per il Mezzogiorno” che è stata teorizzata da economisti e studiosi di orientamento più o meno progressista, irretiti dal fascino della concorrenza e dalle teorie neoclassiche che hanno esaltato negli anni scorsi la perfezione dei meccanismi spontanei di riequilibrio del mercato. Una “nuova politica per il Mezzogiorno” che è stata sostenuta ed attuata soprattutto dai governi nazionali e locali di centrosinistra e che ha avuto ben noti leader nazionali ed altrettanto noti leader locali, sindaci e presidenti di regioni.
Purtroppo, lo dico subito, il bilancio della “nuova politica per il Mezzogiorno” è da ritenersi complessivamente negativo. E ciò perché tutti i vincoli, tutte le “strozzature” allo sviluppo del Sud che erano presenti alla fine degli anni ’80 non sono scomparsi, ma anzi si sono persino aggravati. Penso alle principali caratteristiche negative dell’economia meridionale: la ridottissima dimensione media delle imprese; il prevalere di un modello di specializzazione produttiva fondato sull’impiego di tecnologie tradizionali e, in molti casi, superate; la scarsa quantità e qualità delle infrastrutture; le difficoltà nell’accesso al credito bancario; la diffusione dell’economia irregolare e criminale.
Siamo dunque al cospetto di una stagione di politiche per il Mezzogiorno che ha segnato un insuccesso. E credo che questo serva a spiegare non poco anche il deficit di consensi registrato dalle coalizioni di centrosinistra nel Mezzogiorno; qui evidentemente il pensiero va alle sconfitte elettorali recenti, rispetto alle quali non ci si può certo nascondere dietro un dito o dietro qualche parziale affermazione di bandiera.
Permettetemi di sottolineare la necessità di assumere piena consapevolezza dell’insuccesso delle politiche economiche e sociali per il Mezzogiorno portate avanti in questi anni. Per ripartire con una nuova strategia di sviluppo per il Mezzogiorno e rilanciare le forze progressiste sul piano nazionale, e prima ancora su quello locale, qui a Napoli e in Campania, è indispensabile ammettere che si è sbagliato e comprendere dove si è sbagliato. E’ necessaria una critica del tempo presente per costruire una reale, credibile chance per il futuro.

Proviamo ad andare più a fondo nel ragionamento. Chiediamoci quali siano stati gli assi portanti delle politiche per il Mezzogiorno sostenute in questi anni dalle coalizioni progressiste.
Una prima riflessione credo che dovremmo svolgerla in merito agli effetti dell’apertura dei mercati conseguente alla unificazione monetaria. Negli anni passati su questo aspetto ha prevalso nettamente una posizione “ottimistica”, di ispirazione neo-liberista, eppure ampiamente sostenuta da alcune forze del quadro progressista. Una posizione secondo la quale il Mezzogiorno avrebbe dovuto trarre automaticamente vantaggio dall’integrazione con le aree più sviluppate. E ciò per effetto della specializzazione nella produzione e nell’esportazione di beni in cui il Mezzogiorno gode di un vantaggio comparato, essenzialmente rappresentato da un minore costo del lavoro. Secondo questo approccio, l’unificazione monetaria avrebbe offerto al Mezzogiorno una importante occasione di rilancio proprio perché sarebbe scattata a nostro favore la famosa “legge dei vantaggi comparati”.
Naturalmente, affinché ciò accadesse, occorreva favorire non solo la libera circolazione dei capitali ma anche la mobilità del lavoro e la flessibilità salariale. Occorrevano dunque politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro. Queste avrebbero infatti assicurato il contenimento dei salari, come effetto di una contrazione dei sistemi di protezione dei lavoratori in un contesto caratterizzato da ampia disponibilità di manodopera e disoccupazione.
In sostanza, secondo questo schema logico complessivo, la mobilità dei capitali e la flessibilità del lavoro avrebbero dovuto assicurare ampie delocalizzazioni in entrata nel Mezzogiorno e un rilancio della capacità d’esportazione del Sud. Insomma un vero e proprio volano dello sviluppo meridionale.
Purtroppo, alla prova dei fatti questi schemi di ragionamento ottimistici e basati sui meccanismi spontanei di aggiustamento del mercato sono risultati illusori. Gli unici effetti concreti si sono registrati nel mercato del lavoro, dove la deflazione salariale e la “trappola della precarietà” – per cui a un lavoro precario segue un altro lavoro precario e il contratto a tempo indeterminato resta per tanti un miraggio – hanno spinto ad una ripresa in grande scala dei flussi migratori verso il Centro-Nord.
Le responsabilità delle forze politiche progressiste sono purtroppo grandi. Penso al varo del Pacchetto Treu, che ha aperto la strada all’involuzione della legge 30 del 2003. E penso al sostegno alla decentralizzazione della contrattazione salariale. Lasciatemi a riguardo sottolineare quanto sia stata dogmatica e irresponsabile da parte di economisti ed esponenti politici la fiducia verso quei meccanismi di mercato. Al punto che non era a destra ma tra le fila del centrosinistra che fino a poco tempo fa si trovavano i più strenui sostenitori del taglio all’intervento pubblico e dei vincoli del Trattato di Maastricht.
Io credo che oggi si possa serenamente affermare che il Mezzogiorno ha pagato un prezzo caro per le politiche questi anni di apertura del mercato dei capitali, precarizzazione del mercato del lavoro e contrazione dell’intervento pubblico. E di tutto ciò oggi il centrosinistra paga un caro prezzo in termini di consenso, soprattutto nel mondo del lavoro.

Una ulteriore riflessione dovrebbe poi concernere le politiche di privatizzazione, cui pure le forze progressiste hanno spesso finito per indulgere, e gli effetti che queste politiche hanno avuto sul Mezzogiorno.
A questo proposito, oltretutto, bisogna tenere altissima la guardia, in questa fase, perché la voglia di preparare una nuova ondata di privatizzazioni al dine di concludere nuovi affari con la giustificazione di fare cassa in tempi di crisi è molto alta, e vedrete che tentativi in questa direzione ve ne saranno fin dal prossimo futuro.
Eppure sarebbe utile domandarsi quale sia stato l’impatto delle privatizzazioni degli anni scorsi, in Europa, in Italia e soprattutto nel Mezzogiorno.
Anche qui siamo al cospetto di un tema complesso, ma sul quale vi è ormai un’ampia letteratura. Penso ad esempio agli studi sulle privatizzazioni bancarie, che mostrano come ormai il Mezzogiorno sia l’unica grande area d’Europa priva di un suo sistema bancario. Le ricadute di questi fenomeni sono spesso sottaciute, ma sono in realtà gravissime.
Io vorrei qui limitarmi a sottolineare che il controllo sui flussi di risparmio e investimento privato nel Mezzogiorno è ormai esterno al Mezzogiorno stesso. E vorrei sottolineare quanto si impoverisca un’area quando i flussi di profitti sistematicamente fuoriescono da essa, specie se vengono meno i guadagni in termini di efficienza ed abbattimento dei costi del credito che pure erano stati pronosticati dai soliti economisti neo-liberisti.

Sul piano delle politiche industriali e territoriali, questi anni si sono caratterizzati dall’impegno delle Regioni nell’implementazione delle politiche di spesa che hanno sostituito l’intervento straordinario. Il riferimento è, in particolare, alla gestione dei fondi europei. Una gestione nella quale si è consumato un evidente fallimento.
Questa nuova stagione di intervento per il Mezzogiorno si è aperta, è bene ricordarlo, con la retorica che esaltava le piccole imprese e le tecnologie tradizionali, che lodava i distretti del made in Italy e le tradizioni locali, che chiedeva sostegno per le vocazioni dei territori e l’imprenditorialità diffusa. Elementi questi a cui si accompagnava non solo la critica a tutte le forme di intervento diretto dello Stato nell’economia, ma anche la condanna di qualsiasi strategia di sviluppo unitaria o centralizzata. Una filosofia che comprendeva anche la diffidenza verso la grande industria ritenuta sempre inevitabilmente inquinante e le cui scelte localizzative risultavano generalmente imposte ai territori.
Per queste ragioni il modello di intervento che si è progressivamente imposto in Campania e nel Mezzogiorno ha puntato sui sistemi di incentivazione “dal basso”, sul finanziamento dei progetti imprenditoriali elaborati da partenariati locali.
Purtroppo gli esiti della stagione degli strumenti della programmazione negoziata e delle politiche “bottom-up” è stata rovinosa dal punto di vista dei risultati. Essenzialmente queste politiche hanno finito per dare vita a un gigantesco sistema di intermediazione politica che generato poco sviluppo, che ha tenuto in vita un sistema di piccole imprese ormai fuori mercato, e che sostanzialmente ha erogato finanziamenti a pioggia. Insomma, l’impiego dei fondi europei non ha innescato nessun meccanismo di sviluppo endogeno, autopropulsivo, ma ha finito per fare della nostra regione un’area sussidiata ed assistita quanto mai in passato. È stato così che quella che avrebbe dovuto essere una strategia di politica economica ha finito per degenerare in una mera strategia del consenso. Se in Campania e nel Mezzogiorno vi è una vera “questione morale” che riguarda la politica è proprio questa: il fatto che i fondi pubblici, in particolare i fondi europei, non siano serviti a innescare lo sviluppo ma di fatto abbiano finito solo per alimentare un consenso miope e talvolta persino da accatto.

Insomma, le politiche per il Mezzogiorno caldeggiate dal centrosinistra in questi anni – pur con distinguo ed eccezioni – hanno registrato significativi insuccessi. E oggi il Mezzogiorno si trova in una posizione più arretrata rispetto al Centro-Nord rispetto agli anni dell’intervento straordinario. Ed inoltre corre oggi il rischio di essere preso e lungamente dominato dalle destre, cioè da forze politiche e sociali la cui testa pensante si situa chiaramente e indiscutibilmente al Nord, e le cui diramazioni meridionali colludono sistematicamente con l’economia ultra-sommersa e talvolta criminale.
Insomma, la verità è che il fallimentare liberismo di sinistra di questi anni apre oggi la strada a soggetti politici che puntano a fare del Sud una terra bruciata e ancor più servile, utile solo a caricare voti a basso costo.
In questo quadro risulta particolarmente negativa la realtà della nostra regione che, accanto all’involuzione dell’apparato produttivo, ha scontato numerose altre emergenze, tra cui quella dei rifiuti.
Per tutte queste ragioni credo si debba dire con chiarezza che un ciclo politico e di politica economica si è concluso e che sarebbe auspicabile che le forze intellettuali, sociali e politiche del mondo progressista riescano a far partire un ciclo nuovo.
Ogni sterile riproposizione delle vecchie politiche e delle vecchie logiche di questi anni non farebbe infatti che aggravare la realtà del sottosviluppo per poi consegnare inevitabilmente le redini della politica economica e sociale nelle mani delle forze più retrograde. Serve insomma una profonda discontinuità, non solo o non tanto un cambiamento di nomenclature bensì una vera discontinuità nell’analisi e nel quadro delle strategie di politica economica e sociale. Ripeto: se non ce ne rendiamo conto e se continuiamo a discutere di rilancio solo in termini di coalizioni e intese tra apparati e non sul merito delle cose, semplicemente allungheremo l’agonia attuale. Occorre cogliere una sfida “alta”, per una politica economica alternativa.

Per comprendere allora quale sia la direzione lungo la quale muoversi è opportuno rivolgersi alle accurate analisi del cosiddetto “nuovo meridionalismo”. Mi riferisco ai recenti studi che in ambito scientifico hanno aggiornato i modelli dualistici di sviluppo degli anni ’70 alla luce degli effetti della unificazione monetaria e più in generale dei meccanismi di mercato attivati dal quadro macroeconomico definito a Maastricht. Ebbene, questa letteratura ha ormai mostrato – per dirla con il premio Nobel 2008, Paul Krugman – che il Mezzogiorno non è più un caso isolato e che su scala europea sono attivi processi di mezzogiornificazione imponenti. Cioè processi spontanei di crescita del divario tra centri e periferie.
È chiaro che per contrastare la crescita dei divari regionali occorre contrastare le forze spontanee del mercato che vanno proprio verso l’accentramento dei capitali e dello sviluppo. Serve un quindi un imponente intervento pubblico. E ciò conduce a ritornare a discutere criticamente i vincoli posti alla spesa pubblica dal Trattato di Maastricht e a una necessaria riattribuzione di ruoli e risorse alla spesa pubblica per il Mezzogiorno. E ciò significa che occorrerà spingere per un superamento della logica attuale del Patto di Stabilità Interno.
Accanto alla questione della quantità della spesa occorrerà anche tornare a discutere di qualità della spesa. Ed è su questo terreno che una forte discontinuità a livello locale si presenta indispensabile. Ciò significa essenzialmente dismettere la logica delle politiche bottom-up e dei finanziamenti a pioggia per indirizzare i finanziamenti secondo strategie di sviluppo che possano innescare processi di crescita veri. Insomma, significa ragionare in termini di programmazione economica e pianificazione territoriale.
Al centro di questa azione occorrerebbe collocare le politiche industriali, nella consapevolezza che per promuovere uno sviluppo che non sia subalterno e che possa essere autopropulsivo occorre una capacità di produrre beni e servizi all’altezza della concorrenza internazionale. Ciò significa che le politiche industriali non possono essere indirizzate che a far compiere al tessuto produttivo meridionale un “salto tecnologico”. In altri termini spingere le imprese a crescere nella loro dimensione media, ad utilizzare tecnologie avanzate e lavoro di qualità.
Al tempo stesso occorre difendere le risorse pubbliche e i servizi pubblici fondamentali che, nell’interesse generale, devono restare in mano pubblica. Il punto di partenza qui credo che dovrebbe essere costituito dal servizio idrico integrato che dovrebbe essere sottratto dal rischio di una gestione privatistica ed essere affidato ad un soggetto interamente pubblico, ad una azienda speciale.
Questa azione non può che svolgersi in un quadro di difesa dei ceti più deboli minacciati dalla crisi e di rispetto per il territorio, nel quadro delle regole territoriali ed urbanistiche, che già troppe volte è stato sottoposto a saccheggi.

A questo riguardo, vorrei parlare chiaro, con assoluta franchezza. Da quando sei mesi fa ho assunto l’incarico di assessore al Bilancio e alle Risorse strategiche del Comune di Napoli, ho intrapreso con convinzione persino un po’ caparbia una linea di indirizzo politico esattamente fondata sui principi appena enunciati.
Ho sostenuto in questo senso una strategia basata sulla massima trasparenza dei bilanci, sulla individuazione degli sprechi, sulla difesa e sul rilancio del servizio pubblico, e sulla tutela delle fasce più deboli della popolazione. Una strategia, insomma, di “rigore nel pubblico per la difesa del pubblico”.
E in effetti, qualche passo in avanti in questa giusta direzione lo abbiamo fatto. E di qualche successo possiamo addirittura andar fieri.
Tuttavia una vera e soprattutto vincente discontinuità richiede più massa critica.
In questi mesi abbiamo infatti anche compreso una cosa: un pieno rinnovamento richiede più forza politica e quindi, a mio modesto avviso, richiede più partecipazione sociale, richiede più democrazia, richiede un contatto continuo e più diretto tra i responsabili dell’amministrazione e le forze sane e vive della società.
In questo senso, io credo che per il prossimo futuro occorrerà prepararsi adeguatamente affinché le forze progressiste possano presentarsi alla opinione pubblica in modo convincente, sappiano cioè suscitare speranze fondate e chiamare a raccolta nuove energie, sulla scorta di un programma nuovo, di un nuovo e più trasparente, più partecipato rapporto con i cittadini, di un rapporto che sappia fare tesoro delle difficoltà, degli errori, delle nefandezze, e delle enormi disillusioni di questi anni.
Ecco perché io credo sarebbe molto utile se le forze progressiste, le forze vitali e sane di questa città intraprendessero un percorso nuovo, un percorso comune e partecipato, che conduca a breve termine alla costituzione di un manifesto politico.
Un manifesto che invochi e indichi una chiara, precisa linea di discontinuità e di innovazione programmatica per il futuro della nostra città, della regione, e del Mezzogiorno.
Un manifesto è un po’ come il primo, decisivo mattone di un edificio politico. Un manifesto cattivo e autoreferenziale crea le premesse per un edificio brutto e fragile.
Ma noi vorremmo un edificio bello, solido, e soprattutto lo vorremmo costruire assieme. Per questo credo che questo possa essere il tempo di chiamare a raccolta le energie sane di questa città per lavorare assieme all’apertura di una nuova stagione di partecipazione civile e politica. Partecipare alla costruzione di un manifesto, per definire obiettivi condivisi e ben delineati, può essere una operazione di maniera, oppure al contrario può essere una opera serissima, e tutt’altro che semplice. Personalmente lo concepisco come un modo diverso per concepire l’azione politica in una città e in una regione afflitte dall’autoreferenzialità del potere. E soprattutto può costituire un primo modo per stabilire un reale contatto, per costruire canali duraturi di comunicazione, un modo per iniziare a misurarsi da vicino, per valutarsi e per giudicarsi sempre reciprocamente e sempre a viso aperto.
Per questo abbiamo bisogno di tante forze, di tante competenze, abbiamo bisogno di mettere a valore ogni singola esperienza quotidiana.
Spero quindi che in tanti ci aiuterete alla elaborazione di questo nuovo manifesto, nella consapevolezza che solo da una chiara critica del presente possa scaturire una concreta speranza per il futuro, vale a dire una credibile, precisa alternativa di politica economica e sociale, costruita non astrattamente e dall’alto, ma su basi democratiche, sulla base della esperienza e della partecipazione di tutti coloro i quali credono che una politica onesta e rigorosa in questa città e nel Mezzogiorno non sia affatto una chimera da anime belle, ma sia una possibilità concreta sulla quale si può e si deve scommettere. Grazie.